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Qualche lucciola nel buio pesto di Giorgio Vasta?

di Luca Salza

Ad aprile, abbiamo accolto Giorgio Vasta all’Università di Lille, nel seminario «La democrazia in Italia» che organizzo con Mélanie Traversier. Questo mio testo prende spunto dalle discussioni svolte in quell’ambito, con lo stesso Vasta, Pierandrea Amato, Gabriele Della Morte, Fanny Eouzan, Stefano Savona, Mélanie Traversier e gli studenti presenti al seminario

Italia, anni ’70. Scomparsa delle lucciole, assassinio di Aldo Moro. E cosa fanno i bambini in questo mondo diventato terribilmente scuro, o meglio, talmente accecante di luci (quelle delle televisione, quelle degli stadi dei grandi eventi, il Mondiale di calcio argentino del ’78, quelle delle vetrine dei centri commerciali) da annebbiare la vista? I bambini, quelli che all’epoca erano bambini, e cioè noi oggi, quarantenni un po’ persi in questa intricata e drammatica situazione, che chiamano «crisi». Il tempo materiale di Giorgio Vasta (minimum fax, 2008) parte, forse, dal tentativo di rispondere a questa domanda. Parte cioè dall’articolo di Pasolini che denunciava la scomparsa delle lucciole («Il Corriere della Sera», 1° febbraio 1975) ossia l’affermazione di un nuovo fascismo, un fascismo più pericoloso di quello storico perché, a differenza di questo, è riuscito ad omologare le coscienze, a distruggere lingue, culture, popoli. L’energia della Montedison, dell’ENI ha generato una nuova epoca, nella quale l’inquinamento apparentemente solo luminoso ha in realtà fatto scomparire non solo le lucciole, ma l’umano stesso. Georges Didi-Huberman è recentemente ritornato su questo articolo e ne ha messo in luce le implicazioni storiche e filosofiche per il nostro presente: la scomparsa delle lucciole coinciderebbe con la fine della possibilità della trasformazione dell’esistente (Come le lucciole, Bollati Boringhieri, 2010). L’articolo delle lucciole di Pasolini aveva però all’origine un titolo diverso («Il vuoto del potere») che significava una presa d’atto di un cambiamento di paradigma nel «Palazzo». Si era sgretolato il vecchio sistema di potere clerico-fascista che dominava l’Italia da sempre, contemporaneamente si iniziava a sfilacciare anche quel blocco di contro-potere che vi si opponeva dialetticamente, unificato da un generico spirito anti-fascista (che poteva essere liberale, cattolico, comunista e socialista). Contro quanti paventavano un ritorno del vecchio fascismo, Pasolini invece scorgeva già l’emergere di nuove forme di potere, più segrete perché più liquide e diffuse, più ampie perché già transnazionali, meno violente forse, ma molto più pervasive. E allora il «Palazzo» iniziava a essere sgomberato, si svuotava delle vecchie, solite figure… Il vecchio antifascismo che, pur aveva scritto pagine gloriose, negli anni 70, e a noi a fortiori oggi, è incapace di leggere questo «vuoto», questo potere spettrale; incapace e quindi bloccato e superato dagli eventi. Infatti, dopo l’«orda d’ora» stentano a manifestarsi su scala ampia nuove forme di controcondotta, di resistenza. A fare le spese di questo cambiamento epocale sono gli stessi uomini del potere. Qualche anno dopo l’articolo di Pasolini, Aldo Moro sarà ucciso.

