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Perchè nessuno stronca i libri brutti?

di Giovanni Turi

Negli ultimi tre mesi, ogni volta che ho letto una recensione letteraria online o sulla stampa mi sono appuntato se il giudizio espresso fosse positivo, negativo o neutrale; questi gli esiti: 64 pollice recto, 11 pollice verso, 39 non classificabili. Eppure, considerando i libri che leggiamo, le proporzioni sarebbero a dir poco invertite, o sbaglio? Insomma, senza farla lunga, le recensioni sono sempre o fin troppo generose o piuttosto vaghe. Perché?

Certo c’è la tendenza a ritenere, sulla scorta delle classifiche di vendita, che i lettori non sappiano comunque distinguere le pietre preziose dalla paccottiglia e dunque non ci si sforza più di tanto di entrare nel merito dei testi, ma è solo uno dei tanti problemi.

Com’è noto, per quanto riguarda la carta stampata, coloro che dovrebbero essere i critici autorevoli quasi sempre collaborano con qualche editore: se si esprimono favorevolmente su un testo la cortesia gli verrà restituita (con un bel pezzo su un’opera che hanno scritto o curato o che comunque afferisce alla loro stessa scuderia), se lo sminuiscono dovranno aspettarsi un colpo basso; oltretutto devono dar conto di quel che scrivono alla testata su cui lo fanno – e i giornali appartengono quasi tutti in maniera più o meno diretta ai grandi gruppi editoriali. Altro discorso andrebbe fatto per coloro che vengono reclutati dai quotidiani magari perché autori di successo, condizione che non implica avere le necessarie competenze per giudicare opere altrui e dunque si limitano a esporne la trama, corredandola con due o tre considerazioni aperte a ogni interpretazione.

Insomma, sulla presunta critica ufficiale non si può fare affidamento e sui blogger, allora? Ancor meno. Tralasciamo coloro i cui “articoli” sarebbero imbarazzanti anche su un giornalino scolastico e concentriamoci sui recensori più o meno in grado di stabilire il valore di un’opera (al di là di quelli che possono essere i propri gusti) e di argomentare a riguardo con proposizioni di senso compiuto. Ebbene, anche costoro difficilmente stroncano un libro pur se pessimo o mediocre, tendono ad accentuarne gli aspetti originali e interessanti piuttosto che le debolezze, al massimo si astengono dallo scriverne. Tutto ciò per diverse ragioni:

  1. In molti casi, anche loro hanno un qualche rapporto con un editore (o ambiscono ad averlo).
  2. Se hanno richiesto alla casa editrice un’opera (o meglio ancora gli è stata spedita per iniziativa dell’ufficio stampa) e poi la denigrano, quando lo stesso marchio pubblicherà un volume di loro interesse gli toccherà comprarlo e, si sa, in tempo di crisi…
  3. Qualsiasi blogger ha tra i suoi obbiettivi primari quello di raggiungere un numero di lettori sempre più ampio e la maggior parte delle visite ai siti internet arriva tramite i social network: a condividere una stroncatura sarà presumibilmente soltanto lui (anche i sodali e coloro che ne apprezzano il giudizio al più si limiteranno a un like); una recensione positiva verrà invece per lo meno linkata anche sui profili social della casa editrice, che contano migliaia di followers, e – se in vita e al passo coi tempi – anche dall’autore del volume in oggetto e di conseguenza dai suoi fans.
  4. Tutti gli scrittori hanno le proprie conventicole, pronte a screditare-bannare-spammare chiunque osi mettere in discussione il valore assoluto della produzione del loro protetto e la realtà virtuale permette tempi e modi di reazione punitivi e immediati.

Detto questo, (a) sono condizionamenti che ovviamente subisco anch’io; (b) non voglio suggerire che sia inutile consultare le recensioni, occorre però farlo in maniera accorta e leggendo anche tra le righe; (c) il rinnovamento della vita culturale può venire solo da lettori sempre più curiosi ed esigenti (ai docenti appassionati, precari o meno, il compito di formarli).

 

(questo pezzo è stato postato da Turi sul suo blog “Vita da editor”, e con il suo consenso lo riprendiamo; certo di queste cose, e di tanti altri aspetti affini/correlati, se ne è parlato molto su NI, ma mi sembra pur sempre una sintesi lucida, equilibrata, onesta, e anche “scientifica”, della fisiologia della “critica” giornalistica e on line; GS)

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45 Commenti

  1. la mia risposta, forse banale, fa molta meno dietrologia. fatta la tara al familismo/complottismo/leccapiedismo di cui (velatamente? eheh) si accusano i critici, oggi, semplicemente penso che dei libri brutti non valga proprio la pena di parlare.
    sempre a mio modesto parere, e non vuol essere una legge, in alcun modo, ma: non c’è miglior stroncatura che il silenzio, l’indifferenza, la totale non considerazione.
    diverso è il caso in cui, chessò, un libro davvero orrendo, impubblicabile quasi, di un autore che non avrebbe nemmeno “il diritto” di definirsi tale (chi mette a statuto il diritto di chiamarsi autore e di chiamarsi critico? anche su questo si è molto parlato, fin troppo, senza ugualmente venirne a capo) – insomma, dicevo: diverso il caso in cui un libro assurdo vinca, ad esempio, il Nobel, o un riconoscimento letterario molto importante. Allora sì, in quel caso, varrebbe la pena di applicare un discorso critico a quei testi che, a parere di chi scrive, immeritatamente, correrebbero il rischio di entrare nel “canone” culturale contemporaneo (anche sul senso del canone, il discorso è tutto in fieri, tutto da approfondire, e non è nemmeno detto che i libri brutti non possano fare canone per difetto, com’è accaduto anche nei secoli passati).
    il punto è, secondo me, che bisogna distinguere fra libri davvero brutti e libri sostanzialmente inutili.
    perché i libri, per essere davvero brutti, devono comunque avere una loro dignità letteraria, di qualunque tipo.
    oggi invece, la maggior parte dei libri che si vedono pubblicati, e – mi pare – quelli su cui si focalizza questo pezzo di Giovanni Turi, sono libri inutili. privi della benché minima qualità letteraria. privi di interesse, sciatti, scialbi, senza senso.
    Allora mi domando: a che scopo criticare, stroncare, conferirgli quell’altezza e quella dignità che altrimenti, per il loro semplice valore letterale e letterario mai e poi mai avrebbero?
    Qui non c’entra l’amichetto editore o il cuginetto blogger. è tutto un po’ troppo semplicistico, messa così, no?
    Siamo costantemente intasati e bombardati da informazione libresca di vario tipo, ogni singolo giorno, ogni quarto d’ora nella mia mailing list spunta una notifica su qualche XY che ha pubblicato un ABC. Scremare, si dovrebbe. E non puntare il dito, alzando i toni, occupando ancora di più lo spazio deputato alle lettere (che, checché se ne dica, è davvero monumentale, almeno in rete) con libri di cui si può e si deve tranquillamente fare a meno.
    Così, questo penso, in soldoni, ecco.
    Dei libri brutti non si parla? Amen, almeno un po’ di silenzio su qualcosa. (di utile)

  2. Francesca, il problema è che testi mediocri/inutili vengono recensiti come se fossero discreti e che i lettori comuni tendono a considerare sempre più le classifiche di vendita come strumenti per definire canoni letterari.
    Al di là del tono un po’ provocatorio del post, non vuole essere un invito ad alzare i toni, ma semplicemente a provare a ridare dignità e pienezza a un discorso critico troppo spesso omertoso e interessato.
    Tutto qui.

