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In tutti i quartieri, in tutte le grotte

In tutti i quartieri, in tutte le grotte

di Orso Tosco

Fu prima che mio cugino Barala si trasformasse in un assiduo giocatore di dadi, prima che gli venissero spezzate entrambe le braccia a causa di una storia di parcheggi e diventasse padre di un bimbo paffuto e felicemente stolto.

Io e Barala in quella lontana estate friggevamo cozze.

La cosa può sembrare strana e far nascere dubbi inopportuni nei più giovani. A questo proposito voglio fare una precisazione: nemmeno allora si potevano mangiare le cozze, e nemmeno le cicale di mare, il tonno e i cigni, tanto meno il sedano rapa e le noci.

Il motivo per cui io e Barala friggevamo cozze va imputato a una moda del periodo, moda eccentrica che consisteva nel far svolgere mansioni inutili, ma all’apparenza produttive, a giovani bisognosi di danaro.

C’era chi veniva ingaggiato per affrancare missive dirette al macero, chi conduceva programmi radiofonici trasmessi esclusivamente in caseggiati di sordi, altri impartivano lezioni di educazione sessuale ai moribondi, i più pazienti avevano l’incarico di sussurrare parole dolci a cubetti di ghiaccio lasciati a sciogliersi sotto il sole cocente o davanti ai camini delle baite, dove risposano gli sciatori abbronzati.

Io e Barala lavoravamo duramente, friggendo cozze per dieci, undici ore al giorno. Una cozza alla volta, davanti ai villeggianti che, a loro piacimento, potevano scegliere se gettarle per terra, tra i piedi dei ballerini, o in mare, contro le onde, oppure per aria, come coriandoli, come riso sugli sposi.

Il caldo opprimente della cucina non aveva nessuna imprecisione, era compatto come un’esplosione e bombato come un’auto d’epoca. Io bevevo gin liscio, tiepido, e piangevo delicatamente, un pianto elegante, da vecchio militare disilluso durante un funerale.

Avevo trentuno anni, i capelli lunghi e la mano destra mi tremava un poco.

Piovessero bagasce con le gambe aperte e cento euro in bocca, diceva di tanto in tanto Barala.

Altre volte sputava nel pan grattato, e si grattava la testa. In entrambe le occasioni il Signor Carpi, il nostro datore di lavoro, colpiva Barala con un barattolo di conserva o una lattina di acqua tonica, dipendeva dalle disponibilità della dispensa.

Spesso Barala sanguinava dalla testa rasata e la cosa lo rendeva incredibilmente felice. Continuando a impanare le cozze aspettava che il sangue gli colasse sulle palpebre, sul naso, e una volta arrivato alle labbra apriva la bocca, lasciava uscire una lingua come di bue bollito, per leccare il proprio sangue, poi si voltava verso il Signor Carpi e diceva tutto contento, per fortuna che piove, per fortuna che piove vino.

Allora il Signor Carpi gli sorrideva paterno, gli si avvicinava e diceva, sei un spreco di vene Barala. Poi lo abbracciava e usciva sul terrazzo che dava sulla spiaggia di ciottolato per bestemmiare al cielo con una voce tutta canterina.

Il Signor Carpi era stato uno scrittore di thriller storici in gioventù, sosteneva di conoscere tutte le pieghe dell’animo umano, e che non differivano più di tanto da quelle del buco del culo.

Aveva un sorriso ampio e paralizzato, da torta glassata, profumava quasi sempre di lavanda e ci pagava in nero.

Mi domandavo spesso come facesse a emanare quell’odore di lavanda, di campo di lavanda, in mezzo a tutto l’olio fritto da cui eravamo circondati. Si trattava di barili e barili, appoggiati sopra fuochi enormi che emanavano un fumo scuro, viscido e urticante, e lui, il Signor Carpi, vi camminava dentro trasportando i vassoi stracolmi di cozze fritte, e riusciva a uscirne indenne, profumato come subito dopo una doccia.

Barala, che era ed è rimasto un uomo dalle risposte semplici, a forma di presina, ipotizzava un trucco, un qualche trucco.

Io invece, pur non ammettendolo, avevo una mia teoria: il Signor Carpi era morto da tempo, ma il suo modo di morire non comprendeva l’abbandono delle faccende quotidiane e la lavanda, l’odore di lavanda, serviva a rimarcare, con tatto, la propria diversità.

Era onesto il Signor Carpi, non uno rimasto in circolo per barare.

