DA “STORIA DEL DILUVIO”

di

Antonio Bux


1.

Che colpa ne ho io se il sonno dei baci è arrivato
prima del parto e mi ha tagliato la testa. È stato
uno specchio a rivelare cigni feriti. La prima sera
invece bare sociali, tutte insinuatesi dopo. Ma io
non ho avuto tempo di crescere funghi. Non ho avuto
modo di sapere la vista se è un bosco o se solo diviene
fango avanzando. Non ho saputo creare dai gatti calmi
il reale desiderio del balzo. Non ho potuto temere l’airone
paterno o la serpe vicina, non ho tradito gli amici zanzare.
Ma il lago interno è mutato lo stesso. E allora è bastato
restare sdraiati cervelli all’aria per sterilizzare ogni
aurora prima del vento. È bastato credere al vulcano
spento o alla cenere impazzita del corpo, che subito
la maggioranza ha eruttato bestemmie. Ed è servito
cadere ogni giorno, è servito succhiare la montagna di Dio
per precipitare sotto, è servito sognare alberi corti, è servito
sapersi bonsai, dio quanto è servito soffrire il verde completo
che ora è sera e nessuno riesce a vederlo, che ora è per sempre
notte sazia di pipistrelli. Ma le stelle lo sanno, sono il citofono
e il cielo il palazzo, dove noi non entriamo. Piuttosto ci stiamo
a zerbino, nell’aria impolverata, piuttosto spariamo ma l’alba ferisce
più forte. È un gioco meschino? Niente come le carte che giriamo
fa la truffa, niente fa l’uomo come una mano al tavolo sparecchiato.

2.

Io non so se l’avorio supererà il bianco clandestino
della mia vita notturna non so se sarà daltonico il vino
o se la fantastica selva fiorirà dappertutto. E tu non sai
chiaramente la lotteria del capitato o del fecondo dove
combacia, se nella steppa del materiale o se nell’imbuto
del giorno. Come non sappiamo il quadro dell’occhio
quanti soli frammenta al minuto, o se diventa tenebra
incinta. Ma io sogno di esser vivo se tu sogni di esser
meno. E se tu sogni di esser meno io vivo del tuo sogno.
Ma se nel sogno io rifiuto il manto caprino, allora un volto
esagonale si dilata. E se non sogno più diamanti è per colpa
del mestiere che frantuma ogni promessa. Se tu non sogni
delle case o se non entri nei fantasmi allora è vano il mio
distacco. E se mia madre è stata un sogno, una cicogna nera
ora vola sul mio braccio e sulla pelle. E se tua madre non è stata
in grado di sognare a cosa serve la preghiera che cosa stringe
nella pietra se non fa male la tua mano. Se la tua mente
non esplode quale miccia si commuove quale fiamma cade
invano ma gentile, quale ragno tappa i buchi quale fonte cede
i segni, quale mare attraversa dentro. Se nella mano si conclude
il sogno di una vita è per forza d’ogni bene è per vincere la fame
di un povero caduto. Ma tu non puoi risolvere i nodi se sei nodo
non puoi la spada se sei scudo, non puoi girare a vuoto il tuo divieto.

3.

Vorrei soffrire se le pene dell’inferno non fossero l’inferno. Eppure
è qui anche non volendo, è stato come il male anche se non svuota
il resto di noi, per sempre vedi come cresce anche sparendo. Rimonta.
E se non vuoi lui ti sceglie, e se ti sceglie tu non vedi. Ecco hai scelto
la calma della morte, una fotografia scattata troppo presto. Ecco lui ha
scelto la balena del trasporto. Lui trasporta te alla deriva. Né prima
ti salverà la saggezza delle tombe. Non ti salverà l’aver trattato alghe
coi pescatori ciechi, non ti salverà dall’ira del diluvio la potente acqua
già bevuta. Sarai mezzo mare, se ti calmi. Saprai più sonni, se ti svegli.
O solo sabbia sotto le bombe, o trota convertita alla sua corrente. Ma
se vivi del nero pretendi troppo, è un colore che sbiadisce alla lontana.
Non seppelisce l’anima, la seppia nascosta. No, non riesce col sale
a sgranare le ferite. O le nostre lacrime piovute dal giorno, al mattino
quando vomitano i santi, le senti anche tu, come puzzano di tempo?
Perché le statue tergiversano nel bianco, e non riducono l’anello
del demonio. Per sempre calcato, vissuto interno ad ogni Carneade
maschera l’uomo, cresce come cimice di speranza. Com’è verde,
com’è fetida di erbe! Lì corrosa dalle voglie, scossa dalle tensioni
la balaustra del Cristo ancora ci costeggia. Livido scalino! La zecca
del martirio ingrossa ogni tempesta. Ma non è boa a indicare
non la linea del confine ciò che segna. Una volta aperto il pozzo
originale, una volta smessa tutta la cambusa, non resta la tua
ciurma a naufragarti. Ciò che salva è la siluetta della barca.