Aldo Moro: la lingua di Aldo Moro era, secondo Pasolini, un nuovo linguaggio per la nuova epoca. Moro era un gerarca, come gli altri capi democristiani, che tuttavia «per una enigmatica correlazione» era «il meno implicato di tutti nelle cose orribili che sono state organizzate dal 69 ad oggi». Ed anche quello più all’altezza, proprio dal punto di vista linguistico, a segnare il passaggio alla nuova fase storica, quella della scomparsa delle lucciole, cioè l’avvento di un nuovo tipo di fascismo. Quando Sciascia riapre l’affaire Moro qualche mese solo dopo i fatti di via Fani, parte da Pasolini, da quell’amico vicino eppure distante alle prese con le lucciole, con il Palazzo (L’affaire Moro, Sellerio, 1978). Sciascia, nelle folgoranti pagine iniziali del suo libro, cammina, dopo Pasolini, con Pasolini, alla ricerca delle lucciole per scoprire, poi, che quell’enigmatica correlazione era, in realtà, una contraddizione (una contraddizione fra Moro e gli altri capi DC), ed è per questo che la correlazione non sarà più enigmatica, ma diventa per Sciascia «tragica». Moro è ucciso perché, pur essendo un gerarca, è diverso dagli altri, solo solo è infatti restato in quel Palazzo, mentre altri hanno già traslocato in quelle segrete stanze del potere più nuove, più vaste e più sicure. Il libro su Moro di Sciascia, come osserva Belpoliti (Settanta, Einaudi, 2010 nuova edizione), non è un’inchiesta. A Sciascia non interessa sapere perché e come Moro sia stato ucciso. Egli interroga piuttosto la sua tragedia, la tragedia di un uomo di potere restato solo. Solo nella sua prigione, solo con le sue parole. Le parole. L’interrogazione di Sciascia porta sulle parole di Moro, le lettere che egli scrisse ai suoi compagni di partito, ai suoi familiari, gli scambi con i brigatisti. Al punto che la tragedia di Moro diventa un fatto letterario, «compiuta opera letteraria», si ha «l’impressione che l’affaire Moro sia già stato scritto, che viva in una sfera di intoccabile perfezione letteraria». Chi lo ha scritto già l’affaire Moro? Pasolini appunto, ma anche lo stesso Sciascia, Scrittori, le cui sintesi hanno anticipato, profetizzato il reale, se non lo hanno proprio istigato. L’idea, certo provocatoria, al fondo di un tale ragionamento è che una certa letteratura, non realistica, ma nemmeno post-moderna, produca la verità. Non a caso Pasolini proprio in quegli anni torna al «romanzo» (al «progetto di romanzo», cioè a Petrolio) perché sente l’impossibilità di «dire» altrimenti quello che «sa».

Il romanzo di Vasta non rivendica, non vuole rivendicare quella «passione del reale» che leggiamo in Pasolini o Sciascia. Scegliendo come protagonisti dei bambini, Vasta scivola verso un’altra dimensione, non solamente storica, e pur sempre buia, dopo la scomparsa delle lucciole. Ma conserva quella idea. Conserva cioè l’idea della potenza delle parole sul reale. Questa potenza è talmente alta che affascina, corrompe dei ragazzini i quali creano una cellula terroristica e sul modello delle azioni della colonna romana delle BR sequestrano e uccidono, in quegli stessi mesi del 1978, un compagno di classe, Morana, anch’egli il meno implicato di tutti. Nimbo, il protagonista, è mitopoietico, fabbricatore di parole. La comunità che crea con altri due ragazzetti si fonda sul loro amore per le parole. Questi tre bambini parlano come adulti, sono diversi dai loro coetanei. Sono soli. Esuli in patria, perché nessuno parla come loro. Anzi no.

«Siamo colpevoli di linguaggio, esclama Bocca.

Si, fa Scarmiglia. Il linguaggio è la nostra colpa.

Nessuno parla come noi, dice Bocca orgoglioso. Oggi, adesso, specifica.

Non è vero, dice Scarmiglia. Qualcuno c’è. (…)

Le Brigate Rosse, dice Scarmiglia. Loro parlano – o meglio scrivono – come noi. I loro comunicati sono complessi, le frasi lunghe e potenti. Sono gli unici in Italia a scrivere così» (p. 56-57).

