Da “Sibber”

Cover.Sibber.per.11.04.14.wn di Walter Nardon

 1.

            Questa non è una storia come tutte le altre. Non lo è perché io mi butto via ogni giorno e la storia l’ho cominciata proprio adesso. Quindi, almeno questo lo posso assicurare. Mi butto via in modo sistematico, un po’ alla volta. Apro il giornale, guardo le immagini, i titoli, il taglio della pagina, l’insieme come un’unica immagine. Mi alzo, mi muovo per la stanza: passo molte ore alla finestra. E andrei avanti sempre così, se fossi coerente, se solo ogni tanto non mi facessi prendere la mano dallo studio, che è rimasto la mia ultima risorsa.

Tutto è nato da questo fatto. Sei mesi fa alcuni miei conoscenti avevano tentato di incoraggiarmi a prendere parte a qualche iniziativa sociale, visto che avevo del tempo da perdere. La cosa è un po’ più lunga. Dopo aver provato in vario modo, e per molto tempo, a partecipare a un’impresa pubblica – perfino con compiti di responsabilità – a un certo punto non ce l’avevo più fatta. Mi ero ritirato. Così, a qualche anno di distanza, hanno pensato di riprovare. Neanche a farlo apposta, però, proprio in quei giorni mi è arrivato l’invito di un’associazione che in qualche modo mi ha fatto venire in mente un’altra idea, mi ha fatto tornare la voglia dello studio. Questo ha cambiato le cose. Poi, naturalmente, la presenza di Helga ha favorito il resto.

 

2.

 

La terza seduta per organizzare un convegno sull’assistenza pubblica era conclusa e non ne era uscito molto. Il programma era stato definito, i relatori avevano confermato la loro presenza, ma la direzione incontrava ancora molte difficoltà nell’ottenere la Sala dei Dodici – sempre occupata dalle Commissioni comunali – sala che il Presidente e il Vice-presidente avevano individuato come unica sede davvero degna per l’incontro. Avevano il loro daffare. Del resto, le preoccupazioni per il decoro sono sempre molto serie. Io avevo approfittato di tutto quello slancio per farmi affidare un incarico di poco conto, vale a dire il controllo della logistica della sede e la predisposizione degli spazi per il convegno. Perfetto, per quello che avevo intenzione di fare e nello stesso tempo del tutto privo di responsabilità (che rimanevano sempre in capo al Presidente). Il Presidente e il suo Vice andavano in giro con una cartella azzurra nella quale tenevano il programma e alcuni fogli di appunti per preparare la serata. Dopo averne letto il contenuto ai soci – a titolo informativo – erano di nuovo usciti per recarsi agli Uffici comunali dove avrebbero visto un impiegato (che si fermava la sera a tener aperta la sala in occasione delle sedute del Consiglio Comunale). Liberi dalla necessità di dimostrare di essere in grado di fare qualcosa, i soci presenti alla serata si erano finalmente un po’ rilassati. Il cassiere scriveva a computer le ultime disposizioni e rivedeva i conti degli impegni precedenti. Gli altri facevano un po’ quel che volevano. Alcuni chiacchieravano; altri, seduti qua e là sulle sedie, leggevano il giornale. Cominciai a studiarne uno alla volta perché mi sembrò il momento di porre mano a un proposito considerevole che meritava di essere messo in atto con notevole urgenza, un proposito per il quale sarebbe risultato utile trovare il candidato migliore. Non erano rimasti che una decina di soci, tre dei quali si erano seduti nell’ultima fila.

Uno di questi, Sibber, un uomo di mezza età, tozzo, stempiato, stava leggendo il giornale con aria distratta, quasi in una pausa dell’attenzione che sembrava dover sempre prestare durante le attività ordinarie dell’associazione. Non era uno che parlasse molto. Leggeva il giornale, ma sembrava che pensasse ad altro (e devo dire che ho una certa esperienza di sguardi nel vuoto). Al suo fianco Ricciotti, un commerciante di dolciumi che era entrato da poco nell’associazione, stava rivedendo le inserzioni pubblicitarie della sua ditta. Chiamai Sibber in disparte, con la scusa di chiedergli un parere sulla condotta da tenere nell’organizzazione della sala per il convegno, in particolare per le lavagne e le bottiglie d’acqua da portare all’ultimo minuto. Avevo un incarico da offrigli, un incarico banale, eppure per me di vitale importanza. Gli dissi che lo avrei pagato perché camminasse davanti a me portando una valigia che gli avrei consegnato. Mi rivolse uno sguardo del tutto interrogativo. Fui sorpreso, pensai che avrei dovuto circondare questo proposito di maggior circospezione, perché Sibber, denunciando una diffidenza che direi assai più che normale, aveva subito cominciato a pensare a uno scenario da film americano e a mezze parole aveva lasciato intendere i possibili rischi, la paura che qualcuno ci potesse controllare e il suo timore – buttato lì per scherzo – per la mira e l’impazienza dei sicari.

“Ma quali sicari, Sibber, sei fuori di testa?” dissi allora, senza comprendere che poteva intendere qualcosa di diverso da quello che immaginavo. “Ti garantisco che la cosa è del tutto onesta, del tutto sicura”.

Sibber mi guardava con occhi quasi inespressivi, con un’interrogazione muta che non sapevo a cosa riferire. “Ma cosa vai a pensare, è una scemenza, ti dico. Ho solo bisogno di qualcuno che mi dia una mano”. Lui rimaneva in silenzio. Non sapeva mica sciogliersi, prendere la cosa alla leggera. “Naturalmente, ti mostrerò la valigia, il suo contenuto. Non vorrei che ti venissero in testa strane idee”. Ma Sibber ancora non si decideva, perché pensava che qualcuno potesse appostarsi a tener d’occhio la valigia, a prescindere da chi l’avrebbe portata. E’ incredibile quanto si debba faticare al giorno d’oggi per farsi dare una mano. Possibile che uno non possa accettare di essere ricompensato per il favore di portare una valigia? Se gli avessi detto la verità, ossia che avevo bisogno di studiarlo, certo non si sarebbe persuaso più facilmente, ma so bene che le cose più semplici rivelano sempre aspetti del tutto sconosciuti. Era preoccupato soprattutto del fatto che io avrei camminato dietro di lui, e non al suo fianco. In tono un po’ scherzoso, ma non troppo, continuò: “Guarda che quella gente non sbaglia un colpo.” “Ma Sibber, che diavolo dici? Sto parlando di attraversare la piazza e arrivare alla casa di mio fratello, vicino alla ex-prefettura”. Sul momento, non sapevo cosa pensare. Avrei dovuto capire che la nostra città poteva nascondere mille insidie, ma non volevo pensare di ignorare troppe cose improbabili riguardo Sibber, proprio nel momento in cui avevo avuto l’intuizione per la quale mi pareva di averne scoperta definitivamente una fin troppo evidente. Sibber mi era parso fin da subito il candidato ideale.

La contrattazione mi portò via una buona mezz’ora.

Alla fine, anche se con molta fatica, Sibber accettò, sia pur malvolentieri (aveva persino detto che avrebbe dovuto consultarsi con sua moglie prima di potermi rispondere – proprio sua moglie, da cui si diceva non vedesse l’ora di scappare), tuttavia, sono sicuro che se gli avessi chiesto di spingere un quarto di manzo sopra un carrello per tutta la strada, e di farlo vestito da arlecchino, non avrebbe avuto niente da ridire. Vedeva misteri dappertutto, il nostro Sibber.

*

Walter Nardon, Sibber, Milano, Effigie, 2014

 

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