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Working underclass heroes

lavavetridi Gianni Biondillo

Da buon dietrologo, quando cadde il muro di Berlino mica ci avevo creduto. D’altronde non ci avevano detto che lo sbarco sulla luna non era mai avvenuto, che era tutta una finzione della propaganda yankee? Non sapevo bene cosa volessero inculcarmi con quelle immagini girate in chissà quali studios hollywoodiani che mostravano gente festante che ballava sui resti del muro, ma di certo da qualche parte c’era la fregatura. Il mondo così come l’avevo conosciuto era bello, chiaro, statico. La fine delle ideologie era di certo una bugia propagandistica del capitalismo ormai al tramonto. Poi li vidi, ai semafori, circa vent’anni fa. I polacchi.

Mai visto un polacco prima, escluso Wojtyla, ovvio. Che fosse a Roma o a Milano, appena scattava un semaforo rosso i polacchi si fiondavano sui parabrezza delle macchine in coda e, armati d’acqua saponata e tergicristalli, le strigliavano per bene. Il muro era caduto per davvero, allora. Gli abitanti dell’ex blocco sovietico esistevano, non erano una fantasia dell’immaginario collettivo. Abbattuta la rassicurante cortina di ferro iniziarono a tracimare per tutta Europa. Ma non chiedevano la carità, macché. I polacchi, presi dal sacro fuoco del capitalismo occidentale, si convertirono in un batter di ciglia da collettivisti a imprenditori. In Germania tutti idraulici. Qui da noi lavavetri. Non mi stupisce, sono cattolici, e alla faccia di Max Weber siamo stati proprio noi cattolici a inventare il capitalismo. Ce lo ricorda Carlo Cipolla, nel suo Allegro ma non troppo: siamo stati noi italiani, nel medioevo, a ideare le cambiali, la partita doppia, le banche. Poi i re inglesi e francesi non pagarono i loro debiti e allora ci siamo buttati nell’arte, altrimenti chissà dov’eravamo oggi!

La logica di scambio dei polacchi non era quindi una novità per noi. Niente a che vedere con l’accattonaggio. Si tratta di rilasciare un servizio e riceverne il giusto compenso: potere contrattuale e libero mercato. Ho un cugino che al paese, in meridione, fa il posteggiatore abusivo. Lavoro non ne trova, mi dice, e di rubare non ne ha voglia. Preferisce fare qualcosa di onesto. Rilascia un servizio. Economia informale? Finanza creativa? È un servizio di guardianeria personalizzato. Lo so, ora voi maligni potreste pensare: e cosa succede se non lo pagano? Che brutta cosa la dietrologia, fate come me, che ne sono uscito e che ora credo nelle progressive sorti dell’economia globalizzata.

I polacchi poi ad un certo punto sparirono e per le strade arrivarono bosniaci, albanesi, slavi, rom. Levantini creativi, proprio come noi, mostravano la spugna intrisa d’acqua lurida e tutti preferivano pagare pur di evitare il trattamento. Economia liquida, la chiama qualcuno.

A fare certi lavori occorre sapersi specializzare, è una cosa seria. Mica si tratta di starsene sul sagrato di una chiesa con la mano tesa. È roba del passato. Il capitalismo richiede creatività. Giro in metropolitana e vedo rappresentazioni degne del miglior teatro dell’assurdo (una volta un tizio con un gilet catarifrangente voleva farmi credere di aver appena trovato un cucciolo smarrito. L’ho rivisto per giorni, sulle varie linee, sempre con lo stesso gilet e lo stesso cucciolo in mano, lesto a raccogliere denaro), oppure ho assistito a cantanti degni di un talent show televisivo, microfono in mano e miniamplificatore nello zaino, espettorare il loro virtuosismo tonsillare. Alcuni sono proprio bravi, fa piacere contribuire allo sviluppo del loro talento già alle sette del mattino. Magari indirizzandoli nella carrozza successiva.

E poi, diciamocelo, la tecnologia piuttosto che venirci incontro sembra respingerci. Siete in macchina, fuori fa freddo, avete una banconota sgualcita da venti euro. Perché non usufruire di un giovane bengalese che si prende il freddo e si arrovella per voi al self service, provando a fare benzina al posto vostro? Non merita un contributo il suo efficiente servizio personalizzato?

Il mercato dei servizi alla persona è attento, creativo, sa riconoscere i bisogni. Pensiamo alle file di turisti o agli “esclusi digitali” che di fronte ai dispositivi che erogano biglietti ferroviari si comportano come stessero contemplando un polittico bizantino. Alla stazione Centrale di Milano ci sono giovani senegalesi pronti a dare una mano, nel caso. Ho visto fare la stessa cosa per i biglietti del tram. Ovunque c’è necessità, qualcuno risponde. E non parliamo di fastidio o di molestia, per piacere. Non sono forse più fastidiosi i dipendenti delle aziende pubbliche che non sono mai in ufficio perché occupati da infinite pause caffè? Non sono forse più molesti i call center dei gestori telefonici o quelli che ti chiamano cercano di venderti qualunque cosa, da un’assicurazione sulla vita a intere damigiane di olio d’oliva? Non sono ai limiti dello stalkeraggio gli agenti immobiliari che suonano alla porta di casa chiedendoti informazioni sui vicini?

Vediamola in un altro modo, allora. Viviamo in una società del terziario avanzato, non credo mancherà molto alla creazione di corsi di aggiornamento, di scuole di apprendimento. Basterà mettere i nomi dei corsi in inglese e il pudore un po’ peloso che ancora resiste in noi sparirà all’istante: helper digital divide, oil costumer care, rail ticket dispenser, itinerant singer, street washer cars… Finiamola di parlare di accattonaggio, povertà, marginalità! Sono semplicemente lavori del nuovo millennio. Quello che ci tocca vivere.

(pubblicato su IoDonna,  il 3 maggio 2014)

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4 Commenti

  1. Un appunto. Il citato libretto di Carlo M. Cipolla, che fu oltretutto mio concittadino (e me ne vanto), apre gli occhi non solo su certi aspetti dell’economia ma sulle straordinarie “leggi fondamentali della stupidità umana”. Un testo che semplifica in modo schematico la visione del mondo e andrebbe adottato come libro di lettura dalle scuole secondarie in su.

  2. Basterà mettere i nomi dei corsi in inglese e il pudore un po’ peloso che ancora resiste in noi sparirà all’istante: helper digital divide, oil costumer care, rail ticket dispenser, itinerant singer, street washer cars… Finiamola di parlare di accattonaggio, povertà, marginalità! Sono semplicemente lavori del nuovo millennio. Quello che ci tocca vivere.

    ah ah, non sempre sono d’accordo con biondillo, ma mi fa sempre ridere…

    faccio anch’io una proposta: nasal mucus handerchief management

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gianni biondillo
gianni biondillo
GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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