Perché il linguaggio rende colpevoli? Perché foucaultianamente è un «dispositivo». Esso dis-pone, cioè configura le empiricità. In tal senso esso è potere, perché assoggetta quegli individui empirici a un codice, a un ordine (del discorso). Potremmo dire che il comunicato delle Br costituisca l’ultimo esempio del tentativo novecentesco di imbrigliare il mondo nelle parole, di dare un ordine al caos del mondo, di fabbricare il mondo. Tale pretesa intende dis-porre le individualità, le incanta e le incatena. Esse separano e ordinano il mondo. Le vittime/carnefici sono qui dei bambini. La forza del linguaggio delle Br è, infatti, nella sua semplicità «Perché l’obiettivo di queste frasi è distinguere. Come quando si divide in due la lavagna con il gesso per segnare i buoni e i cattivi » (p. 71).

Le frasi delle Br sono ancora belle, dice il piccolo narratore. Eppure egli già sente che, nel loro costringere il mondo in una frase, c’è già la morte. Sarebbe tuttavia errato attribuire questa violenza solo ai comunicati delle Br. Il romanzo di Vasta ci mostra che, dopo la scomparsa delle lucciole, cioè a partire dagli anni 70, è lo spettacolo – la televisione, il juke-box delle canzoni popolari, il cinema popolare (Bud Spencer e Terence Hill, Fracchia), la pubblicità – a mettere in atto dei processi di soggettivazione, cioè a configurarsi come dispositivo avente la capacità di modellare, controllare e assicurare i gesti, le condotte, le opinioni e i discorsi degli esseri viventi. I bambini si appropriano o meglio riformulano il linguaggio rivoluzionario delle Br inventando un nuovo alfabeto, l’alfamuto, ancora più semplice delle frasi brigatiste e soprattutto sorprendentemente ispirato ai valori più banali e conosciuti della nascente cultura di massa (i bambini creano un linguaggio muto che si basa sui gesti di personaggi celebri come Raffaella Carrà, Mike Bongiorno, o di scene della pubblicità).

La spettacolarizzazione della società italiana è la linea, il filo fra Il tempo materiale e Spaesamento (Laterza, 2010). Qui lo scrittore racconta il suo ritorno rapido, tre giorni, nella sua città natale, Palermo. Innanzitutto egli continua il suo straordinario lavoro linguistico. Lo «stile di scrittura» di Vasta è in questo lavoro di scandaglio profondo del reale. La sua scrittura è in realtà una archeologia o, meglio, una entomologia. Tutto il reale è messo sotto il microscopio, nelle sue pagine passiamo dall’umano ai più diversi insetti e viceversa (instaurando veri e propri dialoghi, fra il delirante e un fiabesco che fa pensare a Collodi, fra uomini e animali). Penetriamo fin dentro gli strati geologici più antichi della Terra, dalle lucertole e le lumache ai dinosauri. In Spaesamento, appunto, Vasta dà un nome a questo suo lavoro. Egli parla di carotaggio. Tale tecnica consiste in prelievi di campioni di roccia che poi saranno analizzati per diversi usi (per scoprire risorse energetiche o per ricerche archeologiche, ad esempio). Questi campioni sono chiamati carote. In Spaesamento, il campione, la carota, per comprendere quello che accade in Italia è Palermo. Vasta sceglie cioè ancora una volta una dimensione periferica, financo insulare, per parlare della nostra storia. Il protagonista-narratore inizia a errare a Palermo, nell’afa estiva. Mare, spiagge affollate, negozi chiusi: tappe che gli servono per prelevare campioni di realtà al fine di «farmi un’idea di dove sono, a descrivere la forma di questo spaesamento». Egli si sente estraniato, alienato nella sua stessa città, il che gli procura non poche difficoltà nel muoversi e nell’agire. Ma, in realtà, è anche il campione stesso, la carota Palermo, cioè Italia, che è estremamente fragile.