4.

Anche tu senti le pietre soffrire? Anche tu hai visto prima la loro
ombra cadere? Più sotto lo smottamento, quello smacco celeste?
Dove chiosano crude radici, fiorisce un gambo morto di rozzezza.
Questo lo sai, lo hai imparato scavando l’aria, al culmine del vento.
La sai muovere, nel soffio del cervello, quando distrai le altalene più
vispe della mente. Non cigolano mentre muovi le ragazze sul vuoto
piedistallo. Era marzo, ricordi, e avevi freddo. La galera dell’inverno
pioveva soli all’incontrario. Chi era, con te, l’ombra grassa del tuo avo,
il tuo fantasma doppiatore? Non hai mai baciato, non hai mai potuto
toccare il capezzolo dell’albero, la strana linfa dorata sotto la tua
lingua. Eppure odoravi le campane del quartiere, la campagnola
sotto la neve, e accanto la scuola il bivacco allupato della maestra!
Così tante caramelle ingestibili. Che fatica crescere a sale, miseria
inghiottita dagli occhi mentre guardano. Cosa ci ha guidati così
tra una sponda e l’abisso, resistendo a galla? Una pala radioattiva
forse, una diga di tristezza. Ma la purezza cresce sempre lá dove
la cicuta seduce cinghiali. Nel grugnito allora scova il serpente
sarcastico che ora manda sonagli o tramuta in pietra. Quella stessa
cornice dove elfi sottili cesellano l’ombra. Ma nel ricordo di luce
un geco perde la tua coda, vedila come si agita alle nostre vittorie!
Chi ora muove mi domando, chi ha il filo più allungato, chi di quelli
barcolla a marionetta? Chi si crede più artigiano, se col primo rogo
stermina tutta la flotta burattina? Un pinocchio bruciato ci gioca.

5.

Caramente succede che si muore. A volte Tutto è vero. Nulla risorge
se non richiesto. Guarda. Per ruscello si svuota un deserto. Ma vedere
un’allodola crescere negli sguardi amici, non volendo, aumenta
il delirio. Dopo qualche giorno l’allodola sparisce. Chissà dentro quale
tempo è salita a farsi un nido? Forse nel mondo esiste uno sguardo
che non contempla foreste. Forse esiste un corpo che si muove senza
baccano. Che sia un atlante scomparso al suono geografico della
memoria? O solo un pulsante rialzato, più duro a schiacciare?
Potessi sapere come le mosche volano per mantenere nell’aria
invisibile il rientro. Sai, ne ho parlato a lungo, l’altro giorno
calcando il terzo pianeta. Mentre il sole si spostava verso sempre.
Ma come fare a saltare ogni notte, e fingersi torero che si sbraccia
a mani vuote? Come stare senz’anima alla fune? Vedi, le cose cadono
ai piedi se le fermi. Dopo non rimane che la bugia di questa faticosa
empatia. Non rimane che mescere il pane quotidiano con il dente
ferito. Ma quanto strazio. Sopra di me c’è un tizio e non mi lascia
dormire. Mi dice l’altrove è un bel posto, non lo frequentare. Io
non gli credo. Non ho mai creduto alle ombre vicine. Anche se
mentono a fin di luce. Vorrebbero salvarti, condurti al precipizio
del clamore. Ma fai attenzione se si svegliano prima della tua fine.
Fai attenzione se ti chiamano col nome del principio. È l’inizio la sola
cosa che s’ignora. Nel polo della notte accende con ossa di carbone
e domanda in noi, da sempre: Com’è stato puntare tutto su un dolore?

