Albert Einstein: una risposta su pensiero e linguaggio

di Antonio Sparzani

Einstein a 12 anni con la sorella Maja
Einstein a 12 anni con la sorella Maja

Il 1945 non era anno, direte voi, da stare a sfogliar verze, eppure fu proprio l’anno in cui Jacques Salomon Hadamard (Versailles 1865 ― Paris 1963, rifugiatosi negli USA durante la seconda guerra mondiale) pubblicò — dopo una lunga e assai prolifica carriera di matematico, autore di molti notevoli risultati nell’analisi moderna e ormai illustre accademico e membro del Collège de France — un libro dal titolo accattivante: An essay on the psychology of invention in the mathematical field (Princeton Univ. Press, trad. it. e cura di B. Sassoli, La psicologia dell’invenzione in campo matematico, Raffaello Cortina, Milano 1993) nel quale si interrogava, con dovizia di esempi di situazioni e di illustri ricercatori, sui meccanismi psicologici che presiedono alla scoperta e al “progresso” nella costruzione di nuove scoperte matematiche.

Il testo conteneva varie domande introspettive personali alle quali l’autore chiedeva di rispondere al pubblico dei lettori interessati. Le domande vertevano sul ruolo svolto dal linguaggio o più in generale da segni e immagini nel processo mentale che portava a nuove acquisizioni. Mentre il libro stava andando in bozze, giunse a Hadamard una lettera di Einstein nella quale lo scienziato tedesco dava risposte ad alcuni quesiti. Come annunciato qui, ecco a voi il testo della lettera, che Hadamard riesce a inserire in appendice al suo testo, così come appare nella traduzione italiana; tenete conto che:
le risposte che Einstein numera (A), (B) e (C) corrispondono alla domanda “Sarebbe utile per la ricerca psicologica sapere di quali immagini interne o mentali, di quale genere di parole interne, facciano uso i matematici e se queste siano motorie, auditive, visive, miste, a seconda dell’argomento studiato”.
La risposta (D) si riferisce alla domanda posta da Hadamard sul tipo di immagini che accompagnano la vita quotidiana, piuttosto che su quelle che si presentano durante la ricerca.
La risposta (E) si riferisce alla domanda: “In particolare nel pensiero impegnato nella ricerca, le immagini mentali o le parole interne si presentano alla coscienza piena o alla coscienza marginale?”.
La stessa domanda viene rivolta per quanto riguarda i ragionamenti che queste immagini o parole simbolizzano.

Caro collega,
con ciò che segue tento di rispondere concisamente alle vostre domande, per quanto ne sono capace. Queste risposte non mi soddisfano, e mi sottoporrò volentieri a ulteriori questioni se credete che possa essere di qualche utilità per l’interessantissimo e difficile compito che avete intrapreso.
(A) Non mi sembra che le parole o il linguaggio, scritto o parlato, abbiano alcun ruolo nel meccanismo del mio pensiero. Le entità psichiche che sembrano servire da elementi del pensiero sono piuttosto alcuni segni e immagini più o meno chiare che possono essere riprodotti e combinati “volontariamente”. Ovviamente, sussiste una relazione di un qualche tipo tra questi elementi e i
concetti logici pertinenti. È anche chiaro come alla base del gioco piuttosto vago di tali elementi si trovi il desiderio di arrivare infine a concetti logicamente connessi tra di loro. Ma da un punto di vista psicologico, questo gioco combinatorio sembra essere il tratto caratteristico del pensiero produttivo — prima che ci sia alcuna connessione con la costruzione logica in parole o in altri segni che si possano comunicare ad altri. (B) Gli elementi sopra menzionati sono, nel mio caso, di tipo visivo, e a volte muscolare. Bisogna cercare laboriosamente le parole convenzionali e gli altri segni solo in uno stadio secondario, dopo che il già citato gioco di associazioni si sia stabilizzato a sufficienza e possa essere riprodotto a volontà. (C) In accordo con quanto detto, il gioco con questi elementi è indirizzato al fine di essere analogo a certe connessioni logiche che si stanno ricercando. (D) Visive e motorie. Nello stadio in cui intervengono le parole esse sono, nel mio caso, puramente auditive, ma interferiscono solo in uno stadio secondario, come già detto. (E) Mi sembra che quanto chiamate “coscienza piena” sia un caso limite che non può mai essere realizzato. Mi sembra un fatto connesso con quella che viene detta “ristrettezza della coscienza” [Enge des Bewusstseins].
Nota: Max Wertheimer ha tentato di svolgere delle ricerche sulla distinzione tra la mera associazione o combinazione di elementi riproducibili e la comprensione [organisches Begreifen]: non sono in grado di giudicare quanto la sua analisi psicologica colga il punto essenziale.2
Suo
Albert Einstein

come si vede chiaramente, per Einstein il pensiero viene molto prima del linguaggio, nel quale egli doveva sempre faticosamente “tradurre”. Sappiamo del resto dalle memorie della sorella Maja che apprese la lingua materna tardi, a tre anni d’età, e che da adulto non aveva alcuna facilità con le lingue.