  3. Allora, Giovanni, la domanda sarebbe: perché si parla di libri brutti, e non perché non se parla :)
    Sono due cose molto diverse.
    Comunque, io continuo ad aver fiducia nello spirito critico dei singoli lettori.
    (del resto, visto che parli di classifiche di vendita, credo che gli introiti mi diano abbastanza ragione: recensioni o meno, quanti autori mediocri si arricchiscono? esclusi i personaggi tv o che raccolgono altrove il loro bacino d’utenza, è chiaro.)
    Quanto alla critica, sappiamo tutto, sono solo in disaccordo sulla stroncatura come mezzo utile per ridare dignità al discorso letterario. Per me, sic stantibus rebus, si alimenterebbero solo le polemichette inter nos, i posizionamenti. Quanto di peggio. E al lettore, alla fine, se è al lettore x che rivolgiamo la nostra attenzione, non gliene importa proprio nulla, credimi.

    • Dubito anch’io dell’efficacia della stroncatura quanto a riconquista della dignità letteraria. Acclarato che le recensioni rientrano in genere nel do ut des degli addetti ai lavori, il lettore fornito di spirito critico ne trae la logica conseguenza che sia inutile leggerle; da cui l’inutilità di chi le scrive. Però continuano a essere pubblicate. Per testimoniare dell’esistenza in vita dei media con pretese culturali, immagino.

  4. Tutto questo fa coppia con la scomparsa di libri dal valore a dire poco eccezionale…che non vengono più ristampati. Ma alla ipocrisia della industria culturale progressista, sempre molto più attenta agli aspetti economici, che a quelli culturali, non interessa il valore vero di un libro, né la salute del lettore. L’essenziale in ogni campo, è vendere, merce scaduta, ma buona per seguitare a vendere. E’ il trionfo delle opinioni, del “secondo me” dietro la quale fanno capolino le sagome sulfuree di chi preferisce libri idioti, inutili, più spesso dannosi, a libri intelligenti, che possano risvegliare e far crescere la conoscenza vera e non le opinioni. Entrare in una libreria oggi, produce la stessa nausea della volgare abbondanza di un supermercato, con prodotti di dubbia origine, di pessima qualità, di sicuro danno.

  5. Francesca, non credo che si possa parlare di dietrologia a proposito delle idee di Turi: chiunque faccia critica a livello professionale o aspiri a farla deve tenere in considerazione le politiche editoriali, altrimenti non lavora. Tutt’al più, ti dirà che in questo modo può talvolta parlare di un libro che gli sta a cuore veramente. Inoltre non ci sono libri veramente brutti ( o perlomeno sono piuttosto rari, di solito sono frutto di scrittori costretti alla sovrapproduzione e troppo importanti per poter essere cassati dagli editor o da persone famose in altri campi, che hanno voluto cimentarsi nella narrativa o nella poesia o nella saggistica). La gran parte dei libri è una produzione media, seriale, ed è sbagliato affermare che siano brutti, così come è difficile dire che i formaggi industriali siano cattivi: semplicemente hanno un sapore tenue che deve andare bene a tutti ( e apprezzare un formaggio artigianale è più facile che apprezzare un libro artigianale). Sono invece d’accordo con te, quando implicitamente affermi che la qualità di un critico si vede dalle sue predilezioni e non dalle stroncature. Rispetto a Turi vorrei dire che uno dei motivi della situazione attuale della critica, che poi coincide con la sparizione della vecchia società letteraria,non risiede nei vari conflitti d’interesse, che magari in misura meno sistematica ci sono sempre stati, ma nella sparizione di un dibattito culturale, che ancora negli anni ottanta era ancora vivo. Questo fungeva per così dire da moralizzatore, ma soprattutto dava un indirizzo di senso al lettore e al recensore

  6. Giorgio, non era una “stroncatura” al pezzo di Turi, la mia, eh. :)
    E sono perfettamente a conoscenza delle dinamiche editoriali, stando in quest’ambiente da dieci anni. A maggior ragione, gridare al re nudo oggi, mi sembra assai semplicistico. Siamo perfettamente in accordo anche sulla distinzione brutti/mediocri, come vedi.
    Quanto al dibattito culturale, credo che tutti stiamo cercando delle modalità per ridarvi linfa. Anche su questo sono, tutto sommato, ottimista. O forse che cambiano i tempi, e che quello che poteva funzionare da propulsore 20, 30 anni fa, oggi funge per paradosso quasi da deterrente., e bisogna puntare e vagliare proprio nuove strade.

  7. Buongiorno.
    Vorrei aggiungere che.
    Il nodo è davvero spinoso anche a livello personale: incensare un libro “brutto o inutile” e stroncarne uno “bello e utile” (riutilizzando le categorie da voi proposte) espone al rischio di severa critica anche lo scrittore, l’appassionato, il critico non interessato, almeno direttamente, alle logiche editoriali, commerciali, ecc. Accade dunque che l’omertà o l’ipocrisia o il semplice silenzio abbiano la meglio.
    Condivido in pieno i vostri punti di vista, attenzione a valutare le recensioni, rinnovamento della livello culturale dei lettori, scremare e ignorare, come propone Francesca.
    Il problema che però io vedo concerne una sfera più ampia, sistemica direi. Il mondo editoriali ormai è affidato quasi totalmente ai pruriti del mercato, il nome dell’autore vende di più della qualità impressa nelle pagine. E va altresì rilevato che il nostro, quello italiano, è un mercato piccolo dove le dinamiche di affiliazione, provinciali e familistiche riescono a farla da padrone.
    Da par mio, credo che sia auspicabile un rinnovamento non tanto della maniera di far recensioni o “della” Critica in quanto tale, ma del pensiero critico come metro di giudizio che sappia opporsi al mercato e quindi orientare le letture degli appassionati. Bisogna sviluppare il pensiero critico del lettore, dunque fornirgli gli strumenti analitici, e (ri)fondare delle correnti Critiche, dunque garantire trasparenza nel giudizio e canonizzare le caratteristiche del “bello e utile”.
    Spero di essermi spiegato. Ci vuole onestà e coraggio, insomma.

  8. (premessa : avevo scritto un commento lunghissimo e poi d’improvviso mi si è chiuso il browser, quindi ora, con la rabbia della scomparsa, cercherò di stare nella brevità).
    Ora, io sarei in generale accordo Francesca : meglio che resti spazio ai libri “belli”, lasciando a silenzio quelli “brutti”. Ci sono però alcuni punti delicati. Il primo è : cosa intendiamo per libro brutto? Perché se ci riferiamo a certe brutture da scaffale di supermercato – allora vada per il silenzio. Se però ci riferiamo a testi che più che brutti sono criticabili, seriamente criticabili, allora faccio un passo indietro e dico che recensioni che stroncano un testo possono essere importanti. Anche – e forse ancor più – per l’autore stesso. Ci sono sempre state, e dovrebbero continuare ad esserci. Il secondo punto, però, è che credo che più che il problema dei libri brutti, il problema stia nei libri “ni”. Quelli di cui, al contrario, si parla molto, spesso troppo, e che entrano perfettamente nella logica di certe dinamiche editoriali. E’ molto semplice recensire un libro “ni” : basta omettere, togliere le parti nere e lasciare solo quelle buone. Questo purtroppo accade, e accade spesso.
    Eppure, in disaccordo con il punto 3. di Turi, posso dire che proprio da poco mi è capitato fare esperienza dell’opposto : ho letto alcuni passi di un autore e, incuriosita, l’ho cercato in rete. Sono finita nel blog gestito da Stefano Guglielmin, blanc de ta nuque che negli anni ha recensito molti libri di poesia, anche di molti poeti che in generale consideriamo tra i più importanti (di oggi). Ebbene, ci ho trovato una recensione tutt’altro che positiva. Stefano mette in luce i punti deboli del testo, ma lo fa né col piglio dell’accademico stroncante che stronca per demolire, né con la frustrazione di chi ha ricevuto un libro, è pagato per recensirlo, e in qualche modo deve “pur farlo”. Ecco, io credo si debba puntare su questo tipo di operazione e cominciare a cercare, anche in rete, con uno sguardo più attento, cose che purtroppo in questo eccesso ci sfuggono. Esistono questi spazi. Il problema, forse, è che sono poco visibili, e restano poco visibili proprio perché non si piegano a certe logiche, perché sono ai margini, o forse completamente fuori dal cerchio.

