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La memoria del mondo

Navigando con Calvino, Google e la NSA

escher

di Domenico Talia

«La nostra organizzazione garantisce che questa quantità di informazione non si disperda, indipendentemente dal fatto che essa venga ricevuta o no da altri. Sarà scrupolo del direttore far sì che non resti fuori niente, perché quel che resta fuori e come se non ci fosse mai stato. E nello stesso tempo sarà suo scrupolo fare come se non ci fosse mai stato tutto ciò che finirebbe per impasticciare o mettere in ombra altre cose più essenziali, cioè tutto quello che anziché aumentare l’informazione creerebbe disordine e frastuono. L’importante è il modello generale costituito dall’insieme delle informazioni, dal quale potranno essere ricavate altre informazioni che noi non diamo e che magari non abbiamo.» Al contrario di quello che si potrebbe pensare, questo brano non è tratto da un discorso del generale Alexander, direttore della National Security Agency americana, ma da un breve racconto che Italo Calvino ha scritto nella metà degli anni ’60 e al quale lo scrittore delle cosmicomiche ha dato un titolo che sicuramente piacerebbe al capo della NSA: La memoria del mondo. Un racconto quasi dimenticato anche se ha dato il nome al libro, pubblicato per la prima volta nel 1968 dal Club degli Editori, che raccoglie insieme a questo racconto profetico, venti cosmicomiche calviniane.

Il discorso fatto in occasione di un finto passaggio di consegne tra due direttori dell’”archivio generale del tutto” riempie le sette pagine de La memoria del mondo, e in quel discorso scritto circa cinquanta anni fa, Calvino narra uno scenario reale al punto che oggi appare del tutto usuale. Uno scenario che i casi Wikileaks e Datagate (con protagonisti Julian Assange e Edward Snowden) hanno svelato in tutta la loro preoccupante drammaticità. Raccontando di un’organizzazione che costruisce “un catalogo di tutto momento per momento”, Calvino in pochissime pagine mostra come la spasmodica necessità di archiviare tutto quello che si conosce o si vuol conoscere di persone e fatti (“una memoria centralizzata del genere umano”) generi inevitabilmente intrighi, drammi e infine morte.

Quasi sicuramente il generale Alexander non ha mai letto quel racconto, ma ha fatto di tutto per farlo transitare dallo stato di una semplice cosmicomica a quello che una descrizione perfetta, fatta con decenni di anticipo, di uno scenario concreto, tangibile. Stessa cosa varrà anche per Larry Page e Sergey Brin, fondatori di Google, che pur non avendo sicuramente mai avuto il tempo di leggere il racconto di Calvino, hanno stabilito che la missione della loro azienda è “organizzare l’informazione del mondo”. Page e Brin fondarono Google mentre, da dottorandi della Stanford University, lavoravano allo sviluppo di algoritmi di data mining per analizzare grandi quantità di dati ed estrarre le piccole parti più interessanti da essi. Per uno strano parallelo, Müller, il quasi neo direttore della fondazione che archivia tutto nel racconto di Calvino, viene assunto vincendo il concorso di ammissione con il progetto “Tutto il British Museam in una castagna”.

Il Müller di Calvino viene istruito dal direttore uscente sul compito della fondazione che, oltre a riempire gli archivi di informazioni importanti su fatti e persone, spesso cataloga «sbadigli, starnuti, foruncoli, associazioni di idee sconvenienti, fischiettii» e li nasconde «nel pacco delle informazioni più qualificate.» Perché il ruolo del direttore, a cui Müller sembra essere stato chiamato, ha il privilegio «di poter dare un’impronta personale alla memoria del mondo.» E qui il racconto di Calvino prende una piega preoccupante, una piega che assomiglia in maniera sorprendente a quella del caso Snowden e all’uso improprio che delle informazioni raccolte negli USA si potrebbe fare in quella nazione o in altre a danno dei cittadini e delle regole democratiche. Quella piega preoccupante per tutti noi si disvela quando il vecchio direttore informa Müller del fatto che «nel materiale finora raccolto si nota qua e là l’intervento della mia mano; vi sono disseminati giudizi, reticenze, anche menzogne.» Ovviamente il tutto sarebbe fatto a fin di bene perché «in molti casi le menzogne … sono indicative quanto o più della verità.»

