Lana e les biches

Tuffo di Riccardo Ielmini

 

Filava tutto liscio, alla fine dell’estate 1989: il Muro al suo posto, la Democrazia Cristiana primo partito, io spencolato sul mio futuro, in cerca del disperato amore eterno. Tutto liscio, quando mio padre mi disse che il giorno dopo lo avrei accompagnato a trovare «il senatore».

«Giovanni, fai una bella doccia» intimò. Eppure sapeva che i suoi quattro figli erano sempre puliti, perché mia madre, con la sua pervicacia cattolica, ci aveva educato ad avere cura della nostra igiene personale. Eravamo gente semplice, e la pulizia era una delle armi che avevamo a disposizione per dire la nostra. Perciò non capii subito quello che invece mi fu chiaro strada facendo, e cioè che a mio padre premeva molto facessi bella figura. Papà era un mite assistente sociale e non era mai stato il tipo del politico baciapile, impegnato a trovare improbabili sponde per garantirsi una poltrona: troppo idealista, mon père, troppo buono per arrampicarsi sulla ruota panoramica stando in equilibrio sopra una vasca di pescecani. Mi confidò che aveva solo bisogno di confrontarsi con «il senatore» a proposito di alcune scelte urbanistiche che lo angustiavano come sindaco della nostra cittadina: un gigantesco lotto vista lago Maggiore che i socialisti premevano diventasse edificabile. «Una porcata», commentò mio padre con inaspettata brutalità: ma eravamo nel 1989, e i socialisti da un pezzo stavano mandando tutto a ramengo. Io questo non lo sapevo, come non sapevo che proprio a partire dal parere del senatore le cose avrebbero smesso di filare lisce per papà e per tutta la famiglia De Ambrosis: altrimenti glielo avrei detto – papà, non ci andiamo, io non faccio nessuna doccia per nessuna bella figura.

«Va bene» dissi, invece, pronto alla mia abluzione, perché ero un sedicenne educato e rispettoso, e le mie brevi, intermittenti e velleitarie rivolte al suo nume sarebbero scoppiate troppo tardi.

 

Per quel che ne sapevo dai discorsi galleggiati a mezz’aria sulla tavola del pranzo domenicale in casa De Ambrosis, «il senatore» – non lo si nominava mai per nome, ed io, che a quel tempo mi ero invaghito di Morrissey, non sopportavo l’aura da ancien regime di cui era circonfuso – il senatore, appunto, era stato, per lungo tempo, capofila della corrente democristiana della Base, e vantava un cursus honorum di tutto rispetto, che affondava le sue radici nell’inviolabile mito della Resistenza e si librava, gemmando in varie direzioni, fino all’olimpo delle più alte poltrone dello Stato. «Il senatore». Saremmo andati a trovarlo nella sua villa dalle parti di Morcote, lago di Lugano, dove risiedeva dopo aver sposato, negli anni del boom, la bizzosa rampolla di una potente famiglia della Svizzera italiana. Dalle nostre parti, su, al Nord, dicevano avesse addomesticato la ragazza (i più maligni, invece, che fosse stato addomesticato da lei). Si erano conosciuti quando il senatore era stato primo firmatario di alcune leggi a tutela dei frontalieri, la categoria che aveva sempre sollecitato le mie fantasie – una miscela di terroni, fuoriusciti, contrabbandieri e avventurieri di ogni sorta. E poi «aveva attaccato su il cappello», come diceva, sprezzante, nonna Regina, l’arcigna matrona di casa De Ambrosis, gelosa del nostro milieu piccolo provinciale, tutto dieci comandamenti, cervello fino e maniche tirate su.

 

Il viaggio durò poco più di un’ora. Il senatore ci accolse al termine di un vialetto che avevamo percorso a bordo della nostra Fiat 131. Si presentò in puro stile lombardo: sorriso parco, stretta di mano gentile, voce rarefatta. Era diverso da quello che mi ero immaginato. Sembrava impossibile che quella figura dimessa, di altezza media e con capelli bianchissimi potesse aver raggiunto posizioni di vertice nel partito d’Italia: non con quella camicia ordinaria con le maniche arrotolate al gomito. Era diverso, ma non vinceva i miei sospetti. Nonna Regina e mia madre mi avevano tirato grande con l’idea che ricchi e potenti meritassero sempre, e a priori, gelido scetticismo, ed io ero un loro discepolo fedele.

