Esperimento di fuoriuscita

Giulio Paolini, Apollo e Dafne, 1978
Giulio Paolini, Apollo e Dafne, 1978

di: Alessandra Sarchi

Una mano mi ha aperto la testa. Ero appoggiata con l’orecchio sinistro sul piano di acciaio del tavolo e la mano ha sezionato il mio cranio in due calotte. Rumori viscidi di materiali organici molli, uva matura schiacciata tra i polpastrelli, ma non cola sangue. I capelli si dividono in due parti e cadono sul metallo, come parrucca. I rumori sono cinematografici, scollati da quel che sento, come nella scena dell’incidente stradale di Cuore selvaggio, il rumore arriva prima, poi, vedo, telecamera di una me stessa anestetizzata. Le dita frugano dentro il cervello aprendone gli alveoli che si colorano di rosso, nella profondità, nel nascosto, per quanto la mano spinga e sollevi masserelle di materia grigia e vasi irrorati, si sottrae la sostanza. Anche il dolore tace. Piuttosto incalza il cinema delle occasioni perdute, delle istantanee che si confondono e sovrappongono, e non è detto che sia proprio io, anche se riconosco tante cose amate e altrettante odiate, ma la lingua è inceppata, sciama un oscuro dialetto che non si traduce se non in lampi vocalici e consonantici senza sequenza. Di quale colpa mi si accusa? La mano attraversa una colluvie di me stessa remota e presente, non c’è riparazione possibile se a tal fine si era mossa con tanta chirurgica perfezione. Soppesa grammi di cellule neuronali aggregate in gelatina ed è come se centrifugasse la vita che ho vissuto, e per la quale – è evidente – non c’è continuazione. Rimarrò così, il capo aperto su un tavolo, seduta su una sedia dura, finché ne avrò percezione. Poi sarà poltiglia, liquidi che fuoriescono, evaporano, si seccano, nei decenni, la polvere. La causa potrebbe essere qui, ma come esserne certi? Chi mi assicura che il danno non sia venuto dall’esterno e non da questa mia testa ormai aperta, sezionata e scavata, non più ricomponibile? Eppure tutti sempre a dire: conosci te stesso, guarda dentro di te, sei tu che plasmi la tua vita, e porti in te il tuo male, il tuo bene, e io a crederci così tanto da volere vedere fino in fondo cosa ci fosse, da dove venisse quel senso di uggia, ma anche quel dolore e la noia e l’impossibilità nel volermi adattare al mondo. L’ho voluto così tanto, il mondo la conoscenza, che quando la mano si è avvicinata, brandendo una lama lucente, non ho detto: vattene e lasciami in pace, ma: aprimi e liberami. Senza contare poi che la mano – non stupitevi – era la mia.

Ma cosa credevi di trovare, davvero te stessa? Più di tutto, trovare Dio nella materia. Negli smerigli del midollo che sembra cenere mescolata ad acqua a vederlo, nelle lamelle ossee, nel liquido ematico. Prima, molto prima quando non erano né uomini, né animali, né piante, ma solo materia, allora Dio dov’era, come parlava, come gioiva dell’essere, come saltellava lo Spirito nelle 118 caselle della tavola periodica? Cosa si dicevano fra di loro i metalli, i non metalli gli attinoidi e gli alogeni? Forse era tutta un’unità, una beatitudine fusa, atomi che non sapevano di essere atomi. Pietra, granito, quarzo, uranio, ferro, oro, e gas, luce e buio, freddo e rovente, umido e secco che non sapevano di esserlo, ma erano. Ecco, anch’io volevo non sapere. Essere e basta, ma ancora in vita. Sottrarmi a quest’esilio dell’io per tornare a essere materia, neutra, entropica, originaria. Ma non c’è ritorno senza fine, e dalla fine questa è l’unica voce possibile, lo scoperchiamento quotidiano, l’offesa di chi è rimasto senza Dio. Un altare d’acciaio, un coltello, un sacrificio inutile. Non te l’aveva chiesto nessuno.

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4 Commenti

    • Davvero, Giovanni.
      Bravissima Alessandra, e grazie Francesca di averla postata.
      Leggere è stato come provare la sensazione di entrare nel corpo di quella mano, di quei grammi di cellule.

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