Assioma 7: Lettori e no

[Presentiamo un primo stralcio da Letteratura e controvalori. Critica e scritture nell’era del web, Roma, Donzelli, 2014.]

di Alberto Casadei

1. Nell’Italia di oggi, uno dei problemi principali per l’affermazione di opere letterarie di valore è la mancanza di un pubblico adatto a sostenerle che sia non solo preparato ma anche numericamente ampio.

2. Nel campo di forze culturali attuale, il primo modo per ridurre all’insignificanza autori e opere interessanti è quello di poterne constatare la scarsa o irrisoria diffusione: se di un buon poeta si vendono cento copie, la sua presenza nel campo di forze è ipso facto pressoché nulla. Ogni considerazione più raffinata è ritenuta inutile, o al massimo consolatoria per circoli ristretti di cultori.

3. Il rapporto di questa situazione con le modalità di insegnamento della letteratura nelle scuole e all’università, che è la prima forma di critica con cui si confrontano i potenziali lettori, è evidente: non si può pretendere di plasmare una consapevolezza dei valori se si trattano le opere letterarie o in prospettiva asetticamente storicistica o con parametri vetero-strutturalisti.

4. Tuttavia, anche la critica ufficiale non fa molto per modificare questo stato di cose. Al di là delle iniziative apprezzabili, soprattutto in rete, negli ultimi decenni ci si è mossi quasi sempre nell’ottica delle consociazioni e delle poetiche ad excludendum, magari all’insegna di personalismi che, in genere, hanno avuto una parabola di poche stagioni.

5. Una riflessione seria sull’evoluzione della letteratura sino alla metà del secolo scorso è stata fatta, specialmente per i macrogeneri, ma manca ancora un tentativo di instaurare una connessione fra i valori individuati e il presente in tutti i suoi risvolti, comprese le forme di creatività extraletteraria e di teorizzazione su quelle forme. Quest’ultimo aspetto è fondamentale anche per riuscire a cogliere valori adeguati nella piena contemporaneità.

6. «Il pregiudizio più comune è questo: che la nuova letteratura debba identificarsi con una scuola artistica di origine intellettuale, come fu per il futurismo. La premessa della nuova letteratura non può non essere storica, politica, popolare: deve tendere a elaborare ciò che già esiste, polemicamente o in altro modo non importa» (Gramsci).

7. Ma cosa significa, esattamente, cercare di trovare valori che siano popolari per un pubblico ampio e consapevole oggi? In primo luogo, vuol dire tentare di individuare le opere che intercettino, nella loro resa stilistica, condizioni socio-antropologiche modificate per il cambiamento di alcune propensioni profonde: aspettative sulla vita e sulla morte, desideri per il sé individuale e per il sé collettivo, cognizioni dei limiti, percezioni del male.

8. Il fatto di affrontare temi impegnati, o magari «storie vere» (peraltro danneggiate ormai dal degenerare del modello dell’autofinzione), è solo un aspetto della possibile popolarità: ma non può essere questo il parametro di valutazione della critica e del pubblico criticamente consapevole. DeLillo non dovrà mai essere considerato meno significativo di Saviano.

9. Senza un sostegno adeguato per qualità ma anche per peso specifico, nessuna opera può attualmente superare la barriera della presunta insignificanza. Probabilmente, però, è sempre stato così, benché si tenda a dimenticarlo: i poemi omerici, quello di Dante, i drammi di Shakespeare, i romanzi di Tolstoj sono stati, anche, popolari.

10. Alla domanda: «quali sono i narratori e i poeti italiani (e non solo) attualmente più rappresentativi?» è comunque necessario rispondere, preparando insieme gli strumenti idonei a sostenere la propria risposta presso il pubblico interessato. Di qui l’ulteriore necessità di interrogarsi sulla «divulgazione onesta», ovvero sul confronto aperto ma nel riconoscimento, al critico-proponente, di una competenza che oggi invece viene spesso assegnata senza verifiche.

11. La dialettica di pensieri e di poetiche diverse per riuscire a cogliere i valori più forti in questo determinato momento storico è il primo passo che si può compiere per coniugare il lavoro critico e le esigenze di un pubblico criticamente consapevole. In questa prospettiva, condividere e sostenere le iniziative già esistenti, anziché crearne altre potenzialmente sempre migliori ma solo all’infinito, sarebbe un primo segno di maturità, che potrebbe trovare un riscontro nel pubblico reale, con l’obiettivo concreto di ottenere un suo allargamento nell’immediato futuro.