Vale la pena di aggiungere anche che Hadamard si serve di un questionario pubblicato negli anni 1902 e 1904 in Francia, sulla rivista L’enseignement mathématique (vol. IV e vol. VI), chiamato première enquête de la CIEM [Commission internationale de l’enseignement mathématique], allo scopo di rinnovare l’insegnamento nelle scuole francesi, nel quadro di una grande riforma dell’istruzione in Francia, da allora nota come la riforma del 1902, qui per dettagli.

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3 Commenti

  1. Nell’ovvia frettolosità di un mero commento mi preme sottolineare quanto segue.Il linguaggio diciamo generale fatto di lemmi e sintassi è una dotazione base, oramai connaturata all’essere umano. E il pensiero è nutrito proprio dalla matrice linguaggio. Accanto a il linguaggio così inteso si sono sviluppati linguaggi autres, il linguaggio musicale, il linguaggio matematico, della fisica etc. Ricordo nel corso di alcune mie ricerche mi ero imbattuto in un premio Nobel per la fisica raccontava come certe scoperte fondamentali gli erano arrivate in forma di disegnini tipo fumetti ( c’è anche il linguaggio dei fumetti)e partendo da queste intuizioni-disegnini-immagini poi lui deduceva in formule….Insomma pari pari a quanto dice Eistein il quale soleva ripetere che non aveva nessun problema a spiegare la teoria della relatività ai bambini delle elementari, i problemi li trovava quando si trovava di fronte un consesso di professoroni…Non conoscevo questa (capitale) lettera di Einstein come non conoscevo il grande matematico (ebreo anch’esso) parigino che gli porse il questionario. Si riaprono su NI dei grandi temi sui quali intervenire.

  2. Mi pare che Einstein sottolinei quanto avviene un po’ per tutti. Un’idea che si forma non è una sorta di Minerva, che nasce tutta armata e completa, ma si articola per sensazioni, pezzi di frasi, parole singole o addirittura immagini che poi si devono riarticolare e riaggiustare in forme discorsive compiute, forme che sembra ci facciano perdere la completezza e la freschezza di quanto ci “ronzava” in testa. Un po’ come un sogno che, finché resta non detto, è ben chiaro nella testa ma diventa sbiadito e smorto nel racconto che se ne fa. Penso a Borges, alla sua abitudine (mania?) di ri-scrivere – senza preoccuparsi di datare, con buona pace dei suoi curatori – ogni volta i suoi racconti: il pensiero articolato è come “El libro de arena”, obbliga a ri-definire, sempre di nuovo, perché ogni articolazione è insufficiente. E però non possiamo fare a meno di articolare, mettere in forma, lo strato magmatico dell’intuizione. Sono molto titubante ad accordare al pensiero un primato sul linguaggio o, almeno, una sua precedenza. Einstein pensava/ideava per equazioni? Bach per fome tonali? E, se fosse vero per Bach, come potremmo ipotizzare il pensare di Stockhausen o di Schoenberg? E quello di un filosofo della scienza? E, in questo caso, Feyerabend come ideava rispetto, che so, a Popper o a Lakatos? E un Klimt o un Malevic o un Mirò o un Dalì che diavolo avevano in testa?

  3. boh, mi sembra una questione un po’ vacua, nel senso che mentre crediamo di pensare, i pensieri pensano per noi.
    : )
    magari pensieri e linguaggi (pregasi notare il plurale) sono lo stesso sportello di diverse credenze dove stipiamo alla rinfusa stoviglie e meraviglie, tipo quella che forse non siamo noi a dover tradurre faticosamente i pensieri in linguaggi, ma sono i pensieri e i linguaggi a dover faticosamente tradurre i noi in credenze, esistenze e giochi combinatori.
    eh, in proposito sarei curioso di leggere un commento cucinato dal buon Livio Borriello
    : )))

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Antonio Sparzani, vicentino di nascita, nato durante la guerra, dopo un ottimo liceo classico, una laurea in fisica a Pavia e successivo diploma di perfezionamento in fisica teorica, ha insegnato fisica per decenni all’Università di Milano. Negli ultimi anni il suo corso si chiamava Fondamenti della fisica e gli piaceva molto propinarlo agli studenti. Convintosi definitivamente che i saperi dell’uomo non vadano divisi, cerca da anni di riunire alcuni dei numerosi pezzetti nei quali tali saperi sono stati negli ultimi secoli orribilmente divisi. Soprattutto fisica e letteratura. Con questo fine in testa ha scritto Relatività, quante storie – un percorso scientifico-letterario tra relativo e assoluto (Bollati Boringhieri 2003) e ha poi curato, raggiunta l’età della pensione, con Giuliano Boccali, il volume Le virtù dell’inerzia (Bollati Boringhieri 2006). Ha curato due volumi del fisico Wolfgang Pauli, sempre per Bollati Boringhieri e ha poi tradotto e curato un saggio di Paul K. Feyerabend, Contro l’autonomia (Mimesis 2012). Ha quindi curato il voluminoso carteggio tra Wolfgang Pauli e Carl Gustav Jung (Moretti & Vitali 2016). È anche redattore del blog La poesia e lo spirito. Scrive poesie e raccontini quando non ne può fare a meno.
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