  9. esattamente, come detto sopra, i libri “brutti” per dignità ontologica letteraria sono pochi, come i libri belli, forse meno, perché capita anche che ci voglia forse più “talento” nella non piacevolezza che nella piacevolezza, in sé.
    dunque: parlarne va benissimo, ma se e quando ha davvero un senso.
    sono molto contenta dell’esempio che ha portato Mariasole, perché anch’io seguo Blanc de ta nuque, e penso che Guglielmin porti avanti il suo lavoro in modo serio. E non è certo l’unico!
    Sparare sul mucchio, così, tanto per denunciare un problema che è tale dalla notte dei tempi, per me, può rischiare di essere più controproducente che altro; focalizzarsi sui presunti critici marchettari – ma va? – può tutt’al più contribuire a disamorare e a disamorarci della letteratura e del pensiero “bello” (visto che stiamo giocando con le antitesi).
    e questo è un rischio, secondo me. non è omertà, è proprio un’ulteriore perdita di tempo. come spendere 30 righe su libri di scarsissimo o di nessun valore.

  10. Francesca, però il fatto che il lavoro di chi come Gugliemli resti ignoto a molti non mi sembra trascurabile.
    L’intento non era comunque quello di sparare nel mucchio con argomentazioni logore, ma di riflettere su come certe logiche dominanti nell’ambito della carta stampata anziché essere rotte dal web vengano semplicemente replicate in forma in parte diversa.

  11. Ma che te frigni, leggi blog migliori e le stroncature quanno ce vojono le trovi.
    Se poi stai a leggere quelli degli inserti culturali, caro mio, come andare in chiesa e lamentarsi che nessuno dice male del Papa.
    Buon natale
    CN

  12. Io sono una di quelle che ero per la stroncatura del libro. Ma ho dovuto ricredermi. Il giudizio soggettivo non può confondersi con un giudizio oggettivo. Possono esserci chiavi di lettura che individualmente possono piacere o non piacere ma non è detto che fa di quel libro un’opera pessima. Vi sono tanti casi editoriali che dimostrano ampiamente questa tesi anche tra gli scrittori del primo 900. Di fronte a una stroncatura preferisco tacere. Credo che si stia facendo un pò di confusione tra il compiacere qualcuno, quindi compiendo un falso ideologico, dal recensire in maniera critica e costruttiva evitando stroncature che possono ritenersi interpretazioni personali ma che di fatto rischiano di influenzare una platea di lettori.

  13. Rosaria, è chiaro che si tratta di giudizi non oggettivi, ma non lo sono né quelli positivi né quelli negativi: significa che bisogna rinunciare a esprimere il proprio parere sui libri? I critici dovrebbero aver maturato (attraverso percorsi accademici, professionali, ecc.) degli strumenti che gli consentono di fruire del testo sotto diversi aspetti e di presentarli poi al lettore comune: questo non significa che un’opera sminuita dalla critica non debba piacere a quest’ultimo.

  14. C’è da dire che le stroncature latitano anche su Nazione Indiana.
    Ad ogni modo, non penso che ci sia da discutere sul fatto che i libri commerciali sia meglio relegarli all’oblìo, anche perché di pubblicità ne hanno pure troppa. Baricco, De Carlo, Giordano ed “altri scrittori alla moda” per citare Ferroni, di stroncature non ne hanno bisogno. Chi legge questi libri, peraltro, dalla loro stroncatura riceverebbe soltanto un ulteriore incentivo a frequentarli.
    Il punto è che non si può sperare fideisticamente che “il rinnovamento della vita culturale può venire solo da lettori sempre più curiosi ed esigenti”. La critica DEVE avere un proprio ruolo! Dato un lettore un po’ più schizzinoso che si rifiuti di leggere l’ultimo rigurgito dell’industria editoriale non lo si può abbandonare ad imparare da sè ciò che vale e ciò che non vale.
    Occorre un dibattito, occorre una critica che abbia qualcosa da dire. Solo per fare un esempio, su Nazione Indiana vengono recensiti libri di poesia che hanno poetiche completamente opposte e contraddittorie. Come si può incensarli tutti? Nazione Indiana per prima non ha una linea editoriale!
    La stroncatura poi, se non è idiota, è comunque una lettura. E una lettura, un’interpretazione è comunque una ricerca di senso che non può che far bene al testo.

  15. “Se hanno richiesto alla casa editrice un’opera (o meglio ancora gli è stata spedita per iniziativa dell’ufficio stampa) e poi la denigrano, quando lo stesso marchio pubblicherà un volume di loro interesse gli toccherà comprarlo e, si sa, in tempo di crisi…”
    Esattamente.
    Nel caso della piccola e media editoria (vogliamo precisare ‘pugliese’, dato che ci siamo?), siti di ‘critica’ letteraria e blogger sono ammanicati/amici/parenti di editori e autori. Non puoi parlar male del libro scritto da una persona con cui il giorno dopo vai a cena, o di un editore con cui il mese dopo dividi lo stand in una fiera. No, non si fa.
    Qualche anno mi è stato chiesto di recensire il libro vergognosamente brutto di un’autrice pugliese, zeppo di refusi e perfino di orrori grammaticali, pubblicato da una nota (probabilmente non oltre l’Ofanto, ma lasciamoglielo credere) casa editrice sempre pugliese. Per onestà intellettuale ho sentito di dover evidenziare i punti deboli del testo e mi è stato esplicitamente chiesto, dal sito di critica (indovinate?) pugliese, di rivedere la recensione nel suo complesso, perché “la nostra politica editoriale non prevede che recensiamo negativamente libri prodotti nella nostra regione”.
    Tempo dopo ho recensito negativamente un graphic novel, questa volta scritto e disegnato fuori dai confini appuli, per altro blog letterario. Mi è stato, anche in quel caso, chiesto di ‘limare’ la recensione perché non sta bene parlar male di un fumetto gentilmente offerto dall’editore in persona. Una volta tanto che accadeva, meglio lisciargli le penne.

    Ora scrivo quello che ritengo giusto per un magazine più serio. E i volumi mi vengono forniti gratuitamente dagli editori.