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13 Commenti

  1. molto interessante, sì. Complimenti Alberto!
    (ma “primo stralcio” vuol dire che ne avremo altri? perché sono curiosissima.)
    nel frattempo, capo Gianni, cerchiamoci il libro. :)

  2. Pur conoscendo soltanto questi appunti, che invitano sicuramente a leggere tutto il libro, mi sembra di condividerne una larghissima parte. Mi interrogo, però, su alcuni passaggi: al punto 7 mi chiedo se la citazione di Gramsci (n. 6) spinga davvero a “cercare di trovare valori popolari” e a cosa si riferiscano questi “valori” (estetici? etici? entrambe le cose? o piuttosto: morali? politici? etc.) e se quell’accezione si possa trovare già in Gramsci. Notevolissima citazione, comunque, quella e notevole aggancio, perché risuona in molte direzioni, dentro e fuori il web…
    Rispetto al punto 11, non credo che valorizzare le iniziative critiche già esistenti spinga a un riconoscimento chiaro della funzione critica, perché monolitico, bipartito o che altro… La proliferazione c’è già e serrare le fila serve solo a legittimare azioni che spesso sono già ora, come si ricordava anche sopra, ad excludendum.
    Il punto 3, infine, con la proposta di avversare la dicotomia tra storicismo asettico e vetero-strutturalismo nell’insegnamento scolastico e universitario mi sembra anacronistico, in quanto l’attitudine generale è quella che porta a una versione ibrida e perversa di entrambe le prospettive, perversa perché non riesce a isolare i propri fondamenti e a dar loro significato. Insomma, magari fosse così semplice!

    Lorenzo

  3. beh, tanto per cominciare è già qualcosa che non ci sia traccia dei piagnistei contro amazon(ed è già tanto). Probabilmente è stata digerita e rielaborata la visione dell’orgoglio degli amberson del vecchio Welles .Dalla gemmazione di questi undici punti è possibile partire per una tra-secolarizzazione delle lettere. Il futuro ha inizio

    https://www.youtube.com/watch?v=9ep6YINlWcI

  4. Questi assiomi più che chiuderala, mi sembrano fruttuosi punti di riferimento per avviare eventualmente la discussione, per avviarla incanalandola bene.
    Di questa serie, mi sembra che l’articolazione più delicata si abbia con il punto 7. Qui infatti ci troviamo in questa tensione: le opere sono popolari, non semplicemente perché hanno successo commerciale (alta diffusione), ma perché hanno caratteristiche che si definiscono in termini di capacità di captazione di movimenti profondi nell’umano, movimenti che stanno in bilico tra le invarianti antropologiche e le determinazioni storiche, per dirlo un po’ grossolanamente. E fin qui benissimo. Solo che la “rilevazione” di questa “captazione” che renderebbe l’opera popolare in senso gramsciano spetta al critico. Ciò presume che il critico, allora, sia del tutto avulso da quel paradigma dominante che è basato sulla popolarità quantitativa (frequenza della apparizioni, numero delle copie, impatto della pubblicità). E questo è un primo scoglio, che in qualche modo Casadei segnala al punto 10. Rimane però il problema: chi verificherà la competenza del critico, se il pubblico non è già atto a verificarla da solo, e a quel punto renderebbe meno decisivo l’intervento correttore del critico (che sposta dalla cattiva alla buona popolarità l’attenzione)?
    Mi sembra, che ci sarebbe qui un tempo e un passaggio ulteriore. Il critco propone ciò che potrebbe essere sfuggito al pubblico, e ristabilisce l’ingiustzia pubblicitaria o distributiva. Dopodiché un’ulteriore prova di buona popolarità sarebbe la risposta fornita da un pubblico avvertito, dove con pubblico avvertito non intendo certo una qualche cerchia di addetti ai lavori, ma un lettore dal profilo sociologico più vario, che abbia però una signifcativa esperienza di letteratura moderna e contemporanea.