«Ah, lei è Giovanni, il figlio del nostro sindaco De Ambrosis» disse, amichevolmente avvolgendo le mie spalle con un braccio per guidarmi verso l’ingresso della villa. Aveva detto nostro per sottolineare che era pur sempre venuto grande nella stessa cittadina in cui ero cresciuto. Fui infastidito da quell’accorciamento unilaterale di distanze.

L’abitazione era maestosa: bianca e su due piani, con tetti spioventi che venivano giù in ogni direzione. Ci portò dentro. Le grandi finestre al pian terreno erano spalancate: era una giornata afosa. Intorno a noi, la luce lattiginosa dei mattini di fine estate nel distretto dei laghi.

Il senatore chiamò sua moglie. La donna apparve immediatamente. Ora mi stringeva la mano: una distinta signora di mezz’età, snella, con un vestito leggero, verde, su cui era appuntata una vistosa spilla d’oro. I capelli, biondi, erano tenuti in ordine da un cerchietto che scopriva un volto di cerbiatta, chiaro e deciso. Conclusi che le voci su di loro erano tutte manchevoli: quei due si erano addomesticati a vicenda, come succede fra ricchi e potenti.

Ci fu un breve andirivieni di cortesie: la consegna di un bouquet che mia madre aveva avuto cura di far preparare per il mattino stesso e la finta meraviglia per il panorama del grande parco verde che scendeva raso fino ad un piccolo boschetto di tigli, oltre il quale c’era il lago. La moglie del senatore ci fece accomodare in salotto, che sembrava colorato con pastelli Caran d’Ache. Una domestica depose prontamente, su un tavolino basso di vetro, caraffe con succo d’arancia, e biscotti.

«Ti fermi a pranzo, De Ambrosis?» chiese subito il senatore. Mio padre accettò l’invito senza nemmeno consultarmi. La moglie del senatore comunicò con fervore che sarebbe andata ad «organizzare il pranzo» (un’espressione che mi fece toccare la distanza fra il ménage di quella lussuosa residenza e il nostro stile di vita, orgogliosamente arroccato ad un’aurea modestia). La sentii parlottare con la domestica che era apparsa poco prima: aveva un tono di voce fermo ed autorevole. La regina della maison. Poco dopo riapparve in salotto e venne verso di me.

«Lei si annoierà, Giovanni, in mezzo a questi due signori» disse scoprendo un sorriso pieno di civiltà e buone maniere. «Senta: mia figlia è giù, al lago. Vada là, oltre quel boschetto di tigli: vede?» disse, avvicinandosi e prendendomi dolcemente per il braccio. Aveva un profumo deciso, da donna di mezza età che abitualmente cammina sui parquet e sprofonda in grandi sofà. «Le chieda di farle fare un’uscita sul lago. Abbiamo una piccola barca, ormeggiata nella darsena». Mi dava del lei e mi usava formule di cortesia, ma ogni gesto comunicava che nel suo regno non c’era spazio se non per pragmatismo, ordine, sicumera.

Io feci un cenno a mio padre, come per avere da lui l’assenso. Sentivamo entrambi di non essere al posto giusto, ma mia madre, con il piglio della professoressa che era, una volta mi aveva citato una frase del Vangelo a proposito di volpi e tane: mi sembrava potesse andare bene per l’occasione, così trovai ragionevole dover mandare giù il boccone che mi veniva offerto. Mi avviai lungo la pelouse rasata, in mezzo alla luce prealpina, posata ovunque come l’annuncio di una prossima decomposizione.

 

La ragazza era distesa su un asciugamano, e indossava un costume bianco intero, con una fibbia argentata sulla vita. Aveva una sigaretta nella mano destra, occhiali scuri e ascoltava qualcosa da un walkman appoggiato sulla pancia, mugolando qualcosa da labbra carnose, troppo rosse. Il volto era quello di sua madre. Di fianco a lei un tavolino strapieno di libri, vestiti gettati alla rinfusa, bicchieri e bottiglie. Su un angolo libero occhieggiava un’audiocassetta fuji con una scritta in pennarello blu: Poulenc – Les Biches. Immaginai che la ragazza stesse ascoltando proprio quella: dondolava ritmicamente la gamba. Era longilinea senza essere alta, e le gambe e le braccia mostravano nitide linee muscolose, guizzanti sotto i colpetti ritmici che le percorrevano. Aveva gli occhi chiusi, probabilmente: non si accorse di me.