Alla fine questo carotaggio gli rivela che l’Italia non esiste più in quanto materia: «il mio carotaggio non è altro che l’attraversamento di un fantasma proteiforme, di una materia immateriale che pervade ogni interstizio dell’esistente italiano» (p. 56). Berlusconi, il totem. Altri bambini sulla spiaggia affollata di Mondello attraversata dal narratore stanno costruendo un’enorme statua di sabbia con le lettere della parola Berlusconi. Ancora lettere, parole per dire il reale. Ma ora tutto è sabbia. Perché nella civiltà dei consumi, nata dopo la scomparsa delle lucciole negli anni 70, si è star per un giorno o due, o anche per vent’anni, ma poi non resta niente. Berlusconi, la nostra ossessione ventennale, è un fantasma, qualche lettera di sabbia, forse l’ultima, provvisoria, sintesi di uno spettacolo, che continuerà domani con altre immagini, altri nomi.

Quello che è certo è che Vasta non risparmia nessuno. In questo suo lavoro linguistico, in questa sua critica del linguaggio come dispositivo, aspettavamo di attaccarci ad una via di salvezza, assolutamente linguistica. Se il linguaggio è sempre un esercizio di potere, forse un altro modo di parlare (naturale, popolare, spontaneo) avrebbe potuto rappresentare una fuoriuscita dallo spettacolo. Il dialetto, i dialetti come forza dirompente del codice, e invenzione del nuovo, costituiscono una costante della letteratura italiana. E invece in Vasta chi parla in dialetto è deforme: c’è questa amara constatazione nei due romanzi. Sia nel Tempo materiale che in Spaesamento, le «famiglie dialettali» vengono dipinte senza nessuna pietà. Il dialetto non è più risorsa, strategia per uscire dalle logiche del potere, è solo un suono sgradevole, un colpo per gli altri (uno sputo in faccia). Niente di più antipasoliano si direbbe. Eppure, queste pagine, in un ipotetico tribunale, potrebbero costituire una eccellente testimonianza a favore dell’articolo delle lucciole di Pasolini. Sì, è vero, quel poeta aveva ragione. La scomparsa delle lucciole ha significato la morte delle lingue, delle culture, dei popoli in Italia. Ha prodotto la «mutazione antropologica» degli italiani. Questa mutazione ha imborghesito, cioè livellato i caratteri, anche somatici, dell’italiano medio, il suo modo di essere, la sua cultura, ma ha ridotto in modo ancora peggiore la plebe, quella che parlava il dialetto, e che oggi ha perso financo la capacità di articolare suoni.

Insomma, Vasta recepisce radicalmente il discorso di Pasolini sulle lucciole. Oggi, nella società dello spettacolo, nel luccichio costante di tubi catodici, sulle linee fosforescenti di internet, sotto i riflettori dei grandi eventi (concerti, partite di calcio, ecc.), sotto i led delle gallerie commerciali che invadono ormai anche quel bellissimo grigio delle stazioni ferroviarie, la cultura – l’unica possibile, quella popolare – è morta. L’intelligenza stessa che, pure naturalmente sgorga ancora in Italia, non rappresenta più niente: «Questa intelligenza fa parte della resa» (p. 107). Le lucciole non ci sono più. Sono morte cioè le differenze. Morte delle differenze vuol dire morte della possibilità stessa di resistere. Si possono forse capire delle cose, ma è morta la possibilità di mutarle. L’undicesima tesi feuerbachiana di Marx sconfessata definitivamente. TINA: there is not alternative. Tutto è nero. Notte profonda, sull’Italia, sull’Europa, sul mondo.