  5. Grazie per questi commenti, che ovviamente pongono problemi molto seri. In estrema sintesi, il problema che volevo porre e’ quello di un pubblico diverso da quello che attualmente segna in Italia il destino di tutte le nostre opere letterarie. Il critico dovrebbe essere parte integrante di un pubblico propositivo e capace di fornire uno stimolo a condividere valori: invece i paradigmi con cui gran parte dei potenziali esce ora dalle scuole secondarie sono ancora quelli che indicavo schematicamente nei primi punti. Occorre a mio avviso un grande impegno collettivo per riformare innanzitutto i tipi di insegnamento e gli obiettivi (più competenze critiche e più libertà di scelta, meno nozionismo da risposta chiusa e meno sapere asettico). Si tratta insomma di creare un popolare non come singoli contenuti ma come apertura a una dimensione del letterario in quanto sapere integrato con le dinamiche del presente. Da questo punto di vista credo che, nelle scuole, l’apertura a un’elaborazione di studio collaborativo in internet sarebbe molto importante: integrare sempre i saperii statici del libro con quelli dinamici della discussione e della valorizzazione in rete sarebbe un modo per consentire una crescita della competenza personale in un ambiente effettivamente aperto e comunitario. Insomma, l’obiettivo di fondo di questo assioma e del mio libro e’ quello di agire dove davvero esiste la possibilità di cambiare alcuni fondamenti della Bildung predisposta dallo Stato, ma di fatto rimasta ad alcuni presupposti veteroumanistici ormai impratciabili.

  6. Molto interessanti i punti di Alberto Casadei, su alcuni dei quali concordo pienamente e su altri trovo che siano uno stimolante contributo al dibattito. Tuttavia la sua proposta per quel che riguarda l’insegnamento della letteratura a scuola, che mi sembra sulla linea di alcune interessanti proposte di Ceserani negli anni novanta, si scontra con il fatto che sia il governo italiano sia l’unione europea stanno facendo delle politiche per la riduzione dello studio di questo. I programmi nelle superiori dovranno progressivamente concentrarsi sulla competenza linguistica anche nella lingua nazionale. Questo nel medio periodo dovrebbe comportare una disarticolazione del canone scolastico nazionale, che verrebbe sostituito da testi di carattere giornalistico e di altre modalità d’uso ( le prove invalsi d’italiano saranno un po’ il filo conduttore e il modello generale). Quindi la disarticolazione del vecchio modello veteroumanistico è già in atto, ma non nella direzione auspicata da Casadei

  7. Propongo una rivalutazione dei “circoli ristretti di cultori” (di cui al punto 2).

    Ieri, rileggendo in treno una raccolta di scritti giovanili di Hoffmannsthal (“L’ignoto che appare”, Adelphi), a p. 77 (in un articolo su Gabriele D’Annunzio) ho letto:

    Noi! Noi! So bene che non parlo dell’intera grande generazione. Parlo di due o tremila uomini, sparsi nelle grandi città europee. Alcuni di loro sono celebri; altri due o tre scrivono libri stranamente asciutti, in certo modo crudeli, eppure singolarmente commoventi e appassionanti; alcuni, timidi e orgogliosi, scrivono soltanto lettere che generalmente si trovano cinquanta, sessant’anni dopo e si conservano come documenti etici e psicologici; di alcuni non rimarrà addirittura traccia, neppure un aforisma fra il triste e il pungente o un appunto personale scarabocchiato a matita in margine a un libro ingiallito.
    Questi due o tremila uomini hanno tuttavia una certa importanza: non occorre affatto che tra essi siano i genii, anzi neppure i grandi ingegni dell’epoca; non sono necessariamente la testa o il cuore della generazione: ne sono soltanto la consapevolezza. Con dolorosa chiarezza si sentono uomini d’oggi; si comprendono tra loro, e il privilegio di questa massoneria spirituale è quasi la sola cosa che essi, in senso buono, hanno di vantaggio sugli altri. Ma dal gergo in cui si raccontano l’un l’altro le loro singolarità, la loro particolare nostalgia e la loro particolare sensibilità la storia ricava il carattere dell’epoca.

    Questo, ovviamente, valga solo come suggestione. Si può aggiungere il discorso d’intenti che proponevano lo stesso Casadei e Andrea Cortellessa e Guido Mazzoni presentando il Premio Dedalus (vedi):

    Fino a qualche decennio fa non ci sarebbe stato bisogno di un’iniziativa simile [del premio Dedalus, cioè]. Esisteva in questo campo una “società stretta”, per dirla con Leopardi: una comunità di lettori, professionali o meno, che sapeva benissimo quali fossero le opere da leggere, magari per odiarle. Erano in larga parte le stesse persone che provvedevano a segnalare i libri per iscritto; gli altri prodotti riguardavano esclusivamente gli uffici contabili delle case editrici. Oggi ovviamente non è più così. Lungi dal rimpiangere quella società stretta – con i suoi riti di affiliazione, il suo classismo, le ipoteche ideologiche (nell’accezione peggiore del termine), l’intreccio inestricabile di personalismi e rancori – si assiste con sgomento (o, da parte di qualche snob, con nichilistico entusiasmo) al venire meno, d’improvviso, di qualsiasi proporzione fra libri d’intrattenimento e libri di qualità. La stessa espressione “editoria di cultura” che un tempo, senza che fossero necessarie premesse e distinguo, si sapeva con esattezza cosa significasse, è divenuta inattuale e, appunto, incongruamente snobistica. È da molto tempo, ormai, che il successo (o l’insuccesso) nelle vendite, di qualsiasi “prodotto culturale”, sembra azzerare a priori ogni possibile discussione sul valore delle opere d’arte, nonché addirittura sui contenuti – gli stili di vita, le visioni del mondo, le aspettative di futuro – che esse da sempre veicolano. Se l’unico valido parametro di misura si affida a quella Provvidenza secolarizzata che il senso comune ha da tempo individuato nel mercato, quello della letteratura – come le altri arti – rischia davvero di ridursi a un ruolo ornamentale.