Mi sedetti sull’erba senza presentarmi. Guardai verso il lago: nemmeno un centinaio di metri al largo sfilò una piccola barca a motore, con lo scafo rosso e grigio. A bordo quattro ragazzi a torso nudo che si voltarono verso di noi, vociando forte qualcosa di sconcio. La ragazza non fece una piega. Io, invece, mi alzai, perché uno di quelli ancheggiava e, indicandomi, mimò un coito. Misi le mani sui fianchi, piantato come un giudice biblico, pronto a dire qualcosa. Avrei voluto protestare qualcosa sulla mia rispettabilità e sul mio onore. In campo sessuale il massimo di trasgressione fino ad allora era stato commettere atti impuri (aspettando il disperato amore eterno): come dopo aver visto un poster di Samantha Fox esibito dai miei compagni al liceo dopo una lezione di educazione fisica – lo stimolante per una gara sulla lunghezza del pene.

«Idioti» sentii dire vicino a me. «I soliti debosciati» aggiunse la voce. La ragazza si era tirata a sedere, aveva rannicchiato le gambe, strette nelle braccia muscolose, e stava attorcigliando attorno al walkman il filo delle cuffie. Debosciati. Una parola che non conoscevo e che non avrei dimenticato mai. La ragazza puntò una mano per terra, fece leva e si alzò in piedi. Senza guardare verso di me, alzò il dito medio e lo mostrò lungamente alla ciurma che stava allontanandosi dal nostro grandangolo. Lei sì, aveva l’aria di un giudice biblico.

«Tu sei il figlio dell’amico di mio padre, no?» aggiunse, le mani sui fianchi. La luce biancogrigia la straniva: era bella.

«Giovanni. Giovanni De Ambrosis» dissi, tendendole la mano come se dovessi stringere un affare milionario.

«Eliana» disse, senza ricambiare la stretta. Posò il walkman sul tavolino. «Ma è un nome da vecchi, no? Facciamo che mi chiami Lana, va bene? io mi faccio chiamare così, come la vecchia attrice, Lana Turner». Fece una pausa e poi, sorridendo, concluse: «Mi sa che non sei nemmeno chi sia: vero, ragazzino?».

«Le piogge di Ranchipur. Richard Burton e Lana Turner» recitai in un fiato. Era uno dei vecchi film che nostra madre – con il suo debole per i vecchi attori – ci aveva permesso di vedere in televisione, benché il quotidiano cattolico, che lei consultava per avere l’imprimatur, lo giudicasse «accettabile con riserva».

«E bravo il nostro Giovanni. Allora non sei un ragazzino da quattro soldi. Quanti anni hai?» chiese. Si era appoggiata al tavolino e mi fissava, ora. I capelli castani erano raccolti in uno chignon, le unghie porpora. Su tutto, le labbra eccessive.

«Sedici anni» risposi.

«Un ragazzino. Immaginavo» commentò. Sembrò voler dare un’aggiustata al disordine apparecchiato sul tavolino, mentre io traguardavo lo sguardo altrove e mettevo le mani nelle tasche dei miei bermuda, composto come uno stopper in barriera. Alla fine le cose sembravano esattamente nello stesso disordine, ma alla rovescia. Ripose la fuji nel contenitore.

«Sto preparando un balletto da Poulenc. Il musicista. Conosci?».

«No» risposi.

«Avevo ragione. Sei un ragazzino». Poi, finalmente, si levò gli occhiali scuri e mi guardò. Aveva occhi affilati e chiari. «È un balletto. Les Biches. È francese. Vuol dire le cerbiatte. È una storia erotica. Voglio dire: sesso, sai?». Estrassi le mani dalle tasche e mi misi a braccia conserte, come dovessi essere interrogato in latino.

«Comunque» continuò lei «è un balletto che sto preparando. Sono un ballerina classica» disse. Io continuavo a restare fermo, mentre Lana raccoglieva dal tavolino una polo inglese blu e la indossava. Decisi che nella mia vita avrei indossato sempre polo come quella.