6.

Mare morto di energie mi trascina la tua risacca. Un pendolo di
gioventù bruciante, che si eclissa. Ma se chiudi il frastuono della
vita, cosa strabordi fino al costato altrui? Le mani crollano invisibili
se costeggiano un solo muro. Non amare, questo è saper perdere?
Perché chi ama vive di polvere, ma se non ama è di polvere. E se ama
a metà, si fa polvere mancata. Più spessore. Perché permettere questo?
Un povero dio impolverato ci illumina di fasci. Strana sentenza essere
tutti quella sua luce. Preferiscono il buio i matti. Ciascuno avvolto
da un nero abbandonato. Quelli sì, amano il vero. Anche la congiura.
Come non crederli divini, se sanguinano appena rivolgono lo sguardo
in chi si elimina. Ne incontro molti mentre chiudo a chiave le stanze.
Camminano stretti, come desideri. Non hanno più ombre da sbattere.
Sapessi battezzare il perdono come questi! Finirei davvero nel giusto
manicomio. Con una pezza di solitudine sempre pronta a condividere
l’elemosina del sangue. Ma pregare l’albero finché torni radice vuota
è come credere l’uomo in un verde impraticabile. Chissà allora sia
la melma terrestre il giusto sfogo. Un bersaglio che mi centra se penso
a quanto dista ciascuno dal dirupo. Eppure certi pazzi li vedo ridere
sulla soglia. Come foglie di vento conoscono l’aria a memoria. Pazzi
che conducono la follia del mondo, quante risate se dicessero la verità!
Io la tengo scritta su un fazzoletto di neve, la chiuderò in un cassetto
appena smetto di respirare. Una volta intascato l’uomo, l’esistenza si
svuoterà. Essendo sola, parlerà la distanza. Dove nessuno più ascolta.

7.

L’ho scoperto l’altro giorno. Sono un fiume che piange se stesso.
Ma quando le lacrime finiscono, uno stagno è sempre nell’altro.
Gli dice troppo. Che non si neghi il ritmo a nessuno. Ognuno ha
il suo sangue, da non condividere. Ma la ferita sì, è universale.
Chiedere perdono per la proria ferita, la sola lima. Andare oltre
questo specchio e non vedere niente. Un vuoto che illumina.
Le febbri cresciute poco i volti impazziti per troppe occhiate.
Chiedo scusa ogni volta che scrivo. Saprai salvarmi? Ciascuno
si salva solo. Temere gli occhi, la prima confessione. Negarsi
a parole, negare la parola. La parola negata è la verità del dio.
Ciò che manterrai segreto, è per te stesso. Certi fanno poesia
per non essere poeti. Ma se un poeta è poesia, cos’è che sta
mentendo? La poesia è una scatola di scatole. Il poeta non lo sa
ma le apre. Ad un tratto ci rimane male. La scatola è infinita
perché chiude al volo ogni volta. Allora è rubare uno spiffero
ciò che accumula il silenzio. Certi poeti costruiscono scatole
ma poi le smontano vivendo. Non reggono l’urto di un nuovo
vento. Né l’evento del furto. Perché ognuno è rubando che alimenta
il proprio buco. Che vergogna essere la tomba dei morti! Lapide
rozza non ospitale, lavagna domestica insegnando piattole. Dove
lo sporco non delimita, un pulito troppo opaco l’altare splendido.
Ma chi prega al banchetto dei vivi? Esseri invisibili calpestano, quale
fortuna! Meno male che il destino ci cova. Viva i poeti sconsacrati!

CALORE DIVINO
(Inferno a rendere)

8.