  16. Giovanni Turi solleva un problema importante e non credo affatto che sia un problema vecchio, eterno, o un “falso” problema, ininfluente. Secondo me invece la morte della critica letteraria (quella vera, capace di discriminare) a causa del meccanismo di generale conformismo, della paura a criticare, del timore per le conseguenze, dell’importanza dei rapporti di “scuderia”, è un problema sempre più grosso “oggi” e qui, in “Italia”. Sottolineo entrambe le cose e lo faccio a partire da paragoni precisi su cui invito a riflettere. Prendiamo come riferimento la situazione americana, che è comoda perché è molto ben rappresentata su Internet e tutti possono farsene un’idea anche senza spendere nulla. La città di New York, in particolare, conta 3 importanti punti di dibattito periodico sulla letteratura: “New Yorker”, “New York Review of Books”, “New York Times”. Qui escono recensioni lunghe, approfondite, molto interessanti, rispetto alle quali nessuna recensione tipica italiana è minimamente paragonabile per profondità, passione e accuratezza (e aggiungerei: lunghezza, perché per esaminare bene le cose ci vuole anche spazio). E quello che conta, rispetto al discorso che fa Turi, è che su questi periodici escono anche le stroncature o comunque giudizi misti, non tutti piattamente conformisti. Cioè si parla anche di libri che non sono “bruttissimi”, quindi da ignorare, ma di libri che hanno difetti, che occorre segnalare sia al lettore, sia a tutti gli attori della filiera del libro, a iniziare dall’autore, per far crescere il dibattito e quindi la qualità. Considerata la celebrità di queste testate, i giudizi, sia quelli positivi che quelli negativi hanno grossa risonanza, vengono citati, ripresi, discussi: insomma creano un ambiente vivace, contribuiscono attivamente al dibattito letterario anche su Internet. Se qualcuno non conosce la situazione, o non ha mai pensato a questi confronti, consiglio di esaminare un caso piuttosto emblematico: il dibattito sul reale valore letterario della Tartt che c’è stato negli Stati Uniti a seguito dell’uscita del “Cardellino” e che ha raggiunto il picco tra primavera ed estate 2014: ovunque, sulle riviste come sui blog. Questo dibattito è ben riassunto da un articolo di Vogue (polemico) uscito a luglio: “It’s Tartt—But Is It Art?” consultabile online gratuitamente qui: http://www.vanityfair.com/culture/2014/07/goldfinch-donna-tartt-literary-criticism Se poi riconsideriamo l’accoglienza che ha avuto in Italia “Il cardellino”, si vede bene come un simile dibattito non c’è stato. È molto difficile trovare recensori che abbiano fatto emergere dei dubbi. Qualcosa ha detto Alessandro Piperno su “Il Sole 24 ORE Cultura-Domenica” del 22 agosto (il suo articolo si legge qui: http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2014-08-22/il-cardellino-miracoli-173422.shtml?uuid=ABZrqWmB&p=3). Piperno riconosceva apertamente le debolezze del “Cardellino. Scriveva: «nel corso della lettura, ho potuto constatare come l’intreccio de “Il cardellino” sia dozzinale come quello di certi thriller da cassetta». Ma poi nel seguito dell’articolo propone una tesi (che trovo interessante) sui casi di letteratura imperfetta che però piacciono senza che si sappia ben dire perché: cioè esisterebbero casi eccezionali di “cattiva”, imperfetta e pretenziosa narrativa, che però, e qui sta il punto, saprebbero replicare i risultati della letteratura alta trovando le chiavi per dirci qualcosa: qualcosa non più finto ma “autentico”. Ma a parte Piperno, per il resto in Italia le recessioni de “Il cardellino” sembrano tutte identiche, anche quelle dei blogger, fatte con lo stampino, tutte esprimono ammirazione per la scrittrice presentata come una vera e propria star americana, e su questo bisogna riconoscerle che dosando molto le apparizioni amministra bene la propria immagine. Il caso della Tartt (ma altri se ne possono trovare) dimostra molto bene quello che sostengo: cioè che il problema sollevato adesso da Turi è in gran parte italiano: il problema del conformismo e dell’assenza di dibattito. Perché è soprattutto in Italia che i recensori sono diventati conformisti. Perché è successo? Oltrefrontiera la critica che discrimina continua ad avere grande importanza. Invece in Italia sono in molti oggi tra i professionisti dell’ambiente letterario-editoriale, a voler negare che le recensioni abbiano ancora importanza. Lo si sente dire spesso in giro. Eppure il confronto con la situazione USA ci dimostra che non è vero che l’evoluzione in corso spazza via i pareri professionali, che Internet, il passaparola, l’apparizione televisiva hanno azzerato l’importanza della critica seria. I problemi veri sono semmai che c’è chi in Italia sminuisce troppo i pareri professionali per enfatizzare Internet e il potere degli altri media, e tutta la critica non professionale. Questa enfatizzazione è assai meno pronunciata all’estero dove alla cultura professionale e ai suoi strumenti di comunicazione si continua ad attribuire un posizione importante e influente. Altra grossa differenza tra Italia e estero: in Italia i recensori dei supplementi letterari oggi sono quasi tutti scrittori a loro volta, quindi hanno bisogno di tenersi buoni gli editori, come ricorda Turi. Il critico professionista tende non tanto a sparire, ma a rimanere confinato nelle aule (universitarie, in genere). I giornali sembrano non cercarlo più perché non ha un nome, per cui pensano che non attirerebbe il lettore. Ma negli USA non è così: il più famoso recensore del settimanale letterario più rinomato, il New Yorker, cioè James Wood, è solo un critico, non è anche romanziere. Idem per la maggior parte dei recensori della New York Review of Books. A mio parere è grazie a questi confronti che forse possiamo capire meglio che il problema esiste ed è localizzato, cioè esiste soprattutto qui, perché è il risultato di dinamiche che si sono create qui. Il che dovrebbe portarci finalmente a chiederci: va bene così? ci va bene che l’Italia sia anomala anche per questo rispetto al resto del mondo occidentale più avanzato, cioè che il dibattito letterario serio sparisca affossato dal conformismo? Fa bene alla nostra vita culturale?

    • mi piace anche – ho già tessuto le lodi in generale più sotto – che pierfranco sottolinei che analizzare le debolezze dei libri “medi”, se vogliamo evitare come Giorgio giustamente consiglia di chiamarli “brutti” (ma ci sono anche quelli!) è un compito forse non gratificante, ma non certo inutile per il “livello del dibattito”, per il “livello generale”; è facile fare i superioroni (= per esempio non occupandosi di un dato testo che si considera poco riuscito), più difficile è nominare, trovare le parole precise, smontare la non efficiente macchina della narrazione;
      e uno scrittore, se parliamo degli scrittori, non è una cometa isolata, legge cosa fanno gli altri, ci pensa sopra, dialoga con i propri testi con i testi degli altri; nella narrativa italiana io trovo miriadi di costanti che non mi piacciono, o addirittura non sopporto, che non ho mai trovato descritte da nessuna parte; io non ci provo perchè non sono dotato, e in fondo perchè non mi interessa farlo, anche se è però un lavoro che faccio appunto intuitivamente e disordinatamente, e lo considero parte integrante della mia prassi di scrivere;

      e devo dire che io come scrittore ho imparato tantissimo, dai libri che non mi convincevano; ho imparato a evitare quegli errori che vedevo sotto gli occhi, che potevo radiografare e capire nell’intimo, catalogare, mettere in relazione con ragioni di vario tipo;
      e forse non ho mai imparato nulla dai capolavori che più mi hanno segnato e formato; quelli mi hanno insegnato – passata la paralisi dell’ammirazione – solo una cosa, a osare, a cercare di fare qualcosa che non esiste ancora (insomma, uno ci prova ..);

      e quanti scrittori italiani, anche qui approvo, e lo dice anche Mariasole, dovrebbero maledire il fatto che dopo aver sfornato delle buone cose, nessuno abbia avuto il coraggio di dire chiaro e tondo che i nuovi testi non erano all’altezza!; quante “carriere” in discesa!; uno scrittore ha bisogno di avere interlocutori esigenti e acuti, dovrebbe essere scritto nella costituzione;