«Allora, ragazzino. Cosa facciamo? Torniamo in casa?».

«Tua madre dice di portarmi a fare una gita sulla barca, quella che è nella darsena» risposi. Lei guardò il cielo, si rimise gli occhiali da sole e calzò delle scarpe di tela.

«Sai remare?».

 

Ci spingemmo al largo. La mia vogata era sicura. Per due anni avevo praticato canottaggio per allargare le spalle e diventare più armonioso, perché mia madre diceva che assomigliavo a George Peppard: un talento da non sprecare, diceva lei. Si trattava di una bella barca a remi, con gli scalmi lucidati di fresco e le sponde brillanti. Il sole era quasi a piombo su di noi, ma la nuvolaglia opaca e il vapore d’afa lo sparpagliavano dappertutto. Immaginai che la ciurma dei debosciati stesse bordeggiando le darsene in cerca di femmine.

«E cosa fai nella vita?» chiese lei all’improvviso.

«Il liceo» risposi.

«E poi?».

«E poi, cosa?».

«Cosa fai nella vita? Ci sarà qualcosa che gli altri non fanno e che fai solo tu. Io, per esempio, ascolto Poulenc». Non erano eccessive solo le labbra: ogni frase giganteggiava. Io, messo in un angolo, vergognosamente in adorazione. Ero un ragazzino di sedici anni e non avevo mai pensato che potessi fare, avere, essere qualcosa che gli altri non facessero, avessero, fossero. Però ascoltavo Morrissey, avevo visto quel film con Lana Turner; avevo un debole per le passioni brillanti, non mi piacevano i ricchi, e adoravo quelli con il talento. Forse era questo che sognavo di diventare. Passionale, povero, talentuoso – sì, avevo sedici anni.

«Intanto che ci pensi, ti va di fare il bagno?» interruppe. Non aspettò la mia risposta. Si alzò in piedi, levò t-shirt ed occhiali e si gettò in acqua, lasciando che la barca dondolasse al suo slancio. Io non avevo mai fatto il bagno nel lago: nostra madre ci aveva elencato la sfilza di malanni d’acqua dolce e di «giovani vite spezzate» (come diceva lei, teatralmente) dalle insidie del lago, e noi ce n’eravamo stati buoni al nostro posto.

«Allora?» incalzò lei non appena riemerse dall’acqua scura in cui l’avevo vista sparire. Si aggrappò alla sponda e fece dondolare la barca. Aprì la bocca in un sorriso biancoscarlatto e bagnato. Io afferrai i remi, deciso a presidiare me stesso. Lei rimase così, guardando chissà dove. Poi disse: «Aiutami a salire». Le tesi la mano. «No. Non così. Mi aggrappo alla sponda e mi afferri per i fianchi, d’accordo?», aggiunse, ma non era una proposta, e nemmeno una richiesta. Mi sforzai di non sembrare impacciato, e feci forza sulle braccia. Aveva un corpo leggero, con i fianchi compatti. Venne su con un colpo di reni preciso e veloce.

«Bravo ragazzino» commentò. «Un vero cavaliere». In un angolo della barca c’era un vano chiuso. Lo aprì e tirò fuori un asciugamano che avvolse attorno al corpo.

«Sai quanti anni ho?» chiese. «Ne ho venti» continuò, senza aspettare la mia risposta. «Ne ho troppi. Anche se ballo Poulenc, non ho quasi più speranze di carriera. Il senatore e mia madre hanno detto che è l’ultima occasione, questo balletto. Poi mi seppelliscono in una scuola di economia». Non c’era rimpianto nelle sue parole: solo dati di fatto. Anche lei diceva «il senatore». Io fissavo la linea del corpo e le rotondità zuppe dei seni. Il resto non contava più niente.

«Ti piaccio, ragazzino?»: mi spiazzò. Forse se ne era accorta. «Ti piacciono le mie tette? No, perché mi dicono che non sono un granché. Guardami bene» disse alzandosi in piedi proprio davanti a me. Aveva detto «tette». A me. Sulla pelle c’era una patina d’acqua, e mi arrivava l’odore del lago misto al profumo di crema solare. «Dai, mi piacerebbe un tuo parere» aggiunse, e dal vano da cui aveva preso l’asciugamano estrasse anche un pacchetto di sigarette e due lattine di birra. «Allora?» continuò, accendendo la sigaretta e stappando una lattina.