Calvino nell’epilogo del racconto mette un sigillo finale al rischio che è insito nella raccolta pervasiva e indiscriminata di informazioni sui privati cittadini e sui loro rappresentati pubblici. Raccolta di dati che la NSA, e non solo lei, fa esplicitamente, ma che tanti colossi del Web come Google e Facebook fanno grazie all’aiuto che gli utenti forniscono loro inserendo motu proprio moltissime informazioni personali e private che potranno essere usati anche contro la loro privacy e la loro libertà. Specialmente quando le informazioni diventano strumento di potere e potere stesso, può accadere quello che avviene nel racconto di Calvino sotto la guida del vecchio direttore dell’archivio del mondo che forza la realtà e la vita delle persone, comprese quella di Müller, perché «Se nella memoria del mondo non c’è niente da correggere, la sola cosa che resta da fare è correggere la realtà dove essa non concorda con la memoria del mondo.» E qui le informazioni conservate nel “catalogo di tutto” s’impongono come la verità che guida il mondo e piegano la realtà come i corpi celesti piegano il campo gravitazionale fino a renderla funzionale agli obiettivi e ai desideri dei detentori del potere, dei padroni della memoria del mondo.

Questa cosmicomica conferma lo scopo dichiarato di Calvino di voler non tanto costruire con la sua narrazione fantastica un nuovo tipo di fantascienza ma piuttosto tentare di narrare il quotidiano nei termini più lontani dalla nostra esperienza per elevare quello che è vicino alla nostra vita fino a farlo diventare paradigma che possa spiegare quello che ci accade al di là della contingenza. Calvino a suo modo pone con un anticipo sorprendente, il problema della verità dei dati oggi disponibili in Rete e delle informazioni – anche quelle spesso apparentemente banali e senza significato – che i governi e le loro agenzie raccolgono su ognuno di noi per le tracce digitali che ormai ci lasciamo dietro ogni giorno.

E’ interessante un confronto tra la narrazione di Calvino e le teorie sull’intelligenza digitale collettiva di Derrick de Kerckhove, allievo di McLuhan e studioso dei nuovi media e della cultura digitale. In una recente intervista, de Kerckhove ha espresso ottimismo circa la possibilità che gli uomini siano capaci di padroneggiare l’enorme massa di dati e informazioni che circolano nella Rete e, pur esprimendo preoccupazioni sull’uso che il potere fa della Rete e delle informazioni digitali oggi disponibili, crede nell’intelligenza collettiva che la Rete rende possibile come antidoto ai totalitarismi. Derrick de Kerckhove, pur cosciente dell’uso politico che di Internet si fa, crede che «i Big Data rappresentano una situazione in cui noi siamo bagnati d’informazione e dobbiamo capire se il nostro corpo, bagnato dentro quest’acqua, continua ad avere la sua individualità o se diverremo completamente trasparenti. Sono un momento di transizione in cui la comunità diventa più forte di quell’individuo che abbiamo conosciuto nel Rinascimento.»

In effetti, grazie alle tecnologie digitali e alla loro pervasività, oggi gli individui diventano sempre più trasparenti, perdono la loro interiorità, la loro privatezza per apparire sulla Rete in tutti i loro aspetti, anche quelli più intimi. Una società composta da questi individui diventa una società trasparente purtroppo non nel senso illuministico del termine – più trasparente, più illuminata – né il quello che il filosofo Gianni Vattimo cercava nel suo libro pubblicato una diecina di anni fa e intitolato appunto La società trasparente. Gli individui diventano trasparenti rispetto a chi li conosce per quello che mostrano e per come agiscono nella Rete, divengono un libro aperto per chi accede o “ruba” le loro personalità digitali (disegnate sempre più perfettamente dai loro dati) e la società diventa trasparente per chi accentra e analizza tutti i dati su tutti gli individui, per il potere che vuole avere la memoria del mondo, ma non necessariamente per le strutture democratiche che i cittadini hanno costruito e che devono garantire i loro diritti e la loro privacy. Alla fine i singoli sono meno liberi in una società trasparentemente esposta e pedinata tramite la Rete. Sono cittadini di una democrazia spiata e resa debole dalla sua trasparenza.

In un mondo in cui l’informazione spoglia le nostre individualità e ci attraversa, è pervasiva nel tempo e nello spazio, appariamo tutti meno protetti. Dunque diventa una necessità riflettere su come comportarsi, su cosa e come fare: imparare a convivere o difendersi? La nostra intimità diventa sempre più digitale e può essere invasa dagli strumenti tecnologici che l’uomo ha imparato a costruire. Un uomo che nelle sue élite diventa sempre più capace di approntare oggetti complessi e intelligenti e nella sua massa non riesce a costruire la necessaria coscienza per gestire la nuova vita che fa largo uso delle potenti tecnologie digitali. Gli individui diventano sempre più sensori nell’ambiente, sensori mobili viventi che alimentano la memoria del mondo accumulata dai pochi Grandi Fratelli che sorvegliano e guidano il mondo.