      • concordo su tutto con Giacomo Sartori. Aggiungerei che la letteratura moderna si è formata in dialogo diretto, esplicito con il lettore e il recensore, con la consapevolezza precisa che esiste un mondo, quello della critica letteraria pubblicata sulle riviste che “attende” l’autore e il “gioco” dell’autore moderno è quello di prevenire i critici. Lo vediamo nel “Tristram Shandy” di Sterne che più volte si rivolge direttamente al lettore. Ma non solo: è un testo che è stato oggetto di una strategia promozionale precisa da parte di Sterne per sollecitare le reazioni delle riviste letterarie e non a caso ha ispirato altri lavori e parodie, ha fatto nascere una “shandymania” in tutta Europa. Ritroviamo questa stessa consapevolezza inserita direttamente nel testo in classici del secolo successivo: per es. nell'”Evgenij Onegin” di Puskin che in certi passi fa parlare direttamemte l’autore che si rivolge direttamente ai critici, li nomina, ci fa sopra dell’ironia, li previene nelle loro possibili critiche. La letteratura è dibattito: si rivolge a una collettività, a volte in maniera diretta ed esplicita, più spesso in maniera indiretta. Per questo una cosa è il comportamento individuale di chi per gestire il proprio tempo decide di ignorare volutamente certi libri, un’altra cosa, molto diversa, è affermare che per principio il dibattito riguarda solo una parte del mondo letterario, i presunti “meritevoli”. Se parliamo di blogger che scrivono di letteratura nel loro tempo libero e per questo preferiscono dedicarsi a ciò che hanno apprezzato di più è una cosa. Ma se parliamo dell’intero sistema letterario, della funzione che hanno la critica e le riviste nel documentare e discutere l’intero panorama letterario, allora non si può sostenere che anche a livello di sistema esista il problema dell’ottimizzazione dei tempi. Vorrebbe dire vedere le cose da un punto di vista che più che strettamente individuale diventerebbe solipsistico, quello proprio del critico letterario dilettante. Ma sarebbe ingenuo trasferire alle stampa periodica che si occupa di letteratura questo punto di vista.

  17. Il livello e’ molto basso perché domanda e offerta sono di basso livello e tocca farle incontrare per quadrare i conti. Sul fronte del volontariato culturale, che in teoria dovrebbe alzare il livello non essendo vincolato ai numeri, le dinamiche social sono l’equivalente di quelle di mercato e quindi di nuovo il risultato e’ quel che è. Ma c’è un motivo più profondo che coinvolge tutti, chiamiamolo banalmente diserzione dei cuori e delle menti migliori da questo tipo di attività, sempre più precarie e di retroguardia: chi ha uno stipendietto cura giustamente i fatti suoi, chi non ce l’ha cerca di agganciarsi come può. Chi guarda da lontano ritrova in questi ambiti gli stessi meccanismi dei talent show ed un decadimento sostanziale della qualità (orpello classista ed intimidatorio) a vantaggio della spontaneità (inclusiva e comunitaria). Motivo per cui, senza un qualsivoglia credito almeno simbolico, tutto questo settore perde ragione d’essere.

  18. In questa discussione una delle argomentazioni più ricorrenti per negare l’importanza del problema, presente anche nei commenti al post Facebook relativo all’articolo, sostiene che le stroncature non ci sono perché sono inutili, infatti sarebbe sufficiente ignorare i libri brutti, parlarne sarebbe allo stesso tempo una perdita di tempo e una forma di pubblicità immeritata per l’autore del libro. Questa posizione sembra innanzitutto ispirata da un equivoco sul reale significato dell’articolo che, almeno a mio parere, segnala un fenomeno ampio che non consiste solo nell’assenza di “stroncature” vere e proprie, ma riguarda anche il generale topo positivo, spesso superficiale, delle recensioni, che fanno venir meno qualsiasi sfumatura, qualsiasi distinguo. Invece sostenere che le stroncature non ci sono perché sarebbero inutili, sembra rispondere a una visione molto semplificata della produzione editoriale, che si dividerebbe in libri “belli” di cui è bene parlare e di cui si può parlare solo bene, senza alcun dubbio, distinguo ecc. e in libri “brutti” che tanto vale non considerare per nulla. Giustamente alcuni commenti fanno emergere che esiste anche il caso delle “vie di mezzo”, e anzi, verrebbe da dire che nulla è bianco o nero, quindi tutto rientra nelle vie di mezzo di cui occorre parlare. Ma oltre alla semplificazione, un altro problema della posizione di chi sostiene l’inutilità delle stroncature è che implicitamente questa posizione finisce per suggerire che l’operazione preliminare di selezione dei libri di cui parlare, e lo scarto dei libri di cui non varrebbe la pena parlare, di per sé sarebbe sufficiente. Il problema è che suggerire, anche solo a livello imlicito, questa posizione condurrebbe a un risultato molto rischioso perché il critico non rendendo pubbliche le ragioni dello “scarto” farebbe della sua operazione selettiva una questione del tutto privata, per cui la critica rinuncerebbe a mettere in circolo il giudizio e a insegnare qualcosa al lettore (e all’autore). Ma la critica letteraria è sempre stata discussione, dibattito, quindi discorso pubblico, rivolto per principio a una collettività. Non risponde alla sua storia e funzione il fatto che una parte consistente, l’operazione preliminare di selezione, rimanga nascosta, occulta, insieme alle ragioni che la hanno ispirata. La letteratura è anche questo: dibattito pubblico attraverso la critica. E questa funzione è ancora più utile oggi, dato che la produzione editoriale è in continua crescita e il lettore ha bisogno di suggerimenti per filtrare. Non possiamo leggere tutto, neppure a livello di semplici “assaggi”. Naturalmente ognuno deciderà da sé quali suggerimenti e filtri sono autorevoli, quali paragonare tra di loro, quali sottoporre a verifica diretta. Ma resta il fatto che a livello di principio l’esistenza di un filtro argomentato e non nascosto è fondamentale, ed è tale solo se reso pubblico. Infatti un filtro implicito, come per es. il constatare che il critico A. non parla del romanzo X, può sì “dire” qualcosa, ma non necessariamente. Soprattutto il semplice scarto, il silenzio, non dirà mai nulla sulle ragioni del silenzio critico. La critica è dibattito pubblico anche e soprattutto quando rende pubblici gli argomenti in base ai quali giustifica il suo giudizio critico. Se non se ne parla, se non si rendono pubblici questi argomenti, se i giudizi critici negativi vengono lasciati nella sfera del non dichiarato, non si dà la possibilità a tutti gli altri, ai lettori, come agli autori e agli editori, di verificarne la fondatezza, di discuterli, di ribattere. In conclusione, ancora una volta, mi chiedo perché solo in Italia si pensa che le stroncature sono più efficaci se consegnate al silenzio mentre all’estero, per es. negli Stati Uniti, non si pensa affatto questo e il dibattito esiste perché è fatto di voci diverse, di posizioni diversificate, non di conformismo? Esempio: ieri sulla New York Review of Books, nei materiali visitabili gratuitamente su Internet, è uscita una stroncatura molto circostanziata del film su Alan Turing “The Imitation Game”. Si legge qui: http://www.nybooks.com/blogs/nyrblog/2014/dec/19/poor-imitation-alan-turing/ Cita fatti, libri ecc. Chiunque può capire perché è una stroncatura, verificare e decidere. Perché in Italia non si dovrebbe fare?

  19. Un piccolo contributo basato sulla mia esperienza personale. C’è stato un periodo in cui da giovane collaboravo a un periodico a diffusione locale. Nel confronti dei libri “brutti” avevo due atteggiamenti: a) non ne scrivevo (adottavo quindi la “stroncatura del silenzio”, come suggerisce Francesca Fiorletta); b) se la redazione per vari motivi mi chiedeva di scriverne, lo facevo in modo assolutamente anonimo e insignificante, così che il lettore accorto leggesse la stroncatura tra le righe. Questo per dire che alla fin fine i lettori non li si inganna comunque.

  20. perché fare recensioni prende tempo ed energia e quindi non avrebbe senso sprecarne sui libri brutti (a parte quei rari casi di libri brutti E di successo, situazioni in cui può aver senso stigmatizzare)

  21. Interessante discussione. Ma mi pare Giovanni che la tua vera domanda sia: perché nessuno stronca i libri italiani che a me paiono da stroncare? Cioè una denuncia precisa e circostanziata. Ma magari sbaglio.