    A volte basta chiamare qualcosa con un nome diverso (che so: “pattuglie di combattivi resistenti” anziché “circoli ristretti di cultori”…) per cambiare il tono di un discorso. Ma anche questo valga solo come suggestione.

    I componenti di questi circoli o pattuglie, chi è dentro quella “società stretta” che i tre critici citano, o chi (come direi io: ciascuno ha i suoi vezzi e le sue ragioni nello scegliere le parole) sta dentro la Repubblica delle lettere – hanno una responsabilità pedagogica (e anche su questa parola si può discutere).

    Ciascuno di noi ha formato, ha contribuito a formare, sta formando, eccetera, qualcuno che fa a ingrossare le file dei ristretti circoli, o delle combattive pattuglie, o della Repubblica delle lettere eccetera. Questo lavoro, spesso molto intenso benché talvolta quasi involontario, è forse qualcosa di cui sarebbe utile (a complemento del discorso) parlare.

    O sono andato fuori tema?

  8. a giulio,
    “Ciascuno di noi ha formato, ha contribuito a formare, sta formando, eccetera, qualcuno che fa a ingrossare le file dei ristretti circoli, o delle combattive pattuglie, o della Repubblica delle lettere eccetera. Questo lavoro, spesso molto intenso benché talvolta quasi involontario, è forse qualcosa di cui sarebbe utile (a complemento del discorso) parlare.”
    Secondo me sei in tema, perché aggiungi un tassello non dico non-istituzionale, ma a bassa istituzionalità, se questo termine a senso. Accanto a scuola e università, ci sono i lettori-scrittori, gruppo eterogeneo, ben inquadrato dal passo di Hoffmannsthal…
    In questa zona d’incontro avviene la “trasmissione”, che non è trasmissione di una poetica, di un gusto, ma di una pratica, di una tipologia antropologica di azione, ad esempio la lettura e la discussione a partire da un testo che viene considerato come letterario.
    In tutta questa faccenda, cio’ che è importante ricordare per me è questo. Un’attività, una prassi, una pratica realizzata da un piccolo numero di individui, una minoranza, puo’ essere altrettanto importante che una pratica che, in un determinato momento storico, è diffusa e maggioritaria.
    Se si perde il momento della trasmissione (che è trasmissione tra generazioni) si perdono non solo i due o tremila uomini di cui parla Hoffmannsthal, ma si perdono tutti quegli uomini e donne a venire che i tremila avrebbero contribuito a formare.
    Non so se è chiaro il discorso. Se s’interrompe la trasmissione anche di un aspetto minoritario dell’ssere umano (leggere e discutere un testo letterario, guardare il mondo attraverso un testo letterario) è anche un pezzo dell’umanità futura, della possibilità futura di essere un certo tipo di uomo, che si perde.

  9. Ringrazio tutti per queste considerazioni. Uno dei miei obiettivi sarebbe quello che i gruppi di lavoro sulla letteratura (altra definizione possibile) fossero il punto di intersezione fra esigenze diverse, quelle di lettori già esperti ma interessati a sapere di più, e lettori discontinui, disposti ad accogliere ogni tipo di suggestione che arriva senza selezioni. Occorre porsi il problema di cosa viene letto attualmente per capire cosa sottolineare di *alternativo* nelle scuole e nel l’università prima, poi in tutti gli ambiti di confronto. Per fare un esempio, all’ultima edizione di pordenonelegge le librerie coop sono riuscite a creare uno spazio per la poesia con centinaia di libri praticamente introvabili: bene, tutti gli eventi sono stati frequentatissimi e l’effetto valanga si è creato nei vari giorni. Sempre piccoli numeri, e’ ovvio, ma c’era la sensazione di stare in una condizione significativa, con un buon circolo di lettori. Bisogna puntare. a risultati come questo.

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