“Previsioni e lapsus”: tre estratti e una nota di lettura

 Luciano Mazziotta

tre estratti >

da maturità berlinese III. fine della città

*che dire? di cosa parlare se non di meteo, oroscopi e cose? a berlino, di ora in ora, cambia il tempo e la stagione, per questo il luogo dell’appuntamento non è dicibile, nonostante la lingua, fino a pochi minuti dall’incontro. è lingua, spazio e atto meteorologico o funzione dello stesso insieme. sulla weserstrasse, per dire, raccontava l’ispanica di una rivoluzione lontana che era impossibile non partecipare. e che, se la lingua è universale, e con lei la città che vivevamo, avremmo dovuto cospargere il suolo di voci, spargere la voce come chicchi di noi, che un pollicino, sedotto, avrebbe raccolto e ci avrebbe raggiunto. che tutti gli oggetti, diceva, di cui impariamo il nome, non sono che apparizioni e fantasmi che utilizziamo per costrizione indiretta. e se l’ascoltavo e imparavo la sua lingua madre, era perché volevo sedurla, che poi l’ho anche fatto, a berlino, a luglio e ad agosto, ma prima di adesso, se non l’ho detto, è perché la lingua era impedita dalla colpa di averlo fatto con il divieto di dirlo. e lei continuava, dicendo, che berlino era un balocco e che tutto sarebbe rimasto in quella città, che non avremmo potuto dirlo a nessuno se non agli specchi e un riflesso che parla non fa una realtà. che non volevo parlare perché, se avessi detto, l’avrei interrotta e avrei chiesto: ti ho mai parlato della felicità?

 

da maturità berlinese II. ipotesi di controllo

*a berlino pioveva, ma in pochi aprivano ombrelli e non per tutti. nell’unico giorno di sole a treptower, il bianco del monumento al soldato sovietico, bianco di cubi, regole e simmetrie, tutto al suo posto, e l’unico punto di fuga il soldato col bambino in braccio. saliamo più in alto a vedere quel bianco, per controllare il controllo, che chi ci accompagna ci chiede di farci una foto. rifiuta! che se fuori, se quello che vedi è astrazione dell’ordine, si cova qualcosa da qualche altra parte, nel corpo, magrezza fittizia, che se la fotografi è vera, che se ti fotografi l’interno diventa un esterno da controllare. un museo. il museo della stasi che niente era fuori controllo, che si viveva in ascolto e per addizione. e invece qualcosa qui cova e starà per aprirsi una faglia, altrove. poi piove: qualcuno, per noi, apra l’ombrello

 

Con noncuranza però

Con noncuranza però
per arrivare al finale
su pianure che chiamo pianure
di case coi tetti crollati
e nastri e pellicole attorno
che i piedi non possono: chiodi
sporgono, chiodi
e tutto da carcassa è finestra
se un piede calpesta il pilastro
fissato per reggere il tetto
ma è sopra e lo copre e si apre:
si fa da fessura finestra
su pianure che chiamo distese
di ghiaccio che i piedi non possono
che mettersi in fila ai bordi dei fossi
o esporsi per cogliere il fondo dei lapsus
della pianura che chiamo pianura
che chiamo pianura crepata:
ché i piedi non possono
che mettersi in fila ai bordi dei fossi
o spingere il corpo a stare seduto:

 

né dire, disdire, né chiedere aiuto.

 

*

 