Ora, Giorgio Vasta, nella sua ricognizione disperata del presente, trova ancora qualche fioca luce di speranza. Tutti siamo coinvolti e colpevoli, dicono le diverse voci narranti dei romanzi di Vasta. Tutti lo siamo perché tutti siamo presi in meccanismi di potere, a partire dal primo grande «dispositivo», il linguaggio. Allora forse occorrerebbe stare un po’ zitti. Nel Tempo materiale gli unici personaggi che conservano qualche forma di umanità, sono Cotone, il fratellino del protagonista, e la bambina creola (e, in parte, la stessa vittima, Morana). Non dicono una sola parola o solo qualche sillaba. La bambina creola è anche veramente muta. Sono, come scrive Vasta, «organismi non verbali». È proprio nel silenzio della bambina che Nimbo capirà il male fatto, il male delle e attraverso le parole:

Cosa ne è stato del tempo profondo che avevo immaginato, il tempo morbido, liquido, il tempo materiale che mi avrebbe dissetato? Perché al suo posto ci sono le parole, migliaia di frasi, questa ordinata strage di insetti? Perché balena ancora il linguaggio quando vorrei solo entrare nel silenzio, nel tuo silenzio, e piangere, smettere di sentirne solo il bisogno e piangere? (p 270).

La questione dell’ultimo capitolo del Tempo materiale, il capitolo del pentimento e cioè dello svelamento amoroso (il bambino si pente perché ama) diventa allora proprio questa: «come si entra nel silenzio?», cioè «come si evita la volontà di potenza delle parole?» oppure «come si preserva la capacità infinita delle parole senza ingabbiarle?». La bambina è muta, ma è anche «creola» e quindi essa apre verso il mondo del silenzio, ma pure ad un mondo di creazione continua della lingua, come notava giustamente durante il dibattito di Lille, il filosofo Amato. La bambina, di fronte a un linguaggio unico, violento, totale, dice il suo silenzio, tacendo. Lei, creola, la voce del molteplice, evita di prendere la parola in un mondo in cui la parola è stentorea e mortale. Si sottrae ai meccanismi del potere, destituendoli. Lei parla perché è muta.

La prospettiva delineata da Vasta è quella di una diminuzione dell’arroganza dell’umano, di una sua metamorfosi nel grande ciclo della natura infinita. Una conclusione che fa pensare ad un altro siciliano, Pirandello, ma più generalmente alla grande tradizione materialistica «italiana», da Lucrezio, a Bruno e Leopardi. Autori legati dall’idea che l’uomo sia una «minuzzaria», un «pulviscolo di atomi» nell’universo infinito. Quando avrà capito questo Nimbo si unirà, non oggi né domani, ma in un tempo stellare, in un amore cosmico davvero lucreziano, con la sua bella e si potrà pentire e finalmente piangere.

Non è una conclusione disperante. Il romanzo sulla storia degli anni 70, il romanzo di formazione, la favola dei bambini terroristi è in realtà innanzitutto un romanzo d’amore. Allora qualche flebilissima luce appare anche nel mondo di Vasta:

A un metro da me, sul pavimento, in un alone chiaro rarefatto c’è qualcosa che brilla. Strofinando sulle mattonelle mi allungo e raccolgo quella microscopica luce tra le mani. Attraverso la fosforescenza riconosco il corpo leggermente rannicchiato, le braccia già schiuse a benedire, un piccolo nimbo di plastica incollato dietro la testa (p. 274).

Se Pasolini considerava morte le lucciole in Italia, spente tutte le luci di una possibile nuova resistenza, Vasta, nonostante il dolore del mondo e il buio che ci circonda, lascia baluginare ancora qualche lontana, sommessa fosforescenza.

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Vivo a Parigi e insegno all’Université Paris Nanterre. Ho pubblicato, anni fa, testi teatrali, racconti, romanzi (l’ultimo: I veri delinquenti, Fazi, 2005). Ho tradotto dal francese saggi e romanzi. In ambito accademico mi occupo di avanguardie/neoavanguardie, letteratura italiana ipercontemporanea, studi femminili e di genere, studi postcoloniali e della migrazione (ultima monografia: Scrivere al tempo della globalizzazione. Narrativa italiana dei primi anni Duemila, Cesati, 2019). Dirigo la rivista Narrativa (http://presses.parisnanterre.fr/?page_id=1301). Leggo i testi che ricevo via Nazione Indiana; se mi piacciono e intendo pubblicarli contatto l’autore, altrimenti no. Non me ne vogliate.
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