Francesco Targhetta, Le cose sono due – Premio Ciampi «Valigie Rosse» 2014

Francesco-Targhettadi: Francesca Fiorletta

Come molti dei migliori poeti suoi coetanei, Targhetta accompagna alla denuncia la rappresentazione, o meglio denuncia rappresentando, e lo fa con una fedeltà al reale e una salutare ingordigia di particolari che raramente – e la cosa può risultare curiosa – avviene nella nostra narrativa attuale.

Così, Paolo Maccari, nella postfazione a “Le cose sono due” di Francesco Targhetta, vincitore del Premio Ciampi «Valigie Rosse» 2014. E sono effettivamente due le sezioni che compongono questa breve e vivacissima raccolta poetica, venata dal barlume di un atavico contrasto sociale e intrisa di ossimori logici, lessicali e soprattutto interiori.

Diciamo subito, infatti, che qui Targhetta, anche più che in altri suoi lavori poetici, non ha paura di far scendere in campo quello che è il tanto decantato (o osteggiato, a seconda dei posizionanti teorici) “io” autoriale. Un “io” che si guarda camminare nel mondo, avere a che fare con familiari, conoscenti, perfetti estranei; un “io” che si scontra col sempre inospitale mondo del lavoro, con la spesso obnubilante quotidianità della periferia.
Ecco un esempio, tratto dalla prima sezione (UNO, appunto):

Il lavoro distrae, ma il lavoro

non c’è, e resta allora la fame, 

spietata e pura, un trentatré giri 

che stura il silenzio del mattino, 

mentre il giorno è gigante

e mica lo fermi,

sale in sordina su quei treni eterni 

lungo la pioggia delle coste adriatiche

finché è sera dentro le stanze 

e niente, attorno, si è mosso, 

come (ricordi?) belle statuine,
marce, però:


hanno i volti smangiati, 

gli occhi venati di rosso.

Il lavoro non c’è, dunque, quale affermazione più inconfutabile, quale situazione più oggettivata?
Eppure, ci sembra davvero di sentirla gracchiare, quella puntina malmessa del trentatré giri, ci sembra di essere in grado noi stessi, leggendo, insieme a quell’ “io”, che scrive, di dare effettivamente la stura al silenzio del mattino. Sentiamo caderci addosso le gocce pesanti della pioggia adriatica e soprattutto riusciamo a guardare perfettamente le iridi dell’autore, e le scopriamo, anch’esse, quasi come un’indiscrezione, venate di rosso.
E, proprio come un’indiscrezione, percepiamo nettamente anche l’altra grande contraddizione, insita da sempre nella poetica di Targhetta: la solitudine, questo sentimento pauroso e salvifico insieme, a tratti ricercata come lido riparato dal malessere delle aspettative e del tran tran del vivere quotidiano, dall’altro lato eretta a baluardo di autocoscienza, a spauracchio da sconfiggere, a nemico eterodosso da sorprendere, rincorrere, giocare.
Due esempi speculari:

Provare ad arginare la solitudine 

adulta di chi, un tempo,

si era pensato alla vita:

chi, dunque, ha sbagliato tra noi?

Si chiede l’autore, e poi, invece, nel componimento successivo:

Ma in sala insegnanti sempre scopri

la prof che rimane più del tempo:

lega i compiti con le fascette
e
sbarra con la biro i registri.

Troverà, uscendo, le strade più sgombre, 

più duro, a casa, il pane in cassetta.

Dove alberga il vero sentimento di abbandono, dunque? Nella convivialità coatta di un invito a pranzo domenicale o nella bruciante tristezza di una cena fatta di avanzi, consumata a stento, per inedia, da soli con se stessi?
Quello che fa sorridere l’autore, però, e con lui il lettore, è ancora e sempre l’osservazione puntuale e metodica delle tipologie umane, dei molti tic, delle varie abitudini, delle ossessioni, delle idiosincrasie, dei tratti somatici, della marca di sigarette fumate, dei quadri appesi ai muri.
Nella seconda sezione del libro, poi, appunto DUE (e già anche questa titolazione scarna ed essenziale meriterebbe di per sé attenzione), Targhetta sviscera un parterre di comportamenti umanoidi al limite del verosimile, e però, assolutamente attendibili.
Riporto come esempio solo il primo componimento, per intero:

Vecchi con moldave

Negli inverni delle scritte fasciste 

sugli svincoli, sui rami, e sui muri,

vanno come divi i vecchi con moldave 

virando con vanto davanti ai tabacchi, 

agli occhi dei vuoti acconciatori
maschili: spalline ottanta, capelli

tinti, gli zigomi duri come i baristi,

a bere caffè asciugando le bave

li regge con gelo la loro badante, 

e fuori, poi, i palazzi di muffa.

Tutti noi indietro nel tempo, solo loro

in sincrono eterno: vanno a vortice,
su valzer, i vecchi con moldave, 


succhiando chi li guarda nella truffa.

Si badi, non c’è traccia di supponenza nelle parole di Targhetta, forse una punta di intima rassegnazione nella diversità dei tempi e dei costumi, (non a caso, la parola “tempo” ricorre in modo martellante e questa volta sì, diremmo, subcosciente), sicuramente una smaccata curiosità dell’altro da sé, coadiuvata da un imprescindibile senso critico, acuminato e verace, nell’osservazione del mondo.
Un mondo, insomma, quello di Francesco Targhetta, per tornare alla disamina iniziale di Paolo Maccari, denunciato e rappresentato da molti suoi coetanei, ma quasi mai con tale e tanta lucidità e immediatezza; un mondo nel quale gettarsi a capofitto nelle giornate più apatiche, e allo stesso tempo un mondo dal quale cercare un riparo che sia in primis domestico, familiare, benché forse quasi mai realmente accudente.
Concluderei lasciando parlare ancora l’autore, dunque, in quella che mi sembra la confessione principe dell’intero libro, dell’intera poetica:

Solo a casa ho poi sentito il sapore, 

dentro le ossa,

di questi transiti un poco tardivi: 

non l’aroma all’incenso dei morti, 

ma la puzza violenta dei vivi.

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“Le cose sono due” di Francesco Targhetta, vincitore del Premio Ciampi «Valigie Rosse» 2014.

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