La carta da parati

di Giuseppe Zucco

fagiano carta da parati

Non è cosa da poco possedere un fagiano,
o anche solo riceverne la visita.
Sylvia Plath

Alle prime luci dell’alba, il bambino si svegliò. Aprì gli occhi. Li chiuse, li riaprì. Strofinò le palpebre con i pugni, si abituò alla luce.
Come piccole dita, la luce sbucava dalle feritoie della serranda di alluminio anodizzato e illuminava la carta da parati proprio sopra il letto. Il bambino tirò di lato lo strato del piumone, poi quello delle lenzuola. Si grattò la testa. Si alzò.
Solo con il pigiama addosso, sentì freddo, il freddo alla pancia, per non dire alle mani o ai piedi nudi sulle mattonelle, non per questo si lamentò o rinunciò al suo proposito. Il bambino si inginocchiò davanti al letto, giunse le mani.
Il bambino guardò la carta da parati e vide che il motivo ricorrente degli animali su un fondo verde che ricopriva le pareti della stanza, in particolare quella illuminata, suddivisa nei due rettangoli neri della finestra, aveva un altro effetto sotto quella luce. Le figurine stilizzate e ugualmente realistiche della lucertola, della volpe, del levriero, del fagiano, del cavallo, della tortora, sbiancate dalla luce, quasi pulsanti e aureolate di luce, una luce oscillante tra l’oro e il rosa, sembravano sorreggersi sulle loro zampe per la prima volta, come se si fossero appena staccate dalle mani del proprio creatore, scrollandosi di dosso gli ultimi residui di creta con cui erano state modellate.
Le maniche del pigiama scivolarono al gomito – e il bambino le rimboccò, ricongiunse le mani, le maniche tornarono al punto di partenza.
Tra quegli animali, forse il fagiano era stata la creatura più difficile da modellare nella creta. Già subito dopo la creazione doveva risultare insieme goffa, elegante, nervosa e gracile nelle piume e le zampette – e il bambino immaginò Un’Entità Molto Buona Potente Antica, più antica della casa dove abitava e delle chiavi arrugginite della cantina, modellare nei giorni della creazione del mondo la creta in una lunga coda e rendere così liscia la piccola testa da farla apparire nuda e poi infondergli la vita soffiando l’aria dentro il becco.
L’ombra del bambino si allungò sul letto e annerì la carta da parati. Il bambino con le mani giunte ricordò che un pomeriggio, lui e suo padre, infilando in velocità una strada di campagna, abbagliati da quella luce e senza vederlo, presero un fagiano sotto la macchina. Il fagiano s’incastrò nella griglia del radiatore. Il padre, sebbene il bambino lo scongiurasse di non farlo, dovette finire l’animale e sezionarlo in parti di piccola e media taglia perché venisse via da lì. Il padre aveva sempre un coltello con sé – il bambino implorò e scongiurò e si girò dall’altra parte.
La coppia dei talloni del bambino svettavano rossi nell’aria fredda. Il bambino si risistemò sulle ginocchia. La lucertola, la volpe, il levriero, il fagiano, il cavallo, la tortora lo seguirono con lo sguardo.
Il bambino disgiunse le mani, aprì le braccia, impartì alle mani e alle braccia la forma della supplica e guardando la luce sulla carta da parati e rivolgendosi direttamente All’Entità Molto Buona Potente Antica, entità creatrice del mondo e degli animali, con tutta la devozione e la sottomissione possibile, disse che lui, Simone, crescendo, non voleva per nulla somigliare a suo padre.
Disse che non voleva le sue dita tozze. Disse che non voleva quella ragnatela di peli sul petto. Disse che faceva a meno della barba con cui graffiava le guance. Disse che non avrebbe mai sopportato di condividere con suo padre l’abitudine di alzarsi da tavola senza sparecchiare. Disse chiaramente che non voleva essere intelligente. Disse che non voleva leggere libri difficili, ma in generale libri. Disse che le divisioni a mente non erano per lui. Disse che non voleva rimanere muto o parzialmente muto o muto a seconda dei giorni e poi recuperare in un pomeriggio tutte le parole. Disse che non voleva tutti i suoi capelli. Disse che non voleva la tosse, quel modo di schiarirsi la gola prima di rispondere al telefono. Disse che non voleva andare in bagno lasciando la porta del bagno aperta. Disse che non ne voleva sapere di guidare. Disse che non voleva sapere la strada più corta per arrivare al lungomare. Disse che non voleva stringere la mano a nessuno e trasmettere quella specie di sicurezza alla persona a cui stringeva la mano mentre guardava dalla spiaggia le onde sciogliersi le une sull’altre. Disse che non voleva né cercava quella sicurezza. Disse che gli tenesse lontano la sua paura del buio e dei ragni. Disse che non desiderava su di sé e sulle sue mani la superiorità che permetteva a suo padre di sezionare un fagiano o passare il veleno su una fila di formiche in spedizione lungo le mattonelle. Disse che non la voleva. Disse se poteva fare qualcosa. Per favore.
Il padre, nel silenzio del mattino – silenzio distribuito con cura in ogni stanza e sulla strada intorno alla casa – si svegliò. Sentì quelle voci. Si alzò. Corse alla stanza di Simone. Aprì la porta.
Nella stanza di Simone c’erano il letto, le lenzuola e il piumone tirati di lato, i due pezzi del pigiama del bambino afflosciati uno sull’altro sulle mattonelle, un coleottero piccolo e nero che sbatteva le antenne sulla carta da parati proprio accanto alla lucertola, la volpe, il levriero, il fagiano, il cavallo, la tortora, tutti gli animali appena creati e illuminati.
Il padre spiaccicò con una mano il coleottero sulla carta da parati, e poi andò alla ricerca del bambino nelle altre stanze della casa.