    • No, David, le opere non hanno nazionalità e in realtà le domande sono diverse: la critica è stata destituita o ha rinunciato alla propria funzione? Era scontato che online si riproducessero le stesse logiche che condizionano la stampa culturale? Spetta ormai solo ai lettori affinare i propri strumenti critici?

      • 1) la critica non è stata destituita. La sua funzione è la stessa di prima, sono cambiate le condizioni.

        2) c’è un fondato motivo per cui on-line si producano logiche diverse da qualsiasi ambito off-line?

        3) no

        Io ho un piccolo blog, non so neanche se viene letto, non parlo mai di libri che non mi sono piaciuti. se avessi letto qualche mia recensione l’avresti messa nel mucchio dei blogger che fanno x perché y, mentre così non è. Tu davvero leggi più libri brutti che belli? Dopo tutti questi anni ancora non hai imparato a scegliere? Non mi sembra molto rigorosa la tua analisi. Forse dovresti partire da un libro e vedere come è recensito, su giornali e blog, poi fare un confronto ad esempio con anobii e goodreads e postare i risultati.

        Poi: tu di solito con le persone che frequenti parli dei libri film concerti eccetera che ti sono piaciuti oppure parli di quelli che ti hanno fatto schifo?
        Poi poi: se io lavorassi in un giornale e avessi a disposizione un titolo da segnalare a settimana segnalerei un titolo che mi è piaciuto, in modo che così qualcun altro potrà beneficiarne e l’autore stesso, al quale sono riconoscente.

        Discorso diverso è quello sulla qualità delle recensioni. Per dire, io sono arrivato a detestare le recensioni di musica pop, che non sono altro che una serie di riferimenti continui ad altri gruppi più parole a caso vagamente intellettualoidi. il motivo è semplice: coloro che le scrivono non sono musicisti e neanche capiscono davvero di musica, hanno solo sviluppato un vago gusto, magari anche un buon gusto, ma non saprebbero ben descrivere un brano musicale. su rolling stone una volta ho dato una letta alla famosa classifica dei 500 album più belli della storia. Il primo è Sg. pepper. Nella recensione c’erano molti dettagli sulla lavorazione, sulle cifre spese, su un sacco di cose. Non c’era una riga sulla musica. Il fatto è che questo tipo di descrizione, che ad esempio Alex Ross sa fare molto bene, non interessa alla maggior parte delle persone, ed è comprensibile, perché sono cose che possono interessare solo chi ha un interesse profondo per la musica. Per cui non ha senso scrivere recensioni più dettagliate. Non ha senso perché la musica si ascolta e basta, parlarne è per pochi, ed è giusto e sano così. Lo stesso per i libri. Sarebbe da pazzi il contrario. In ogni caso non c’è nessun problema: chi legge per passatempo ha le varie segnalazioni per dei libri medi tutto sommato apprezzabili + il passaparola on-line. Chi ha una passione oggi ha pure la possibilità di contattare scrittori e saggisti di qualità che si trovano facilmente on-line. Faccio il mio esempio personale di lettore che ha cominciato a leggere con piacere senza avere una formazione universitaria e al tempo senza diploma di maturità. Scartabello su Lipperatura, leggo commento di Giulio Mozzi, vado su Vibrisse. Su Vibrisse leggo articolo Claudio Giunta, vado sul suo sito. Sul suo sito leggo riferimento a Edmund Wilson, leggo Edmund Wilson.

  22. Sì: il problema del livello sempre positivo, elogiativo, ma anche superficiale, delle recensioni italiane non riguarda solo gli autori italiani, ma anche gli autori stranieri recensiti in Italia. Esempio 2 (dopo quello della Tartt): “La Verità sul caso Harry Quebert” di Joel Dicker (Francia 2012; tradotto da Bompiani, 2013). Difficile trovare una recensione italiana che lo stronchi. Superiamo l’Atlantico e scopriamo che il suo sbarco a New York non ha avuto la stessa fortuna: nella recensione apparsa sul “New Yorker” il 18 giugno di quest’anno: “Francophone Hit, American Letdown”, di Alice Gregory, http://www.newyorker.com/books/page-turner/francophone-hit-american-letdown il giudizio è piuttosto ironico e negativo: «The dialogue barely surpasses lorem ipsum in its specificity: “Do you have any change?” “No.” “Keep it, then.” “Thank you, writer.” “I’m not a writer anymore.” And life advice from an alleged literary genius takes the form of shampoo-bottle nonsense: “Rain never hurt anyone. If you’re not brave enough to run in the rain, you’ll certainly never be brave enough to write a book.” The fact that there’s a novel within a novel about the author of another novel isn’t handled with any sort of postmodern panache, and neither are the literary allusions to Roth and Mailer—a food-obsessed Jewish mother, boxing matches—which might actually just be clichéd writing. […] It’s hard to tell whether the novel is as wooden in the original French, but I’m told that it is.» Ecc. Insomma: romanzo pieno di clichés, con dialoghi imbarazzanti da telefilm, privo di psicologia, il libro da consigliare a chi non ha voglia di pensare troppo: person «with temporarily disabled critical faculties trying to forget who or where they are». La stroncatura del New Yorker si confronta anche con i risultati delle vendite in USA e altre recensioni apparse sulla stampa periodica USA e conclude così: «Based on current numbers acquired from Nielsen BookScan, the publishing industry’s not-quite-reliable point-of-sale database, sales for “The Truth About the Harry Quebert Affair” in the U.S. (not including e-books) look to be around thirteen thousand—by no means meager, but also not mind-blowing, especially considering the enormous run. The reviews stateside have been so far sparse and not exactly positive. Newsday called the novel a “lumbering contrivance,” and the Washington Post characterized it as one of “earnest lardiness.”»
    Ora, qualsiasi lettore un po’ avvertito nota dopo poche pagine i difetti segnalati dal recensore del New Yorker. Eppure non si conosce un solo periodico italiano che abbia usato tanta ironia anche un po’ sprezzante nei confronti di questo romanzo giallo. Era il “giallo intellettuale” di successo da promuovere, il fenomeno di lingua francese da far conoscere dopo che l’autore era anche apparso da Fazio. Il problema quindi non riguarda solo le recensioni di autori italiani, semmai riguarda qualsiasi prodotto dell’industria editoriale italiana, indipendentemente dalla sua origine.

    • trovo veramente interessantissimi i tre interventi di pierfranco, e concordo che solo nel confronto con altri paesi, i ragionamenti sulla nostra situazione abbiano un qualche senso;
      quello che chiederei a pierfranco, visto che sembra conoscere così bene quello di cui parla, è se non vede anche negli USA un impoverimento/”conformistizzazione” della critica giornalistica;
      penso alla Francia, dove gli spazi sui giornali – tutti in crisi – tendono a ridursi vieppiù, e è evidentissimo un peso sempre maggiore (impensabile anche solo 10-15 anni fa) del “peso commerciale” (casa editrice, successo di vendite, appeal del tema …) dei testi scelti e trattati (direi ancor più quando si tratta di narrativa non francese, dove il successo di vendite nel paese di origine tende ormai a essere un fattore ben più importante di tutto il resto), e quindi una (triste) dinamica in questo senso; e la prestigiosa “Quinzaine”, bastione di una critica esigente e colta e intelligente, è stata salvata in extremis da dei mecenati;