Sto scoprendo il troppo. Qualcuno verrà presto a farmi fuori. Sarà
dietro uno sguardo, un volto più vivo o per colpa di un pompino
gelato. Oppure mi troveranno stecchito, autografato da altro nella
calligrafia dell’aurora. E finirà tutto così, in una pera finta, succhiando
le tenebre. Berrò dal mio calice senza sangue, o disegnerò l’indelebile
oscurando la mela a metà del destino. Ma ora osserva doppiamente
la vita svanendo, e mentre mi continua, fa lo stesso. L’ombra del gufo
gli si nutre di fianco. Eppure è stato, da dentro le acque, un suono
onnivoro la sola stanchezza. Ricordi, un vortice centrale propose
il salto. Ma tu non volevi saltare. L’acqua nutriente ora ti caccia.
Ora lontano, nella gradazione che non corrisponde, la televisione
pare un tonfo freddo, come i piatti scrocchiando le mani e le facce
precipitare nei bicchieri. È solo un rumore spaventoso, la famiglia. Ma
chi sei, a questo tavolo, chi sono loro che ti guardano, sono io già
morto per vederlo? Potranno rispondere sai, siamo stati noi a colpirti
all’entrata. Dovevi saperlo, e restare nel cavo, stretto al margine
dell’inizio. E invece con tutto sei venuto al mondo, per tramandare
l’oltranza. Ma dicono che chi muore se ne va per somigliare. A cosa,
forse solo al pensiero di essere stato, fuori di qui, o soltanto troppo
dentro, qualche ricordo? Somigliare è solamente sapere che qualcuno
da sempre scompone, nell’appartenenza. Così l’origine non ha mai
fine, se ricordata nel dolore. Ma una volta scoperto, il troppo dilata
la conoscenza, restringe la mente in fantasma. O solamente ti sbaglia.

9.

Per questo buio fraintendere della sera hai calmato il mezzogiorno.
Un bolide nel vento, e sei venuto giù in un picchiare di campane.
E non vi è stata coda superstite, nella prominente bocca dell’urlo,
ma intera la cima caduta del sogno, tagliando il petto della strada.
Ora mi guardi con faccia di pietra, io ti somiglio sdraiato sul dosso
e non mi manco, non posso esitare col terriccio non si può più dire
di essere poco aderente ora che il cielo mi osserva diagonale. Ma da
quale ora provengo, se non ricordo il salto definitivo, se è stato il mio
progresso l’aiuto o solo un cincischiare dell’equilibro nel fianco vivo
di un altro me rotto indeciso sull’ombra, o se solo l’ombra staccando
dal collo il suo fiato e smarrendo quel corpo voluto meno, ora grigio
dirimpetto sul vano giaciglio. È perfetto pensare che io sia la scelta
di un cieco vuotare, è così facile sperare l’elemosina dal proprio nulla
mentre si cade con la mano retta, mentre si ride di sé giocando con
nessun nascondino, con nessun amico di sempre. Ma davvero vince
colui rimasto all’ascolto, pur dolente, di chi vive la chiamata sonora.
Solo questo è il motivo, una più chiara distanza che spinge la gravità
dal desiderio nel tatto, con la simbiosi dell’asse terrestre combaciare
quella fine con il mondo, quella morte alla valle distesa del tramonto.
Due soli che si odiano fanno una luce sola. Ma dentro l’anima, chi
accende l’eterna spia, se per una vita interrotta se ne infiamma una
lasciata sporgere alternativa? Lì, nel possibile che si sogna, immerge
l’aria, fa contatto con l’eterno. Il cielo più puro, questo sento nel volo.

10.