e una nota di di lettura >

di Francesco Filia 

Previsioni e Lapsus di Luciano Mazziotta (Zona 2014), è una vera e propria fenomenologia poetica della percezione, una ricognizione di ciò che catturiamo attraverso i sensi, ricognizione che però, sospendendo la visione ordinaria dei fenomeni, rileva l’assenza di ordine della realtà e ne rivela quindi la dimensione originariamente caotica. Anche dietro l’apparente regolarità degli eventi a uno sguardo ravvicinato, che è quello che assume Mazziotta, gli eventi si deformano, si disgregano, risultano eccentrici rispetto a qualsivoglia ordine, per mostrarsi nella loro dimensione di passaggio, di transito (Si scelga una forma, un esagono./ Lasciamo scivolare su di un lato/ un altro forma, un altro esagono./ Come impronte sul marmo ritoccate/ costruiamo agli angoli figure/ pavimenti/ moquette:/ così la vedo la neve caduta/ sul muschio: né acqua né ghiaccio/ stadio intermedio di freddezza// che abbaglia: transito). L’incontro tra il soggetto percipiente e l’oggetto percepito si mostra come un vero e proprio scontro, ma anche come uno sfuggirsi reciproco tra i fenomeni e chi tenta di percepirli, anzi spesso la differenziazione tra il soggetto e l’oggetto diventa indistinguibile, se non addirittura si rovescia nel desiderio da parte dell’io di diventare cosa, desiderio che non ha nemmeno il filtro rassicurante della similitudine come avviene in Natale di Ungaretti, ma assume invece una volontà metamorfica, che liberi l’io dal suo principio d’individuazione fino al raggiungimento di un impossibile grado zero (cosa che diventi cosa/ per fare a meno delle cose). Lo sfasamento, questo continuo proiettarsi e mancarsi dell’io con le cose, non è solo dovuto al momento della percezione sensoriale ma è rafforzato, nella sua caoticità, nell’immaginazione e nella memoria: l’io non manca solo le cose, ma manca anche se stesso nel momento in cui cerca di ricordare ciò che è stato, di immaginare ciò che potrà essere. E da questo doppio assedio all’io, del passato come nevrosi che ritorna e del futuro come ansia che incombe, che subentra in maniera perentoria la dimensione drammatica del testo, quando l’io si scopre colpevolmente incapace di trovare un ordine nel mondo e anche in se stesso, ne deriva una caduta nella dimensione nevrotica dell’esistenza, nella vita come malattia e quindi nella ricerca impossibile di una cura, di un rimedio. A tal proposito basti pensare che il titolo del libro cita uno degli atti mancati per eccellenza della teoria freudiana della psicopatologia della vita quotidiana (Sì, ma dei lapsus, quanti lapsus/ per fare una storia?In un’eternità/ avremo tutt’al più formato un’anamnesi/ un vago senso di reminiscenza). Si vedano, inoltre, le tre poesie di Prognostico, con inserti dell’omonimo testo di Ippocrate, in cui il medico greco descrive il metodo di diagnosi delle malattie acute. Non è un caso che, sia nel titolo dell’opera che nel Prognostico, vi sia un rapporto dell’io con il futuro sotto la dimensione della pre-occupazione, nel senso etimologico del termine (I segni ci sono e sono segnali/ senza rimandi o meglio la fonte/ si nasconde fugge sguizza/ tra i denti della diagnosi/ (trovarla l’origine)/ e i suoi margini di errore). Il domani crea ansia, angoscia, la cura sarebbe nel saperlo prevedere, ma questa previsione risulta impossibile, il mondo si dà in maniera imprevedibile in un senso radicale. Perché gli oggetti, e qui la doppia citazione del pittore Malevic è sintomatica, non sono interessanti di per sé, non reggono all’investitura di senso dell’io, si sfaldano e lasciano spazio all’indistinto compatto e minaccioso del colore o, come accade alle particelle subatomiche, che perdono la loro realtà, se mai l’hanno avuta, nel momento in cui entrano in contatto con l’occhio dello scienziato osservatore (Si dica, concludendo, movimento/ per conoscere/ lo sforzo ché quadri/ ché Malevic/ non l’ha mai capito che in fondo/ nel quadro o il quadrato qualcosa/ dovrà pur quadrare: il tempo/l’errore, l’immobilità/ma l’occhio non sbatte a va avanti/ di corsa: e non quadra, oscilla e non quadra/e se quadra è lì, di nuovo, che acceca:// alla sola condizione di/ rallentare a ridosso della meta). Mazziotta mostra – anche attraverso un uso dei versi in cui prevale una dizione franta, compulsiva, sincopata con un continuo slittamento tra significante e significato – lo iato che c’è tra realtà e rappresentazione, l’incapacità di sovrapporre l’ordine geometrico della res cogitans all’informe di quella che una volta fu la res extensa. Ciò accade anche quando l’oggetto dell’esperienza è una intera città, come nel caso delle prose Maturità berlinesi, titolo ironico come fa notare Andrea Inglese nella sua postfazione, ma che mostra, non una distaccata contemplazione da  flâneur che coglie il bello nel dettaglio, ma uno sguardo, a volte furioso a volte sgomento, che accelera l’azione delle forze statiche ed opprimenti o di quelle centrifughe che agiscono nella vita dell’uomo contemporaneo, anche in luoghi che dovrebbero essere costruiti per la felicità: l’utopia urbana che contraddistingue la nostra civiltà che si rovescia, invece, si trasforma in distopia paranoica (La linea si spezza, è naturale si spezzi./ Prendi ad esempio la Karl-Marx-Allee:/ la memoria geometrica, la storia è/ compatta, compatto l’asfalto:/ non ci sono buche né vuoti/ gli edifici non ammettono fughe/ né pause, se pausa è un salto tra tempi/ un ordine ordinario e non volontario). Ecco il paradosso che il libro di Mazziotta mette in evidenza, con ironia e disperazione: se non c’è un’agnizione, un processo salvifico, non c’è nemmeno la possibilità di rifugiarsi nell’indistinto dell’inanimato, perché quel principio di morte, per rifarci ad al di là del principio di piacere, rimane nostro e non può essere scaricato sulle cose perché, nonostante la loro compattezza, una volta entrate in contatto con la malattia-uomo si sfaldano, diventano niente, nulla. E all’io non più lirico, perché non spera più di ricostruire un mondo partendo da sé, tocca addentrarsi, senza compiacimento, nell’indeterminatezza del (ir)reale, con gli strumenti della parola che cercano, approssimandosi in maniera statisticamente sempre più precisa, non di dare forma a ciò che non potrà mai averlo, ma di dire l’informe, il transitorio, l’indeterminato, senza compiacimento, appunto, ma anche senza rassegnazione.