Nelle rare pause mi piaceva fumare guardando la spiaggia, dando le spalle alla cucina, poco lontano dallo spurgo della ventilazione. Coperto dalla nube di fumo della friggitoria mi sembrava di essere il macchinista di un battello a vapore, ed era bello lasciare che il vento mi scuotesse i capelli e li facesse appiccicare alla fronte umida di sudore e fritto. Il brivido frizzante che mi impreziosiva la schiena piena di nei, finiva col farmi sentire responsabile per i figli dei villeggianti, come si trattasse di passeggeri del mio battello, come se stessimo navigando lungo un Mississippi di Napalm e fenicotteri.

Li osservavo, questi giovani mocciosi già tanto arroganti, mentre sbucciavano litchi a forma di scoiattolo, gareggiando su chi avesse una migliore assicurazione medica, e provavo una forte, assurda tenerezza, talmente forte da soffocarmi, come avere una sciarpa arrotolata sul cuore.

E, chissà perché, finivo col pensare ai quarantenni sudati in ufficio, mentre imitavano con le mani le movenze di un chitarrista morto, agitandole per aria. Pensavo alle formiche, alla precisione delle formiche, e alle anestesie totali, pensavo a chi seleziona le scale cromatiche per gli interni dei treni e alle costellazioni indifferenti.

Fu durante una di quelle pause che la vidi.

Si alzò da una sdraio in penombra e stirò entrambe le braccia. Lo scricchiolio delle ossa era perfettamente accordato al rumore della risacca. Sul suo ventre bianchissimo il sale aveva tracciato alcuni capelli bianchi. Capii da ciò che sarebbe stata bellissima sino alla fine, anche da vecchia. Le labbra carnose ma schive avrebbero potuto custodire un pianoforte a coda, un’orchestra intera. Gli occhi scuri, abbagliati dalla luce estiva, schiarirono come un fischio, rendendo il sole nient’altro che varechina servizievole. La spiaggia intera, gli industriali, i manipolatori genetici, le molte infermiere e la costa, depurata dal cemento di qualsiasi possibile incendio, persino il cielo, sfocato e magro di nuvole, tutto quanto era stato eseguito affinché lei sbadigliasse soffice contro il palmo della mano, e poi guardasse con improvvisa ferocia il muro davanti a sé, in modo, subito dopo, da trovare la giusta tensione per bere un sorso di acqua di cocco con la flessuosità di una saltatrice con l’asta.

Il Signor Carpi mi insultò da dentro la cucina. Dovevo andare. Poco prima di rientrare mi voltai a guardarla. In quell’istante anche lei mi guardò, sorrise.

Scoppiò improvvisamente una gloriosa previsione meteorologica che prevedeva me soltanto come unico elemento essenziale, fu come se mi avessero scuoiato con gioia estrema, come se la mia pelle fosse diventata carta sollevata dallo sbuffo di una balena e poi polvere da sparo: ogni mia minima particella esplose a formare una mimosa di cellule devastate e felici.

Il mio sorriso, temo idiota, era più nudo di qualsiasi scheletro.

Vuole dire forse qualcosa davanti alla compostezza scherzosa degli Appennini, o al deragliamento da rettili millenari delle placche terrestri?

Che importa: le mani del Signor Carpi mi trascinarono via. E io sperai, continuando a guardarla fino a quando il fumo ci separò, di esserle sembrato come un buffo personaggio che, immobile sui binari, salutando, nei pochi secondi che precedono l’impatto con un treno in corsa, ti fa innamorare. Mentre il Signor Carpi mi percuoteva con la consueta onestà, mi domandai se per caso esistesse una figura del genere, se fosse accettata, o per lo meno condivisibile.

Non potevo certo trovare risposte adeguate in quella cucina, non con tutte quelle cozze da friggere una alla volta, bruciandoci spesso, come chi accenda camini senza la dovuta maestria. Eppure mi bastava chiudere gli occhi per riuscire a ritrovare i suoi, l’intensità involontaria dei suoi occhi, il movimento delle palpebre, orologi di sabbia senza sbavature, e il ritornello da autostrade splendidamente in rovina delle sue pupille.