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5 Commenti

  1. Giuseppe, la tua scrittura nasconde sempre meraviglie.
    Questo passo è bellissimo. : Disse che non voleva le sue dita tozze. Disse che non voleva quella ragnatela di peli sul petto. […] Disse che non desiderava su di sé e sulle sue mani la superiorità che permetteva a suo padre di sezionare un fagiano o passare il veleno su una fila di formiche in spedi-zione lungo le mattonelle. Disse che non la voleva. Disse se poteva fare qualcosa. Per favore

  2. bravissimo Giuseppe. Questa è una piccola fiaba sull’uguaglianza radicale, su come la si possa davvero immaginare, riuscendo a cogliere le vite nei dettagli – la carta da parati dove gli animali non sono meno veri del fagiano morto, sono solo fissi: danno più tempo perché si possa ricordare e quindi sognare, ma anche ritrarsi con forza da ciò che non si vuole essere. Ecco cosa fa il fantastico, ti dice che le cose sono sempre in un altro modo. Non puoi cercare tuo figlio nei vestiti che gli hai cucito addosso. Perché forse, nella sua ingenuità, follia, pena; nella sua vita che è sua soltanto, si è già trasformato in altro. (Ci libereremo mai dai padri e dalle madri verso le sorelle e i fratelli, umani e non umani?)

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Helena Janeczek è nata na Monaco di Baviera in una famiglia ebreo-polacca, vive in Italia da trentacinque anni. Dopo aver esordito con un libro di poesie edito da Suhrkamp, ha scelto l’italiano come lingua letteraria per opere di narrativa che spesso indagano il rapporto con la memoria storica del secolo passato. È autrice di Lezioni di tenebra (Mondadori, 1997, Guanda, 2011), Cibo (Mondadori, 2002), Le rondini di Montecassino (Guanda, 2010), che hanno vinto numerosi premi come il Premio Bagutta Opera Prima e il Premio Napoli. Co-organizza il festival letterario “SI-Scrittrici Insieme” a Somma Lombardo (VA). Il suo ultimo romanzo, La ragazza con la Leica (2017, Guanda) è stato finalista al Premio Campiello e ha vinto il Premio Bagutta e il Premio Strega 2018. Sin dalla nascita del blog, fa parte di Nazione Indiana.
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