      • L’intervento-domanda di Giacomo Sartori mi consente di aggiungere delle precisazioni importanti. L’intervento di marco è interessante, fa dei distinguo, aggiunge altri esempi, giustamente cita lo star system culturale. Continuo a credere che la differenza di livello tra recensioni del mondo angloamericano e quelle italiane sia notevole, e non solo per il livello, lo spazio che si prendono, ma per la loro capacità di ispirare dibattiti accesi e dare spazio alle voci fuori dal coro. La nostra fortuna è che oggi è diventato molto facile fare confronti con la situazione oltrefrontiera. In particolare, leggere le recensioni angloamericane è utile e a portata di mano per 3 motivi: 1) sono in tanti casi disponibili online gratuitamente, e quando non è così si può fare un accesso a pagamento all’archivio, magari solo per 1 settimana e con modica spesa, per recuperare l’articolo che serve; invece le recensioni italiane non sono sempre altrettanto disponibili online, molte cose vengono diffuse solo nelle versioni a stampa o accessibili online solo per abbonati; 2) le recensioni estere sono ovviamente disponibili in anticipo sull’uscita delle traduzioni in italiano dei romanzi esteri; 3) la disponibilità, la varietà, la profondità delle recensioni pubblicate all’estero invogliano a leggerle. Detto questo, per quanto mi riguarda non pretendo di conoscere in maniera estensiva tutto il panorama e le dinamiche del mondo delle recensioni all’estero, per es. di quelle angloamericane. Ma non è neppure necessario, a mio avviso, perché è sufficiente sapere che esistono casi di testate molto celebri, con una storia importante alle spalle e tutt’ora vitali, che pubblicano recensioni importanti per impegno e indipendenza di giudizio e quindi preferisco concentrarmi su questi casi e trovare alcuni esempi significativi relativi a libri molto conosciuti anche in Italia in maniera da costruire un confronto. Volendo allargare un po’ di più il confronto, direi che anch’io come Sartori ho la sensazione che in Francia ci sia una situazione più simile alla nostra. Anche in questo caso lo dico a partire da alcuni casi concreti. Per es. anche in Francia a inizio 2014 Tartt ha avuto una accoglienza del tutto acritica come in Italia, anche là aveva fatto un tour promozionale ed era stata venerata come una star. Questo vale se consideriamo i supplementi letterari dei quotidiani francesi, come Le Monde des Livres del quotidiano Le Monde. Il caso che cita Sartori della “Quinzaine Littéraire” è in effetti il caso di una rivista molto più indipendente e originale e con una grande storia. Anche qui come esempio prendo le recensioni a Murakami, altro caso di autore di grande successo ma considerato in maniera controversa dall’establishment letterario: nel suo caso sulla Quinzaine troviamo delle recensioni interessanti, distanti dalla tipica-recensione-dell’-autore-di-culto acritica che domina in Italia. Nel nostro paese un mensile simile alla Quinzaine è “L’Indice dei Libri del mese”, che in effetti ha sempre rappresentato una voce indipendente dato che soprattutto in passato aveva tra i suoi collaboratori, direttori, ispiratori dei docenti universitari, quindi persone che non erano romanzieri né erano legati alle “scuderie” delle case editrici. Negli ultimi anni la situazione è un po’ cambiata e per fare ancora un esempio concreto adesso sull’Indice si legge una recensione di “La ferocia” di Lagioia in cui il recensore dice che l’unica cosa sbagliata è la foto in copertina (!). In pratica si unisce all’opinione comune (con una sola eccezione) nel cantare le lodi di questo lavoro. Per tornare al mondo delle recensioni angloamericane (non leggo il tedesco quindi non so nulla di quel mondo e sarebbe interessante se qualcuno lo raccontasse), trovo che ciò che distingue il mondo angloamericano è un aspetto ovvio, se vogliamo, eppure di straordinaria importanza: il numero delle pubblicazioni periodiche è molto ampio così come il numero delle recensioni e questo semplice fattore numerico aumenta le chances che se ne trovino di buone, inoltre crea le condizioni favorevoli alla concorrenza tra recensori e testate. Non solo: capita anche che nell’ambito di un quotidiano come The Guardian, e di altri del suo gruppo, che quindi pubblicano in parallelo più recensioni dello stesso libro, possano uscire pareri critici che sono agli antipodi. Lo si vede per es. sempre nel caso di “The Goldfinch”: la prima recensione UK uscita nell’ottobre 2013 su The Observer (del gruppo “The Guardian”) è terrificante come stroncatura, piena di ironia sarcastica sulla Tartt vista come scrittrice priva di originalità, capace solo di inseguire clichés narrativi inaugurati da Harry Potter (di Julie Myerson, si legge qui: http://www.theguardian.com/books/2013/oct/19/goldfinch-donna-tartt-review). Ma la recensione contemporanea firmata da Kamila Shamsie per la rubrica “Book of the week” del “Guardian” invece è molto positiva (qui: http://www.theguardian.com/books/2013/oct/17/goldfinch-donna-tartt-review) Su The Guardian sono tornati ancora sull’argomento: quest’anno quando il romanzo è stato escluso dal Booker Prize, per dire che in effetti non meritava il premio: l’articolo è di Sam Jordison: http://www.theguardian.com/books/booksblog/2014/sep/29/goldfinch-donna-tartt-not-the-booker-plot-coincidence Poi, solo qualche giorno fa, per riflettere sul fatto che i dati che arrivano dalla lettura su e-books sembrano dimostrare che The Goldfinch è il romanzo più abbandonato a metà dai suoi lettori, perlomeno i suoi lettori in formato e-book: http://www.theguardian.com/commentisfree/2014/dec/10/donna-tart-shamed-by-e-reader-the-goldfinch Tutto questo per dire che il mondo delle recensioni angloamericane dà prova di essere realmente polifonico, fatto di voci diverse, che tutte trovano spazio, quindi molto tollerante nei confronti del dissenso. Con questo naturalmente non intendo dimostrare che in UK e USA le recensioni sono del tutto avulse da possibili pressioni dell’industria editoriale, da fenomeni di conformismo ecc. Ci saranno. Ma nell’insieme, basta approfondire un po’ di esempi per vedere quanto sia difficile trovare segnali di conformismo monocorde, di omogeneità acritica. Nell’insieme mi pare evidente che esiste un dibattito, si discute, si mettono in gioco le idee, i pareri critici, la propria visione della letteratura e della lettura, ovviamente giocandoci la faccia (il critico può anche sbagliare, è ovvio, ma laggiù sembra accettare il rischio e non volersi nascondere dietro i facili giri di parole del dire e non dire per compiacere colleghi autori e editori). Soprattutto si nota questo importante fenomeno: che le recensioni angloamericane danno vita a dibattiti in cui si riconoscono dei fili rossi ricorrenti, tematiche più generali che riguardano fenomeni di grande rilievo e vanno al di là del singolo scrittore. Nel caso del discorso sulla Tartt è in gioco la questione dell’autore che scrive un romanzo per adulti ma con le caratteristiche della narrativa “young adults” e quindi è un fenomeno che rientra nel dibattito sul perché negli ultimi 20 anni la narrativa alla Harry Potter piace molto anche agli adulti. Una delle iniziatrici di questo dibattito è stata Antonia Byatt in una sua recensione alla Rowling (molto critica sull’intero fenomeno) pubblicata sul New York Times nel 2003: “Harry Potter and the Childish Adult” che si legge qui: http://www.nytimes.com/2003/07/07/opinion/07BYAT.html Per tornare in Italia, è difficile qui riuscire a riconoscere nelle recensioni i fili rossi di dibattiti sui fenomeni più discussi del mondo della letteratura. Anzi, è proprio difficile riconoscere un dibattito attivo, uno scontro di idee, di posizioni. Eppure succedeva, decenni fa. Allora perché ora non succede più? Che cosa è capitato nel frattempo? Qualsiasi cosa sia, ha secondo me un rilievo relativo alla storia italiana. A mio parere è fuorviante (e forse anche frutto di mala fede) voler vedere in questo fenomeno la conseguenza dell’influenza di Internet, dell’ideologia orizzontale, anti-intellettualista e critica verso i concetti di autorità e autorevolezza, propria del Web 2.0. e che avrebbe indebolito se non azzerato l’interesse nella critica professionale portandola all’esaurimento, perché si vede bene che all’estero non è andata così: la critica-come-dibattito resiste bene e anzi, dimostra di ambientarsi molto bene nel mondo di Internet. Quindi per trovare una risposta all’involuzione delle recensioni italiane secondo me occorre trovare altre ragioni, più legate a dinamiche interne di carattere culturale.

