Non deprime il cuore né lo stomaco: Ermanno Cavazzoni, La valle dei ladri

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di Francesca Fiorletta

“Io me ne intendo. Quelli che dava agli altri erano baci di superficie, senza mordente, senza che ci fosse l’anima dietro, mentre a me era l’anima che mi suggeva; e io altrettanto.”

Esce per Quodlibet Compagnia Extra, uno dei migliori romanzi di Ermanno Cavazzoni, La valle dei ladri, già edito da Einaudi nel 1999 come Cirenaica, e recentemente rimaneggiato e rivisto dall’autore, che ha voluto anche ripristinare il titolo originario. 
Sulle prime, la scelta mi ha dato un po’ da pensare. Cirenaica è infatti il nome dell’unico film proiettato nell’unico cinema del Bassomondo, questa sorta di limbo-città in cui il protagonista si ritrova a bighellonare senza un vero perché, e da cui proverà a fuggire, seppure con poca convinzione, aspettando treni fantasmatici e miracolosi che, forse, difficilmente arriveranno.
Mi sembrava proprio un ottimo titolo, Cirenaica, perché nel leggere questo libro si ha esattamente la sensazione di rivedere con costanza le stesse identiche scene, slabbrate e riproposte in sequenza circolare, frantumate e ridisposte in fila sotto gli stessi quarti di luce, che è invero un alone diafano, il surrogato di una luna opaca che è sempre sull’orlo di scomparire, catturata e resa immortale, impressa sulla pellicola di carta, prima che il suo pallore inconcusso venga soppiantato dalla ben più pervicace luce elettrica, ossia dal sempre nuovo che avanza.
Perché Cavazzoni avrà scelto di cambiare titolo? Mi sono chiesta, confesso, più volte. E poi ho letto questa descrizione vivacissima degli abitanti del Bassomondo, e ho capito:

“Non si conoscono, non si sono mai conosciuti, si abbracciano per salutarsi, si ingannano e si derubano l’uno con l’altro, se c’è da rubare; ma quasi sempre sono dei poveri diavoli, malmessi, con in tasca nient’altro che un fazzoletto lercio di naso.”

Un clima peggiore è difficile immaginarlo, eppure, dopo aver letto il libro, sfido chiunque a non voler fare una gita nel Bassomondo, dove le nebbie sono coltri fitte e i ragionamenti sembrano fiocchi leggeri, dove il popolo degli obesi litiga col popolo dei gatti e tutti quanti passano le giornate col naso all’insù, nell’attesa che gli ingegneri dell’universo si decidano ad attaccare finalmente la corrente elettrica, che le abitudini cambino, che la religione si faccia scienza, che il futuro, questa blanda ipotesi di futuro, smetta di essere una leggenda tramandata dai popoli via via, senza storia né istruzione né alcuna possibilità di reale informazione.
Il filo conduttore del libro è senz’altro il tempo. Un tempo che è mistico e angosciante insieme, che non è tanto un fluire pericolante di eventi, (ché anzi, a ben guardare, non ce ne sono poi molti), quanto una brodaglia incolore e insapore e inodore, un succo gastrico sfiammante e potentissimo, che annebbia le coscienze e insonnolentisce le pulsioni vitali.
Ecco i pensieri che si affacciano alla mente del protagonista:

“Come mi piaceva l’idea che le stagioni non se ne volessero andare, che si attendesse da qualche parte l’estate, che la pioggia battente facesse aprire gli ombrelli, che un vento libeccio venuto dal mare portasse via le tende e le strutture turistiche; come mi piaceva che a Pietroburgo ci fosse la neve e a Madrid scoppiasse l’estate, la più calda estate che si sia mai registrata negli ultimi dodici anni. Non importava l’anno né il secolo; erano gli eventi che si riaffacciavano aula superficie uniforme del tempo.”

Un tempo, dunque, che non è squisitamente cronologico, ma che è soprattutto un tempo – mi si passi l’eufemismo – percepito. Un tempo epidermico, un tempo sociale, un tempo fatto di luoghi e di stagioni, di sensazioni e di voluttà.
E qui torniamo alla citazione iniziale, a quel bacio sentito e vero, che il protagonista, lui e lui solo, crede di essersi scambiato, con così tanta passione e trasporto, con Annamaria, una stupenda meretrice che è solita aspettare i clienti alla Stazione Centrale, e fingere immediatamente con loro estrema confidenza, quasi mettesse in scena un incestuoso rapporto familiare. Annamaria chiama tutti Paolo, impersona il ruolo della nipote o della cugina dei vari clienti che via via si avventano sulle sue grazie come profughi affamati tenuti a lungo digiuni.
Anche Annamaria, in fondo, è Cirenaica. Vive costantemente nello stesso identico film, fatto di arrivi casuali e saluti calorosi, di fantasie già preventivamente sceneggiate, predisposte bene in ordine sempre sullo stesso copione; fonda la sua stessa ragion d’essere in una trama asfittica e dissonante, che continua a recitare ormai senza convinzione, ma sempre con lo stesso effetto stupefacente.
E, esattamente come lei, tutti gli altri ladri, per provare ad esistere, non fanno altro che rubare la verosimiglianza al quotidiano.
Il mondo fantastico di Ermanno Cavazzoni è talmente limpido e preciso nella sua innata disonestà, da risultare quasi un dogma imprescindibile, una legge di natura fasulla che nutre farmacologicamente l’impostura e che dall’impostura trae il suo più autentico e sagace vigore.

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