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7 Commenti

  1. Non credo che il postfatore sia al di sopra delle parti, ma in ogni caso auguri Luciano per questo secondo libro bello e importante.

  2. Un libro che ho letto nel tempo e che ho trovato da subito bello e di grande spessore. Del resto questa lettura di Francesco ne sottolinea la profondità. La sua è un’interpretazione sorprendente. Difficile davvero aggiungere altro.

  3. Per qualche motivo mi sono voluta fermare su quel né dire, disdire, né chiedere aiuto.
    Preferisco non avanzare con la nota, almeno per ora, piuttosto recuperare il resto. Perché questi testi, questi frammenti berlinesi sono già tanto, già molto denso. A volte è necessario fermarsi prima delle note a margine, prima della decostruzione. Bravo Luciano, davvero.

  4. Trovo solo ora il tempo per riuscire a scrivere e intervenire.
    Davvero grazie per il post, per la lettura (incredibile e come dice Vincenzo: difficile dire di più, anche per me) e grazie a postfatore/commentatore, recensori, commentatore e commentatrice.

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Renata Morresi scrive poesia e saggistica, e traduce. In poesia ha pubblicato le raccolte Terzo paesaggio (Aragno, 2019), Bagnanti (Perrone 2013), La signora W. (Camera verde 2013), Cuore comune (peQuod 2010); altri testi sono apparsi su antologie e riviste, anche in traduzione inglese, francese e spagnola. Nel 2014 ha vinto il premio Marazza per la prima traduzione italiana di Rachel Blau DuPlessis (Dieci bozze, Vydia 2012) e nel 2015 il premio del Ministero dei Beni Culturali per la traduzione di poeti americani moderni e post-moderni. Cura la collana di poesia “Lacustrine” per Arcipelago Itaca Edizioni. E' ricercatrice di letteratura anglo-americana all'università di Padova.
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