I sistemi perfetti non esistono, dunque anche la sicurezza perfetta non è di questo mondo e se qualcuno alla NSA mirava alla perfezione, la vicenda di Edward Snowden, tecnico che loro hanno selezionato e assunto, sta lì a dimostrarlo. Il caso Snowden è un effetto della costruzione della memoria del mondo, un effetto che potrà essere utile almeno per riflettere se la difesa della sicurezza dei cittadini e di una nazione richieda necessariamente uno spionaggio di massa, per comprendere quanto potere ha il popolo in una democrazia sorvegliata e per rifiutare una sorveglianza di massa condotta senza il consenso della maggioranza dei cittadini e senza che i cittadini stessi siano avvertiti di ciò.

Ogni tecnologia può essere usata per il bene o per il male. L’immensa quantità di informazione che viaggia sulle reti telematiche mette a nostra disposizione un’incredibile montagna di dati e informazioni che soltanto pochi sembrano in grado di padroneggiare. E ogni volta che la cerchia degli accumulatori e dei gestori si restringe il rischio per i cittadini e per le democrazie aumenta. Se questo rischio non si può del tutto eliminare, bisogna almeno lavorare per limitarlo richiamando i singoli e gli organismi della società ad ruolo attivo per creare leggi e strumenti critici basati sulla cultura della Rete e sulla coscienza dell’uso individuale e sociale delle tecnologie che eviti la vendita delle identità in Rete e vigili su tutti quelli che vogliono costruire la memoria del mondo e sui rischi di tali operazioni di gigantismo informativo che possono trasformarsi in manipolazioni di massa basate su verità fabbricate perché funzionali al dominio di pochi.

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4 Commenti

    • Grazie per l’eccellente! Oltre a raccontare un serie di coincidenze straordinarie tra quello che la letteratura sa immaginare e narrare e quello che la realtà costruisce, questo articolo vuol far riflettere sui pericoli di voler conoscere tutto di ogni cosa.

  1. scritto davvero prezioso (sarà che calvino lo stiamo un po’ dimenticando, specie le cosmicomiche). da incorniciare il passo seguente:
    «Se nella memoria del mondo non c’è niente da correggere, la sola cosa che resta da fare è correggere la realtà dove essa non concorda con la memoria del mondo.»
    tuttavia più che l’informazione “prelevata” dalla sfera privata di utenti ormai trasparenti, il problema mi pare il solito (manipolazione dell’informazione verticale, in ambito giornalistico e pseudo-giornalistico), forse accentuato dal fatto che lo stumento consente un’interazione non solo verticale, ma anche orizzontale e *obliqua* (nel senso che bot, fake e troll e task force ideologiche mascherate da interazione orizzontale possono essere assai spesso orchestrate da cabine di regia verticali).
    con buona pace di Derrick de Kerckhove, ho l’impressione che Calvino avesse già detto molto (se non tutto) e che più che di un’immaginifica “intelligenza digitale collettiva* stiamo parlando del solito essere umano: ebbenesì, la mano che utilizza lo strumento (tecnologico o meno) è sempre quella.
    : )

    • Quando l’imperfezione umana si illude di assurgere a perfezione e vuole forgiare il mondo spingendolo a diventare un immenso motore perfetto, il risultato è aberrante e molto più pericoloso della naturale imperfezione di cui siamo fatti e con cui dobbiamo imparare a convivere.

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Helena Janeczek è nata na Monaco di Baviera in una famiglia ebreo-polacca, vive in Italia da trentacinque anni. Dopo aver esordito con un libro di poesie edito da Suhrkamp, ha scelto l’italiano come lingua letteraria per opere di narrativa che spesso indagano il rapporto con la memoria storica del secolo passato. È autrice di Lezioni di tenebra (Mondadori, 1997, Guanda, 2011), Cibo (Mondadori, 2002), Le rondini di Montecassino (Guanda, 2010), che hanno vinto numerosi premi come il Premio Bagutta Opera Prima e il Premio Napoli. Co-organizza il festival letterario “SI-Scrittrici Insieme” a Somma Lombardo (VA). Il suo ultimo romanzo, La ragazza con la Leica (2017, Guanda) è stato finalista al Premio Campiello e ha vinto il Premio Bagutta e il Premio Strega 2018. Sin dalla nascita del blog, fa parte di Nazione Indiana.
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