«Sei bella» risposi. Mi tese l’altra lattina, ma io feci un cenno per dire che no, non mi andava.

«Bugiardo. Dillo ancora» e diede una lunga sorsata di birra.

«Sei bella» mi affrettai a ripetere. Era bellissima, non bella. L’ultima volta che l’avevo detto ad una ragazza era stato su un treno delle sei del mattino verso la città, in prima liceo: una iniziazione cui i ragazzi più grandi ci obbligavano, assieme alla misurazione dei vagoni in fiammiferi.

Lana, allora, gettò per terra l’asciugamano, si mise in ginocchio e si avvicinò alla mia faccia. La prese fra le mani e mi baciò. Mi respirò in bocca fiato caldo. Sapeva di alcool.

«Morivo dalla voglia» disse, staccandosi da me. «Come sei diventato rosso. Proprio un ragazzino con la riga nei capelli». Si attaccò alla lattina, sdraiandosi lunga, con la testa appoggiata alle mie gambe. Io passai la lingua sulle labbra, la barca ferma in mezzo al lago, i remi ciondolanti in mezzo all’afa e un’eccitazione che faceva a pezzi i miei turbamenti, le gare di lunghezza del pene, i poster di Samantha Fox. Doveva essere il disperato amore eterno, questo.

«Accarezzami i capelli» intimò. Aveva sciolto lo chignon e i capelli lunghi e lisci erano stesi, bagnati, sui miei bermuda, come nastri di posidonia. Io li accarezzai una sola volta, sfilandoli fra le dita. Avevo paura. Lei finì di bere, poi disse: «Riportami a casa».

 

La darsena aveva una scalinata ripida, come quelle che infestavano i miei sogni adolescenziali. Lana procedeva davanti, la sagoma agile stagliata sulla luce che arrivava dall’apertura in alto.

«Sai come si sono conosciuti, mia madre e il senatore?» chiese all’improvviso. Si fermò: eravamo quasi al termine delle scale, dove la luce che arrivava dal giardino dava rilievo incerto alle pietre grezze delle pareti. Reggeva con una mano la lattina vuota e i vestiti. «Per caso, qui, ad una festa per quella famosa legge sui frontalieri». Ravviò i capelli umidi e sorrise. «Però noi due non ci sposeremo. Magari più in là, quando crescerai un po’, vero?». Io rimasi a guardarla, da sotto in su, prendendo sul serio ciò che non andava preso sul serio. Ma io ero fatto così: sui miei sedici anni poggiavano certezze assolute. Mentre camminavamo sul prato verde, appaiati, lei disse: «Ti manderò l’invito per assistere al mio balletto, vuoi?». Io dissi qualcosa di gentile, anche se mi sembrava che assistere ad un balletto classico fosse un cedimento, una cosa da ricchi.

 

Ma l’invito non arrivò mai.

Giunse, invece, l’autunno e con esso le lezioni liceali sulle rarefatte, inarrivabili dame dell’amor fou e dello Stilnovo, e con loro dimenticai cos’era baciare una ragazza che sapeva di alcool. E poi venne giù il Muro. La Democrazia Cristiana cominciò a flettere, mio padre perse le elezioni e poi tutto cambiò e smise di filare liscio. E Lana? Mi vergognavo a chiedere di lei. Un giorno colsi al volo una discussione fra mio padre e mia madre: dicevano che «il senatore» era un uomo distrutto, con quella figlia fuggita in quel posto di Zurigo. Intuii stessero parlando di Platspitz, quello che nonna Regina chiamava con ribrezzo «il parco dei drogati», ogni volta che mi metteva in guardia dagli amici che bucavano scuola per andare in Svizzera a comprare sigarette. Nelle mie fantasie salvifiche immaginavo di cercare Lana, tirarla fuori di lì e portarla al sicuro, afferrandola una volta ancora per la vita esile, i suoi seni bagnati che aderivano al mio corpo di sedicenne. Ma tutte le mie fantasie salvifiche duravano una stagione, come i balbettii del mio cuore.

