Sulla questione maschile

suicidio-120417121154_big di Gianni Biondillo

La letteratura non mi aiuta. Troppo alti, troppo nobili i suicidi nelle pagine dei libri. Le delusioni amorose di Werther, quelle politiche di Jacopo Ortis mi risuonano sorde, oggi, lontano da tanta temperie romantica. E neppure il mio amato Leopardi, la sfida alla natura matrigna di Saffo o Bruto, mi basta: il suo resta il racconto di gesta eroiche, per quanto esistenziali e individualistiche. Oggi sembra si muoia soli, senza spiegazioni; quelle scritte nelle lettere d’addio sono, spesso, solo pezze che non chiariscono nulla.

Sempre più, in questi ultimi anni, le notizie sui sucidi trovano spazio sui media. Pare quasi una epidemia. Basterebbe controllare i dati Istat per scoprire che non è vero. Nei paesi Ocse l’Italia ha uno dei livelli più bassi di mortalità per suicidio e fra il 1993 e il 2009 la percentuale sembra diminuire, lentamente, di anno in anno. Ma si sa, le statistiche bisogna saperle leggere, fermarsi al dato bruto è un errore.

Bisognerebbe studiare i dati nel dettaglio. Scopriremmo così che se i tentativi di suicidio quasi si equiparano fra i sessi (con lieve predominanza maschile), i suicidi reali hanno una supremazia maschile che impressiona. Solo uno su quattro è femminile. Se cercare la morte è una tendenza condivisa fra i sessi, trovarla, riuscirci, morire per davvero, è cosa di uomini.

Non basta. I dati forniti dalla Polizia di Stato e dai Carabinieri dicono ancora altro. Vero: dal 2007 al 2010, cioè dall’inizio della crisi economica, i tentativi di suicidio sia maschili che femminili sono comunque diminuiti, da 3234 a 3101. Ma analizzando le tabelle scopriamo che mentre i suicidi reali femminili diminuiscono, quelli maschili aumentano in modo considerevole. Da 2201 a 2399. Vogliono morire e ci riescono. Si uccidono soprattutto nel Nord-Ovest e nel Nord-Est, dove la crisi ha colpito durissimo. Hanno più di quarant’anni, un titolo di studio medio basso. Sono spesso padri di famiglia. Spessissimo sono padri separati.

È come se la crisi avesse scoperto il vaso di Pandora mettendo in mostra la rigidità del modello maschile italiano e la sua incapacità di adattarsi al cambiamento.  La sua tragica inadeguatezza. Le donne, di fronte al disperdesi dello stato sociale, per antica formazione alla cura familiare, tengono botta, resistono. Gli uomini, perduta la dignità del lavoro, perdono il loro ruolo sociale. Si fanno anomici. Non sanno come reagire, non hanno l’armamentario adatto, e nelle loro espressioni più acute, reagiscono dando la morte. Spesso a se stessi, altrettanto spesso alle loro compagne o ex compagne.

Si parla da qualche tempo, a ragion veduta, di una questione femminile, ma forse dovremmo avere il coraggio di iniziare a parlare anche di una sempre più virulenta questione maschile. Non credo nelle interpretazioni atavista dei dati statistici. Siano esse per suicidio o per femminicidio. Non credo nel numero fisiologico, endemico, “naturale”, di morti. La natura dell’umanità è culturale. Non si da la morte, non ci si toglie la vita, per istinto, per naturale condizione di genere. È una spiegazione pilatesca, farraginosa, miope.  Vecchia come è vecchio il modo di guardare all’universo maschile.

Non è un caso che i giornali abbiano iniziato a raccontarcele queste storie. Non perché ora all’improvviso fa tendenza, va di moda. È l’indicatore, invece, di una nuova sensibilità. Per decenni s’è taciuto, come se morire nel chiuso del proprio appartamento fosse un fatto domestico, una vergogna privata. Ma la percezione di questi fenomeni sociali sta cambiando. È cambiata. Proprio come è accaduto con i padri separati, che decenni addietro vivevano la loro condizione come una questione personale, un’onta da non raccontare: negli anni – cambiando culturalmente la propria idea del ruolo genitoriale – hanno sempre più avuto il coraggio di mostrare la loro ferita, associandosi, ritrovandosi per parlarne, cercando solidarietà, aprendosi al mondo con tutte le loro contraddizioni.

La società italiana è ancora profondamente maschilista, in una realtà che non può più reggere questi modelli obsoleti l’irruzione della crisi economica ha aumentato in modo esponenziale il senso di spaesamento sociale. Cartina di tornasole, in fondo, sono i dati dei suicidi in Italia nelle comunità di non italiani. In quei casi la percentuale femminile aumenta sensibilmente, passando ad 1 su 3, in certe realtà anche 1 su 2. Senza un’identità chiara, senza diritti, senza una rete sociale, anche le donne perdono la loro forza solidale, si ritrovano deboli e inadeguate tanto quanto gli uomini.

Se la crisi economica non cambierà presto di segno (e quanta è grande la responsabilità della nostra gerontocrazia politica!) leggeremo ancora, purtroppo, altre di queste storie. Quello che dobbiamo fare dal punto di vista culturale è stimolare e non ostacolare l’inevitabile cambiamento dei nostri ruoli di genere, ancora troppo statici, evitando pericolose nostalgie, allargando la rete di solidarietà e il sistema dei diritti condivisi. Cercare, insomma, di non avere quelle morti private, quei talenti inespressi, siano essi di donne o di uomini, sulla nostra coscienza collettiva. Farlo, ora.

