L’amore normale

di Daniela Brogi

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«Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è invece infelice a modo suo»: questa famosissima dichiarazione ha centotrentasette anni di vita: è l’inizio di Anna Karenina, e ha funzionato da pietra miliare nella storia e nella teoria del romanzo moderno. Dentro quelle due frasi si fondono, come appunto nella tradizione del “novel”, da un lato la costruzione di un’inquadratura seria sulla vita comune: quella che fa famiglia e assomiglia, sia in senso metaforico che letterale, alla vita di tutti; e dall’altro lato, ma in sequenza contigua, la rivendicazione di un’individualità che proviene dal medesimo sfondo ordinario, e tuttavia pretende attenzione e racconto a titolo di un’infelicità che si autolegittima in quanto unica, “a modo suo”, per il semplice fatto di esistere: incondizionatamente dunque, puramente a nome di se stessa.

A quasi due secoli di distanza è tempo di chiedersi se e quanto questo assunto resista ancora: davvero le trame del matrimonio costruite attorno all’infelicità hanno diritto di pretendersi uniche, come ai tempi in cui era verisimile che una fantasia di tradimento e un adulterio avessero come proprio punto di compimento un suicidio? Davvero quando soffriamo e quando scriviamo d’amore, e più in generale d’infelicità, parliamo di esperienze così diverse, sappiamo viverle, e scriverle, attraverso parole tanto differenti? Questo insieme di dubbi sembra, per molti aspetti, l’orizzonte più affine alla scrittura de L’amore normale – Einaudi, Torino 2014, € 19 – il secondo romanzo di Alessandra Sarchi (il primo era stato Violazione, uscito due anni fa), che in un certo senso potrebbe essere definito come un lucido esperimento di esecuzione sommaria e impietosa di ogni presunzione di originalità attorno alla grammatica del discorso e del godimento amoroso contemporaneo.

Laura e Davide sono sposati da diciassette anni e proprio nella ricorrenza del loro anniversario danno inizio a due relazioni extraconiugali: Laura con un ex fidanzato, e Davide con una donna più giovane che lavora, da precaria, in una biblioteca. Il romanzo è diviso in due parti: nella prima, quella dell’incontro e dell’innamoramento, non c’è niente che sia davvero rilevante; nella seconda invece accade qualcosa di effettivamente curioso, perché la coppia dei due protagonisti, anziché affrontare la crisi attraverso i passaggi prevedibili – quasi sperati dal lettore – del conflitto e della rottura, compie invece un paradossale tentativo di attraversamento, di incorporamento di tutte le parti dentro il proprio mondo; mentre intanto anche la narrazione, da parte sua, segue il comportamento dei personaggi senza trasformarli in biografie esemplari e fuori dalla norma, ma semmai guardandoli come uno scienziato può osservare il comportamento e i sistemi di scambio approntati dalle cellule quando sono attaccate .

C’è una forte suggestione goethiana nel gusto di costruire un quadrilatero formato da due coppie, come pure nell’attitudine a filtrare il racconto attraverso un immaginario figurativo, o che via via torna al mondo della natura – e del resto il rimando a Goethe e più che evidente: è esplicitamente suggerito dalle due citazioni tratte da Le affinità elettive poste sul limite iniziale e finale della storia. Ma, a due secoli di distanza dal modello evocato, l’amore ai tempi del trionfo del narcisismo di massa e del Midcult chiede di essere raccontato con altri parametri, e allora leggendo Sarchi si può ripensare semmai ai romanzi di Updike, cioè a libri come Coppie, o Sposami!, così attenti a narrare, magari attraverso lo scambio di coppie, non tanto una possibilità di esplorazione speculativa attorno al tema dell’incontro d’amore, quanto piuttosto la povertà di orizzonti vitali e narrativi che agisce dietro alle fantasie di emancipazione sessuale («Gli individui si adeguano alle regole di comunità in cui crescono»: p. 210).

Non c’è gelosia, e in fondo nemmeno eros nell’Amore normale, e questo effetto di scrittura spassionata nasce dal lavoro sulle prospettive testuali costruite dal racconto, che si sviluppa attraverso la successione dei soliloqui dei suoi personaggi: Laura, Davide, Mia, Fabrizio, e ancora le due figlie dei protagonisti, Violetta e Bettina, e l’amica più grande, Giovanna, che ha vissuto l’esperienza del movimentismo e delle comuni, quando l’amore al di fuori della coppia, ragionando in termini di cultura egemonica, rappresentava una scelta ideologica che poteva anche collocarsi all’esterno della coazione al consumo e al godimento capitalistico, anziché al suo centro. Come la trasgressione, l’infelicità, il tormento, o la passione d’amore, sempre più rischiano di essere un luogo comune, e così il soliloquio, anziché essere un’occasione di affondo nell’anima unica e irripetibile delle voci narranti, diventa l’espediente tecnico con cui sfidare l’espressione di questa serialità. La focalizzazione interna non crea profondità, ma spesso opacità, quasi estraneità; non ci appassioniamo a Laura, e proprio questa forma di spersonalizzazione è un merito: restiamo fuori dal personaggio, malgrado le sue sfortune e i suoi tormenti, malgrado il suo bisogno narcisistico di provocare gli altri perché è sopravvissuta a una malattia. L’assunzione del punto di vista dei personaggi, più che un modo per scavare, per andare più sotto, è una risorsa per attraversare lo specchio di discorsi comuni con cui i vari personaggi pretendono di amare unicamente, e di conseguenza così “normalmente”, a titolo del proprio io, senza riuscire a dare davvero spazio all’altro: come tutte le famiglie, anche tutte le anime infelici si somigliano.

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5 Commenti

  1. Un’analisi ricca di riferimenti e suggestioni culturali. Un po’ sfuggente quanto a giudizio complessivo. Mentre leggevo ho cambiato idea un paio di volte sull’opportunità di avvicinare il romanzo. E’ meritevole d’interesse?

  2. Io ho letto il libro e l’ho trovato molto bello, con una scrittura capace di entrare nelle pieghe della psiche dei personaggi senza mai perdere di vista la loro collocazione sociale, il quadro più ampio in cui si svolgono le relazione umane, anche quelle più intime.

    • “una scrittura capace di entrare nelle pieghe della psiche dei personaggi senza mai perdere di vista la loro collocazione sociale, il quadro più ampio in cui si svolgono le relazione umane, anche quelle più intime”…Grazie Sabina, sintesi perfetta di quel che anch’io trovo particolarmente apprezzabile in questo libro e nel lavoro di Alessandra Sarchi in generale.

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Helena Janeczek è nata na Monaco di Baviera in una famiglia ebreo-polacca, vive in Italia da trentacinque anni. Dopo aver esordito con un libro di poesie edito da Suhrkamp, ha scelto l’italiano come lingua letteraria per opere di narrativa che spesso indagano il rapporto con la memoria storica del secolo passato. È autrice di Lezioni di tenebra (Mondadori, 1997, Guanda, 2011), Cibo (Mondadori, 2002), Le rondini di Montecassino (Guanda, 2010), che hanno vinto numerosi premi come il Premio Bagutta Opera Prima e il Premio Napoli. Co-organizza il festival letterario “SI-Scrittrici Insieme” a Somma Lombardo (VA). Il suo ultimo romanzo, La ragazza con la Leica (2017, Guanda) è stato finalista al Premio Campiello e ha vinto il Premio Bagutta e il Premio Strega 2018. Sin dalla nascita del blog, fa parte di Nazione Indiana.
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