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Ultimi appunti su Kobane

di Helena Janeczek
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Allora: l’ONU dice che a Kobane si rischia una nuova Srebenica.
La Turchia dice che in città sono rimasti solo i combattenti e le combattenti dell’YPG, ossia militanti di un’organizzazione terroristica, e su quella base ha rifiutato persino la creazione di un cordone umanitario verso il proprio territorio.
Il comando centrale USA (se non mi confondo) si colloca su una posizione intermedia e dirama cifre basse dei civili ancora intrappolati in città: 700 ca.

Però, secondo altre fonti, tipo quelle ONU, ce ne sarebbero molti di più nei dintorni.
Allora vai con il balletto di numeri: perché è la conta preventiva delle vittime che determina se stiamo assistendo a quella cosa inaccettabile che è la ripetizione di un genocidio.
La perversione di questa logica diventa piuttosto evidente se si guarda come a Kobane è stata sinora gestita la faccenda.
Nei giorni e nelle settimane precedenti di questo assedio che dura da quasi un mese, i combattenti curdi hanno avuto cura di far evacuare gran parte dei civili dalla zona del conflitto. Inoltre la Turchia si è fatta carico e anche vanto di centinaia di migliaia di profughi accolti oltre confine.
Così si è scoperto solo nell’ultima settimana con i carri turchi fermi immobili, con la frontiera bloccata sia per chi cerca ancora di fuggire, sia per chi invece è partito per rinforzare le fila dei difensori di Kobane, che l’accoglienza dei civili fa parte di un disegno che prevede la caduta della città, ma che vuole pararsi il culo (scusate il termine) dalla corresponsabilità in un massacro che agli occhi dell’opinione pubblica mondiale possa assumere una dimensione alla Srebenica.
Questa, immagino, sarà stata una preoccupazione condivisa dalle forze occidentali che infatti fino a qualche giorno fa non sembravano preoccupate di dover intervenire lì con l’appoggio aereo, visto che comunque la catastrofe umanitaria sembrava evitata nelle sue peggiori proporzioni.

La cosa fuori dagli schemi è che il mondo si è accorto di Kobane non perché ricettacolo di future vittime, ma come luogo di una resistenza armata che stava mostrando tutti i crismi anacronistici dell’eroismo.
Ne sono simbolo le miliziane curde, queste donne e ragazze che incarnano a primo colpo d’occhio tutto ciò che si oppone ai cliché su donne e islam, tenendo conto che in modo assai semplificato è propio l’immagine delle donne nascoste dal burqa (o meglio dal niqab) a simboleggiare l’oppressione inaccettabile del fondamentalismo (o dell’islam tout court) per l’Occidente.
In pratica: se non ci fossero state queste interpreti di un rifiuto radicale a rassegnarsi al ruolo della vittima, queste donne che reclamano di voler vivere e morire combattendo per la loro terra e la loro libertà, Kobane sarebbe caduta nella disattenzione generale.
Il fatto che faranno la brutta fine che si sono scelte – loro e i difensori maschi, curdi e non solo curdi – dovrebbe far riflettere su quanto sia sbagliato sentirsi chiamati in causa soltanto per la difesa delle vite nude e inermi e non altrettanto rispetto ai diritti e ai desideri (di libertà, giustizia, uguaglianza) dei popoli e dei singoli – donne e uomini che siano, ovunque essi siano.
Non è solo questione di riconoscersi ancora in comuni idee e aspirazioni, quanto anche la sensazione elementare e inquietante che chi si allarma e si indigna soltanto per un gran numero di morti trucidati, magari è pure lui piuttosto morto dentro.

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15 Commenti

  1. Anch’io – ora che ti leggo, dico : grazie, Helena. L’ultima frase racchiude tutto, o comunque molto. Davvero.
    In questo frammento finale Il fatto che faranno la brutta fine che si sono scelte – loro e i difensori maschi, curdi e non solo curdi – dovrebbe far riflettere su quanto sia sbagliato sentirsi chiamati in causa soltanto per la difesa delle vite nude e inermi e non altrettanto rispetto ai diritti e ai desideri (di libertà, giustizia, uguaglianza) dei popoli e dei singoli – donne e uomini che siano, ovunque essi siano.
    Non è solo questione di riconoscersi ancora in comuni idee e aspirazioni, quanto anche la sensazione elementare e inquietante che chi si allarma e si indigna soltanto per un gran numero di morti trucidati, magari è pure lui piuttosto morto dentro
    non dici (solo) qualcosa di questa situazione. Dici molto di più : che oltrepassa, va oltre, ben oltre.

  2. Ragazze, la lettera che vi posto nel link è un colpo bassissimo. Preparare i fazzoletti prima di leggere. Scusate l’ironia ma mi sento inadeguata di fronte a questa realtà.
    Probabilmente è una coincidenza ma oggi è girato un tweet molto attendibile secondo il quale il comandante delle resistenza a Kobane è una donna e si chiama come questa ragazza: Narin.
    http://www.pane-rose.it/files/index.php?c3:o44900:e1

  3. Ringrazio Helena per questa pagina umana. Scritta con sensibilità.
    Visione giusta.
    Si legge le ultime righe con un groppo alla gola.
    Perché si legge ultima resistenza già persa. Morta.

  4. Ho letto. Fa male – e sì, siamo inadeguati rispetto a questa realtà. Noi, che non siamo “dietro quella finestra”.

  5. Già, Kobane non interesserebbe senza le donne combattenti: una sorta di ossimoro, noi siamo il “genere” pacifista. Tendo a privilegiare lo sguardo politico e pensavo alla Turchia che certo non si duole per le morti curde. Ma la lettera di Narim è davvero toccante. Ho due figlie, mi sento addosso i panni di sua madre.