Il cranio mi fa male, se vi poso la testa. Per questo
vuoto incendiare, ad ogni morte gira lento un carro
funebre. C’è un nido di sorprese nei volti ammiccando
il morto quando passa, quasi fosse davvero andato a
far festa. Ma in un suono di farfalle si nasconde bene
e vola via col delirio della chiesa in fiamme. È un tripudio
bipolare la piazza gremita di occhi. C’è chi spegne il suo
lume gridando che non vale, che non è così che si tirano
le cuoia in paese, che si muore una sola volta al mese e
nessuno sconto condominiale. Ma a questa botta è saltato
un palazzo intero, col doppio portone, sei famiglie e due
signore, vedove da un pezzo. Fuga di gas i becchini han fatto
un bel prezzo di riguardo. Niente bare di legno, solo avorio
per decessi innaturali. Che fine di lusso, vallo a sapere morirei
anche io per questioni di cherosene. E invece me ne sto solo
col cranio in mano, nella testa, e riposo. C’è chi pensa sia strano
parlare a ritroso e condurre il paesaggio, o salutare un deserto.
In questo caso, è un morto che parla, quarantasette su scala
connazionale del gioco. Ma nessuno muore davvero, nella poesia
mia nessuna cosa succede. Sarebbe bello invece fiorisse una rosa
o qualcosa di simile, una prosa che finisse col morto a sorridere.
E invece sono solo io col mio reso, nel mio vero indeciso, faccio noia
del testo, spargo gioia a pretesto. Sono serio, cerco solo un cimitero.

11.

Hai camminato ora sei stanco di andare senza il tuo branco contro
ogni speranza. Ma l’osso ricresce comunque, è un piatto troppo
caldo messo a gelo dall’esistere. E tu le vedi le tombe galattiche
dei popoli d’Abissinia, le vedi splendere nei vecchi soli quelle polveri
chiodate al marmo della terra santa. E pretendi anche tu d’esser clone
dell’ulivo, figlio di bacca, vorresti così frantumare fra cento legioni
scomparse l’alloro della notte mai vissuta o nel vento regalato la stele
rapita. È l’alieno che ti ha costruito, una baracca di stelle lontano dalla
prima liana, ciò che sapevi afferrare, ciò che vedevi sparire nella carne
col balzo furbo della scimmietta. Hai imparato presto a rubare il felino
così come a sotterrare il manifesto terreno ai tuoi piedi fino a farti
generale gigante. Ma un esercito più grande muove contro il tuo dito.
Non puoi niente se non connetti la mente alla memoria del fondo
spaziale. La chiave bionica, quella gira e non ti apre le porte, solo
annuncia il suo freddo lontano. La tua luce migliore brucia gli ioni
esserino di nomi, pronuncia il tuo silenzio come fosse vittoria! Il
linguaggio di Marte, la fossa lattea scavata, inverte la luna collegando
trasmissioni. Quanta umanità combatte per restituir loro il balsamo
d’oro. Chi siamo lo sai, nel grano il messaggio dissimula la tua mente
contorta quel disegno. Un capostipite nascosto in un cerchio d’uomo
il solo pegno restituito alla promessa glaciale. Ma animali prima di te
han costruito nel globo, e nel centro di esso qualche mostro governa.
I tuoi raggi benefici lì vanno, nel suono emancipato della loro scintilla.

12.

Il vento sta cambiando! Mi remo contro e non riesco più a smettere
nel vedere l’opaco trasformarsi in chimera. Ah che brutta cosa resiste
alla sfera la sensazione del giro! Non è un rompicapo piuttosto un
profondo più vero male alla testa. Ustiona il pensiero la frase corrotta!
Correndo non si sa più che dire, ma per forza di cose sopravvive
la frequenza a noi stessi! Manda e capta segnali, un messaggio prima
ancora di scoprire. E dice che c’era un forte vento attraversando
l’uomo, un cielo scoperto alle falde d’universo. Ma chi vi ha messo
su un tappo? Le cose splendenti han lasciato le stelle, ora riposano
sul guanciale sinistro dell’abisso. Io canticchio dal centro del mondo.
Gli altri a destra, convertiti alla terra. Quante prese di posizioni!
Chi ha comprato costellazioni ora giace sul fondo dell’inferno.
Gabbati perfino dal demonio, poveracci le fruste li domano. Signore
dai troppi anelli non perdona, il fulcro della vita spesa in tramonti.
Preferire una morte da santi è la sfida di chi scalza il millennio. Non
più sovrano a condurre mansioni, non più mero programma celeste.
Solo angeli neri scampando all’infinito. Ma il vento sta cambiando!
Sento che ritornano i leoni. Sarà che il tempo è tutto tondo, scodella
sempre qualcosa di contrario. Potrebbe sparire il Colosseo e stare
Napoleone la sera in televisione. Mia madre lo potrebbe votare! Sì ma
cadrebbe il governo? La moneta dei popoli andrebbe in rialzo? Fottuto
Occidente non cambi sistema! Ah ah ah, sei simpatico soggettone. Ora
che il fuoco comanda, nel cerchio d’oro l’illusione conficca noi tutti.