(pubblicato su L’ordine, inserto domenicale de La provincia di Como, il 3 novembre 2013)

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6 Commenti

  1. Condivido. Confondere i ruoli. Ma anche ridimensionare, per dio, l’idea del lavoro come funzione e condizione dell’identità. Separare con buoni discorsi gli uomini dalla melassa che formano tutti assieme immettendo in giro un po’ d’autentico sano letterale individualismo, che se faccio di giorno il giornalaio svogliato e di sera metto insieme modelli di automobili, sono, prima di tutto, nella vita, uno che mette insieme modelli d’automobili. E punto.

  2. Pare, secondo il buon senso delle nonne, che quando una donna rimane vedova, se la cava, se rimane solo un uomo, sono guai, si perde, fa “una finaccia” (diceva la mia, di nonna). Dicono pure – non posso citare alcuna fonte statistica, solo le voci da salone per capelli, a volte sensibilissime sonde dei costumi sociali – che gli uomini sposati campano in media più a lungo dei single. Potremmo attribuire la diceria alla vecchia morale cattolica della famiglia ad ogni costo e liquidarla come leggenda popolare alimentata dal pregiudizio religioso, se non fosse che gli esseri umani hanno la tendenza a credere alle storie che raccontano su se stessi.
    Allora sommiamo perdita di senso data dalla fine (a volte finanziariamente rovinosa, a causa della crisi economica) del ruolo di breadwinner, propensione storica all’individualismo (tendenzialmente, le donne, anche in vecchiaia, continuano ad esercitare il loro secondo lavoro di sempre: la cura degli anziani e/o dei nipoti), antagonismo tradizionale più quello aggiornato quotidianamente dal capitalismo liberista, e cominciamo a comporre il puzzle di questa crisi del maschile, che a volte travolge con sé compagne, ex compagne e prole.
    Diciamo però chiaramente che questo quadro riguarda solo la crisi del maschile ETEROSESSUALE (ché altre sono le ragioni dei suicidi gay, che pure fanno statistica, ma che in questa analisi, Gianni, rimangono silenti).
    Per un attimo, però, mi è passato per la testa che persino ai maschi etero in crisi farebbe bene la concessione dei pieni diritti civili agli omosessuali, ché si aprirebbe sulla scena dell’immaginario la possibilità di forme di vita alternative, di reti, non necessariamente erotiche, ma (come da sempre accade tra donne), omoaffettive, di dimensioni della cura e del sostegno che non debbano passare per le ataviche logiche patriarcali e riproduttive.
    Una buona notizia proprio per te, infine: sembra che ci sia tanto da fare e immaginare per romanzieri e raccontatori di storie…

    grazie e un saluto caro,

    r

    • Quel che si ascolta dal parrucchiere riceve spesso conferme autorevoli, concordo.
      Agli elementi di crisi indicati da renatamorresi aggiungerei la componente per così dire “anelastica”, una difficoltà ad accettare se stessi in ruoli differenti (anche il pensionamento è più critico rispetto alle donne) mantenendo una sufficiente autostima.
      Per ridurla mi sembra importante, in prospettiva, l’innovazione pedagogica, dalla scelta dei giocattoli in avanti…

    • Il problema all’origine di ciò che resta silente mi pare è che Biondillo scrive:
      “Non credo nel numero fisiologico, endemico, ‘naturale’, di morti. La natura dell’umanità è culturale.”
      però l'”analisi” resta inconsapevolmente dentro un orizzonte eterosessista e genderista, solo il dato etnico fa timidamente capolino insieme a quello economico. C’è una seduzione per questa idea curiosa di comprendere il mondo dividendolo prima di tutto in femmine e maschi (implicitamente definiti secondo gold-standard ideologici).

      • Mai diviso il mondo in maschi e femmine. Questo pezzo parla di suicidi maschili. Se parlasse di suicidi in generale, senza focalizzarmi su un genere, avrei scritto un altro pezzo.

  3. […] In un periodo in cui si parla spesso di una questione femminile legata alla drammaticità del tema del femminicidio sembra strano, a prima vista, trovarsi di fronte ad un articolo che parli di suicidio con un’ottica di genere squisitamente maschile. Eppure vi dico che questo articolo è un forte stimolo ad abbandonare una visione culturalmente arretrata di un mondo chiuso in stereotipi legati tanto alla questione femminile quanto a quella maschile. Un invito a pensare ad una questione legata alla sfera più ampia dell’individuo e alla sua identità. Ciò che mi è piaciuto, e che condivido pienamente, è la necessità di riformare l’idea in cui strettamente stanno le definizioni dei ruoli e le sofferenze legate alla rigidità degli schemi imposti dal sistema entro cui tutti noi viviamo. I casi di suicidio fra uomini aumentano, rispondono ad una tragica inadeguatezza ai ruoli sociali ed economici ed una mancata possibilità di adattamento al cambiamento. Tuttavia il dato positivo di questa tragedia è il fatto che oggi almeno si possa parlare di queste morti, ci si fermi per un attimo a riflettere sugli eventi. Forse la sensibilità maschile sta cambiando- diventando meno “maschile” e sarebbe ora di porre l’attenzione a questo cambiamento e di offrire l’opportunità alla società di rispettare le individualità, in quanto tali, in un’epoca di totale smarrimento. Se avete voglia di approfondire un tema molto interessante, leggete qui… […]

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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