  6. Ciao Helena, bel pezzo, davvero. Mi vengono in mente alcune riflessioni, per noi che seguiamo la questione curda da sempre, persino da prima del caso Ocalan. Certo Kobane è diventata un simbolo, grazie alle donne combattenti. Secondo me però la capacità politica del PKK è stata notevole. Sono riusciti a mettere Erdogan sulla sedia dell’imputato, a mostrare al mondo la sua sporca operazione e a ridare così fiato ad una lotta che languiva stretta nella morsa dei curdi moderati iracheni da un lato e dell’Europa che vuole accogliere la Turchia nella UE. Oggi entrambi questi nemici sono alle corde: chi militarmente (i peshmerga allo sbando) chi politicamente (Erdogan costretto a trattare). Questa è la grande vittoria del PKK: sofferta e con un altissimo prezzo, ma vittoria. Non fermiamoci adesso: bisogna impedire che si crei una zona cuscinetto al posto del Rojava e continuare le pressioni perchè il YPG e il PKK vengano definitivamente esclusi dalla lista delle associazioni terroristiche stilata dagli americani. Credo che la lotta in Libano / Siria / Irak sarà ancora lunga.

  7. Ciao Luca, non sono così ottimista, ma spero di sbagliarmi. Certo, molti si sono resi conto del gioco sporco di Erdogan e magari si sono anche resi conto che l’ISIS non è un tale mostro invincibile, se una formazione avversaria, inferiore per numero e per armamenti, comandata da una donna ha saputo resistere per quasi un mese. Ma dato che devono vedersela non solo con il nemico-nemico ma con un’accozzaglia di forze guidate solo dai cinismi della Realpolitik, non sarei così fiduciosa che alla fine Erdogan non ottenga la sua zona cuscinetto.
    Da quel che si è visto (o meglio NON si è visto) in questi giorni, il potere ricattatorio di Erdogan sui propri alleati (USA, in primis) dev’essere piuttosto forte. In più – con tutta la non simpatia del caso – questo ha anche qualche ragione a trattare le condizioni per cui dovrebbe andare a impelagare i suoi carri e il suo esercito di terra laddove gli altri non sono disposti a farlo. (che poi non è la cosa che chiedono i kurdi, anzi).
    Infine: è dalla guerra di Spagna che non si è mai vista da parte occidentale una preferenza accordata alla forza politica-militare comunista rispetto a quella fascista “moderata” (sino alla spiacevole scoperta che coloro che avrebbero dovuto riportare l’ordine non sono moderati per un cazzo). Anche per questo mi pare assai difficile che il Pkk e l’YPG vengano tolti dall’elenco dei terroristi: ci sono più chance in Europa, magari. Però si è già visto che la Germania ha anche lei un problema turco-curdo – ci sono già stati degli scontri assai brutali – e chissà se teme di più la rabbia degli uni o degli altri.

  8. Oggi è il 30° giorno che l’YPG e i suoi alleati stanno resistendo a Kobane. Anzi, hanno ripreso la postazione da cui sventolava la bandiera dell’IS e sembra persino che abbiano riconquistato la montagna che domina la città. Per quel poco che io capisca di cose militare questa è una conquista importante.
    Nel frattempo l’IS avanza pericolosamente in Iraq.
    Proprio per questo una sconfitta a Kobane sarebbe non solo una vittoria eroica delle donne e degli uomini che vi stanno combattendo, e garanzia di incolumità per un numero alto di civili, ma un risultato importante per tutti coloro che hanno dichiarato guerra allo Stato Islamico.
    Perché Kobane non sarà magari Stalingrado, però in guerra conta anche molto che possa essere dimostrato che un nemico creduto fortissimo e ferocissimo può essere sconfitto. In questo caso: da un gruppo di combattenti, inferiori per numero e armamenti, per metà donne, comandati da una una donna. Ossia quella che si soleva definire la parte più valorosa.
    L’IS (specie in Siria, se ho capito bene) è un esercito di volontari accorsi da tutto il mondo e attratti per diverse ragioni, tra le quali però c’è di sicuro il suo prestigio. In pratica ti arruoli o ti schieri con lo Stato Islamico perché lo consideri vincente.
    L’IS, inoltre, è molto brava nel usare i moderni mezzi di comunicazione e propaganda. Ma ora i riflettori sono tutti su Kobane e quindi se proprio lì risultano sconfitti, la loro immagine non potrà che riportarne un danno considerevole.
    Speriamo che a sto punto gli americani abbiano capito che se – come sembra evidente – contro i tagliagola vogliono vincere facile (“no boots on the ground” ecc), dovrebbero forzare un po’ più la mano ai loro simpatici alleati sulla battaglia di Kobane.

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Helena Janeczek è nata na Monaco di Baviera in una famiglia ebreo-polacca, vive in Italia da trentacinque anni. Dopo aver esordito con un libro di poesie edito da Suhrkamp, ha scelto l’italiano come lingua letteraria per opere di narrativa che spesso indagano il rapporto con la memoria storica del secolo passato. È autrice di Lezioni di tenebra (Mondadori, 1997, Guanda, 2011), Cibo (Mondadori, 2002), Le rondini di Montecassino (Guanda, 2010), che hanno vinto numerosi premi come il Premio Bagutta Opera Prima e il Premio Napoli. Co-organizza il festival letterario “SI-Scrittrici Insieme” a Somma Lombardo (VA). Il suo ultimo romanzo, La ragazza con la Leica (2017, Guanda) è stato finalista al Premio Campiello e ha vinto il Premio Bagutta e il Premio Strega 2018. Sin dalla nascita del blog, fa parte di Nazione Indiana.
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