Un giorno, però, passando per la Casa del Disco a Varese, entrai e acquistai Les Biches di Poulenc. Tornai a casa e, ascoltando il tripudio di note che folleggiavano nel magma dei sogni e dell’euforia tardoestiva, immaginai Lana come una cerbiatta che volteggiava, con i suoi lombi guizzanti, sulla inesorabile corruzione del mondo, della vita, di tutto.

 

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12 Commenti

    • sono contento ti sia piaciuto, sparz. ringrazio gianni biondillo e nazioneindiana che mi danno la possibilità di pubblicare. a buon rendere.

  1. ringrazio marines e martina, anzitutto per la generosità del tempo dedicato alla lettura, e poi per le vostre attestazioni di stima. ci si prova, a scrivere.
    grazie, riccardo

  2. Una gradevole narrazione. Ho trovato più interessante la caratterizzazione “socio-politica” che la storia adolescenziale, abbastanza consueta. Scrittura efficace e curata. A rileggerti!

    • L’ho letto con interesse vivo fino alla fine. L’atmosfera (interna ed esterna )è molto ben descritta, con delle immagini pittoriche molto belle.al contrario di Virginialess, non ho nulla da eccepire sulla storia adolescenziale troppo consueta. Tutto quello di cui si scrive è già accaduto, conta la capacità della storia di entrare in risonanza col lettore. Forse mi sarei aspettata alla fine una svolta più eclatante sul piano politico, a proposito del senatore.
      Complimenti!

  3. grazie per la vostra generosa lettura, Virginialess e Giovanna. non sapete il bene che mi fa ricevere impressioni, suggerimenti e critiche sensate. provo a chiarire qualche scelta per rispondere alle vostre sollecitazioni. anzitutto, come sapete, un racconto (ce lo dicono i maestri del genere) non può dire proprio tutto (e non solo per ragioni di estensione della narrazione). inoltre il personaggio-narratore, Giovanni De Ambrosis, è protagonista di un romanzo che ho scritto (in cerca di editore), di uno che ho iniziato e di un altro del quale ho messo giù le linee della narrazione, oltre che di abbozzi vari che forse diventeranno racconti. una specie di feticcio, per me. perciò provate ad inserire “Lana e les biches” in un quadro più ampio e ambizioso – chi lo sa. intanto vi ringrazio davvero, riccardo

    • Concordo. Il racconto, un genere che prediligo (e pratico), ha le sue logiche peculariari. Ripensare il protagonista quale personaggio fisso di un progetto narrativo ampio apre prospettive diverse di lettura e giudizio. Apprezzamento comunque confermato!

  4. Effettivamente si sente che questo racconto si può collocare al centro di un incrocio, a rappresentare la svolta cruciale tra un prima ed un dopo che potrebbero essere entrambi degni argomenti di romanzo.
    Di certo l’adolescenza è un periodo monolitico che tutti potremmo narrare con le stesse parole e gli stessi panorami emotivi, ma quest’iniziazione che più che sessuale è culturale, e per questo secondo me sfugge al cliché.
    Mi è piaciuta molto la scrittura, un’architettura complessa e ramificata, che in alcuni momenti s’invola verso cime alte e che in generale mantiene un buonissimo livello stilistico, ironico quel tanto che basta. Mi pare interessante anche la prospettiva dal basso, dal lato onesto, su un periodo così cruciale della storia politica e sociale italiana. Grazie,
    mdp

  5. grazie Marco. la questione che sollevi (iniziazione culturale più che sessuale) era proprio il tema che ha fatto scaturire il racconto. se l’hai colta, vuol dire che non ho lavorato invano. quanto al giudizio sulla mia scrittura – che mi lusinga, come immagini – devo dire che anche qui ci prendi: vorrei proprio (a riuscirci, ovvio)scrivere così, in modo ramificato (io direi “gemmato”). a volte, però, finisco per perdere di vista il tronco e le radici e devo imparare a gestire meglio il tutto. ma è la prospettiva onesta, dal basso, leggermente ironica – come dici – che non pensavo si potesse notare, e che invece io voglio difendere, perchè per me non meno eroica, non meno epica di una barricadera: invece ci sei riuscito, hai colto pure questo. una lettura finissima che va oltre i miei meriti. grazie davvero, riccardo

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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