È bello essere vittime di una luce intensa e nascosta. Fa sembrare il macello insensato delle ore come una piccola danza, una danza disinvolta, e le montagne ci sorridono, mi sorridevano, lo stesso facevano i gabbiani cacando, e questa fu la loro poesia, nascosta nell’urlo che fa più scuro il mare. Sognavo le sue ciglia e le speravo immobili, come ossa lasciate in pace dall’anatomia, eternamente sconosciute, raggiungibili soltanto da baci esperti e miseri, da baci come i miei.

Mi sfioravo le labbra, allora, perché il naufrago ha il dovere di accarezzare i legni della sua zattera. Se la natura non avesse fatto lo stesso non avremmo avuto le zebre e nemmeno l’estinzione dei dinosauri. Che altro sono questi ciclici cambi d’abito, se non l’equivalente del tremolio di una mano destra sporca di olio di semi?

Bisogna imparare dai minerali, dalla loro meravigliosa, spasmodica maniera di essere prolissi senza mai, assolutamente mai dare l’impressione di fare qualcosa.

Passai i giorni successivi a immaginare le giuste cose da dire casomai mi fosse capitato di poterle parlare. Si trattava di decisioni che dal cervello calavano sino alle viscere dello stomaco, come esploratori o ladri, e facevano una eco di mobili fracassati contro il pavimento acido di birra vecchia. Si trattava di decisioni dalla consistenza sabbiosa, refrattarie alla compostezza ridicola delle parole.

In ogni modo, l’estate, è un dito pieno d’anelli voluminosi, e noi siamo piccoli insetti, per questo la crediamo infinita, perché arrampicarci sopra ogni gobba d’oro o pietra contraffatta, innalzarsi sopra l’estremità di ciascun anello, ci pare l’eternità, e invece poi arriva l’unghia, ed è la fine.

Lei non tornò. Forse stanca dell’odore delle cozze fritte senza motivo. O del chiacchiericcio dei notabili del posto. Non la vidi mai più.

Un istante dopo mi svegliai di soprassalto, e mi accorsi che si trattava di poco prima di ieri.

Avevo cinquantadue anni, e ancora li indosso.

Mi hanno spostato in una grande città dove giovani ebrei con le trecce camminano veloci.

Mi pare giusto.

Qui il colore dell’erba ha la compostezza di un tiro di sigaretta dopo una decisione importante.

Soltanto mi capita, di tanto in tanto, quando elemosino attenzione o carote, di domandare con una voce da bambino: ma quelle nuvole lassù, non sembrano forse eroina montata a neve?

Allora la gente mi risponde severa, la gente dice: ma perché domandi cose del genere con tutta questa povertà, con questa distanza siderale dalla gioia?

È per abbracciarvi tutti, in tutti i quartieri, in tutte le grotte; questo penso. Ma non lo dico mai.

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8 Commenti

  1. “E`bello essere vittime di una luce intensa e nascosta. Fa sembrare il macello insensato delle ore come una piccola danza, una danza disinvolta, e le montagne ci sorridono, mi sorridevano”(chi e` Orso Tosco per scrivere cosi`,il mimo della pioggia?)

  2. forse ho conosciuto orso in notti da tregenda virtuale. E` grande. Ed e` greco. Ma ha paura delle commesse dell`Upim(come chiunque del resto). Gli elettrodomestici sono i suoi amici(e noi gli vogliamo bene)

  3. Ci tenevo a ringraziare tutte e tutti, per le belle parole e per i certificati d’esistenza. Baci. O.

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davide orecchio
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Vivo e lavoro a Roma. Libri: Lettere a una fanciulla che non risponde (romanzo, Bompiani, 2024), Qualcosa sulla terra (racconto, Industria&Letteratura, 2022), Storia aperta (romanzo, Bompiani, 2021), L'isola di Kalief (con Mara Cerri, Orecchio Acerbo 2021), Il regno dei fossili (romanzo, il Saggiatore 2019), Mio padre la rivoluzione (racconti, minimum fax 2017. Premio Campiello-Selezione giuria dei Letterati 2018), Stati di grazia (romanzo, il Saggiatore 2014), Città distrutte. Sei biografie infedeli (racconti, Gaffi 2012. Nuova edizione: il Saggiatore 2018. Premio SuperMondello e Mondello Opera Italiana 2012). Provo a leggere i testi inviati, e se mi piacciono li pubblico, ma non sono in grado di rispondere a tutti. Perciò, mi raccomando, non offendetevi. Del resto il mio giudizio, positivo o negativo che sia, è strettamente personale e assolutamente non professionale. d.orecchio.nazioneindiana@gmail.com Questo è il mio sito.
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