_____________________________________

N. d. A.

Queste poesie (23+1) intitolate “Storie dal diluvio” (titolo cambiato in corso d’opera) formano una delle 6 sezioni che compongono il mio ultimo inedito, intitolato “Naturario”. Questa sezione ospita queste poesie monolitiche composte da 23 versi l’una (tranne l’ultima che ne comprende 24) e si divide, a sua volta, in tre sottosezioni (“Cielo ipotetico/Preparadiso”, “Calore Divino/Inferno a rendere” e “Postumania/Finto Purgatorio”).

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9 Commenti

  1. Grazie a Daniele Ventre per l’ospitalità e l’ascolto, e grazie agli eventuali lettori per il passaggio oculare o per la possibile testimonianza :-)

    Antonio Bux

  2. E’ una partita giocata in primo luogo con il linguaggio e poi con se stessi nel linguaggio , e poi con gli altri che attraverso quel linguaggio parlano e si confrontano . Vi si muove la problematicità di un mondo disgregato , di cui galleggiano frammenti di umanità ( e di linguaggi ) che restituiscono tutti gli umori e le disillusioni del quotidiano . I tanti punti di domanda sottolineano la ricerca di una possibile “verità” capace – per tutti – di esistere e durare ben al di là di un intento fideistico e delle sue suggestioni . Un’operazione – credo – meritoria .
    grazie
    leopoldo attolico –

    • Grazie Leopoldo, per il tuo passaggio, sempre gradita la tua lettura, come sai, e molto contento per quello che dici, dato che questi testi sono un po’ diversi da quello che hai avuto modo di leggere in precedenza di me. Un abbraccio, a presto!

      Antonio

  3. Intenso e ambizioso questo monologo poematico di Antonio Bux.
    Il poeta affastella domande e risposte, propone improvvisi capovolgimenti di senso e di sguardo. Molteplici le ragioni che sembrano fondare il suo canto antilirico (‘Ma tu non puoi risolvere i nodi se sei nodo’, ‘…la ferità sì, è universale’, ‘come stare senz’anima alla luce?).Ed ecco allora che il poeta attinge alla memoria e alla storia, in apparenza alla rinfusa, senza filtro:fa riemergere spezzoni di immagini e discorsi, che si raggrumano però spesso in sicure afferzioni (‘Certi poeti costruiscono scatole /ma poi le smontano vivendo. Non reggono l’urto di un /nuovo vento’ , ‘… animali prima di te han costruito nel globo, e nel centro di esso qualche mostro governa’). Alla fine, l’annuncio: ‘Il vento sta cambiando!’ – forse una provocazione, ma questa evocazione dylaniana accende una speranza: The times are changin’, un grido che vuol farsi corale, che convoca il lettore… ma continua a interrogare, così com’è il compito della poesia

  4. Bux è ormai un autore molto solido di larghe fonti, altrettanto larghe attestazioni e sicura resa. In genere, a questo livello si comincia a chiedere cosa vuole farci, di tale scrittura, e come vuole usarla o essere usata nella vita vera. In bocca al lupo.

  5. Grazie a tutti per il passaggio e il segno di stima. Grazie a Il fu GiusCo, Antonio, Leopoldo, e Diamonds.

    Il testo è sempre una provocazione. Se qualcuno qui, come voi, è entrato a testimoniare, allora qualcosa, anche fosse metà rigo, una solitudine condivisa è stata fatta e ci compie.

    Nella sua inutilità presunta, la poesia serve a unire solitudini.

    A presto e un caro saluto a tutti

    Bux

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Daniele Ventre (Napoli, 19 maggio 1974) insegna lingue classiche nei licei ed è autore di una traduzione isometra dell'Iliade, pubblicata nel 2010 per i tipi della casa editrice Mesogea (Messina).
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