  23. Renata Adler, autrice a fine novanta di un vitriolico exposé sul declino del New Yorker, già a metà degli anni settanta dimostrava di non avere aveva una grande opinione della critica giornalistica negli Stati Uniti:

    http://jelimarco.tumblr.com/post/81125236345/speedboat

    Forse l’Italia si distingue – come sempre – in negativo, ma la situazione è simile dappertutto – negli anni del dibattito sulla crisi della critica giornalistica ho collezionato variazioni in tutte le lingue o per lo meno in tedesco, francese, spagnolo, inglese (varietà us, uk e australiana).

    Poi sì magari alcuni giornali o riviste o inserti mantengono un profilo critico mediamente più alto, ma andrei caso per caso (e recensore per recensore).

    Più che le stroncature, però, il problema sono le differenze nell’esposizione, lo star system culturale, lo strapotere dei personaggi e dei premi letterari.
    Alcuni pur bravi hanno recensione positiva in quadratino altri hanno intervista prima, recensione, intervista dopo, dibattito con botta e risposta sui meriti e magari un articolo sulla loro musica preferita.
    Il vincitore del Pulitzer, in particolare, è ancora il libro che tutti devono leggere e su cui tutti devono avere un opinione e nel gran polverone c’è posto per voci dissonanti o dibattiti – soprattutto se i paragoni positivi sono senza pudore, che p.e. accostare The Art of Fielding a Moby Dick ai tempi aveva fatto venire serio mal di pancia a più d’uno.
    E se c’è stato un dibattito furioso sulla Tartt, quasi inosservate sono passate le due ristampe di William Gass – ironicamente, uno che diceva che “the Pulitzer Prize in fiction takes dead aim at mediocrity and almost never misses”.
    Non mi interessa qui paragonare mele ad arance; anche senza accertare univocamente (posto che,) i rispettivi valori letterari, sono quelli extraletterari che hanno determinato la differenza d’esposizione.

    Inoltre è difficile anche negli USA trovare giudizi negativi o non vaghi nei confronti di un debutto, o dell’opera di un collaudato autore midlist. Per il caso Quebert il discorso un po’ diverso – non sono molti gli autori stranieri che sfondano negli USA, e la copertura è storicamente debole (se non sbaglio una volta la NYRB fece una lista dei 100 migliori libri dell’anno con solo 7 traduzioni) per cui nei confronti di un successo europeo ultrapompato, oggettivamente mediocre e per di più ambientato in un America di cartone*, non sorprende l’effetto boomerang.

    * ho dovuto leggerlo perché mi è stato regalato

    PS Così riportato il discorso di Piperno ricorda molto il saggio di Orwell sui “good bad books”
    https://ebooks.adelaide.edu.au/o/orwell/george/o79e/part27.html

  24. Mah. Mi permetto di dire che almeno due affermazioni di Turi, e cioè

    Qualsiasi blogger ha tra i suoi obbiettivi primari quello di raggiungere un numero di lettori sempre più ampio

    e

    Tutti gli scrittori hanno le proprie conventicole, pronte a screditare-bannare-spammare chiunque osi mettere in discussione il valore assoluto della produzione del loro protetto

    mi sembrano due affermazioni di senso comune, dello stesso tipo di: “I panini del McDonald’s fanno male”, “I postini buttano via la posta”, “Ogni siciliano ha in tasca un coltello a scatto”, eccetera. Mi pare ovvio che un’affermazione di senso comune non può essere “ragione” di nulla.

    Un’altra affermazione,

    In molti casi, anche loro [i blogger] hanno un qualche rapporto con un editore (o ambiscono ad averlo),

    è di qualità argomentativa ancora peggiore: non conta che X abbia una certa relazioen con Y, ma che potrebbe averla; o, peggio ancora, che (come ci rivelano le nostre sonde psichiche), ambisce ad averla. Non solo è un’altra affermazione si senso comune, ma si avvicina alle affermazioni del tipo “Se nega, allora è colpevole”.

    Infine: la maggior parte delle opere che si pubblicano è orrenda, e non viene recensita neanche dal bollettino condominiale. A me questo pare solo un bene, o almeno un risparmio di male.

    La domanda sensata, secondo me, non è “Perché nessuno stronca i libri brutti?” (la risposta è ovvia: perché sono tantissimi, e preferiamo dedicarci ai libri che ci paiono belli), ma: “Come mai esistono nella produzione editoriale e letteraria ambiti diversi e separati, in ciascuno dei quali i criteri di valore sono completamente diversi?”. Così diversi che in alcuni di questi ambiti, a es., “la critica” è tutto; in altri “la critica” non ha luogo; in alcuni di questi ambiti “l’originalità” è importante, in altri è negativa; in alcuni di questi ambiti “la letterarietà” è tutto o quasi, in altri è il male assoluto; e così via.

    • Le frasi di senso comune (o che appaiono tali) risultano talvolta utili a mostrare la realtà, seppur privata delle sue sfumature, così come affermare in generale “la maggior parte delle opere che si pubblicano è orrenda” (mah!?).
      Mi spiace poi che molti si lascino condizionare dalla domanda posta come titolo, che sarebbe anche potuta essere: “perché si spacciano per capolavori libri che tali non sono?”.
      Resto comunque dell’opinione che ci si dedichi ai libri che meritano anche confrontandoli con gli altri.

      • Giovanni: se sei disponibile ad ammettere
        – che la permanenza di un’opera nella memoria del pubblico (dei diversi gruppi che compongono il pubblico), nelle biblioteche, nel commercio, eccetera, a distanza di – diciamo – una cinquantina d’anni sia un indizio accettabile (non una prova) della sua bellezza;
        – e che il contrario – il perimento – sia un indizio (non una prova) accettabile della sua bruttezza (o almeno della sua scarsità):
        – allora credo che potesti anche ammettere che la stragrande, probabilmente non quantificabile quantità delle opere pubblicate è fortemente indiziata di non valere nulla.

  25. Mi pare che thread come questi siano parte del problema. Quasi tutti gli intervenuti paiono concordare, senza nemmeno il bisogno di fare dei nomi, su quali siano i libri ‘belli’, ‘brutti’ o ‘ni’. Prima ancora del chiedersi se i si debbano o meno stroncare i libri ‘brutti’ sembra che questi siano stati individuati senza sforzo e probabilmente senza lettura. Siamo nel campo del ‘man sagt’, mi sa.
    Personalmente, come scrittore che probabilmente non sarà mai recensito seriamente (grazie anche a un percorso editoriali non convenzionale), penso che le stroncature facciano bene a chi scrive, se ha il carattere necessario a prenderne in considerazioni gli argomenti senza farne una questione di dignità offesa.
    In Italia c’è un critico specializzato in stroncature, Pippo Russo. Non mi pare che venga preso molto sul serio nei principali siti di letteratura ‘seri’ online, anzi. Di recente è stato l’unico, mi pare, a stroncare ‘La ferocia’ di Nicola Lagioia ed è stato quindi accusato di invidia e malanimo. In precedenza aveva pubblicato un libro, ‘L’importo della ferita’, in cui dissezionava Volo, Moccia, Faletti, Piperno e Scurati: la reazione più comune era quella della perdita di tempo, dato che ‘tutti’ sanno che questi scrittori, specie i primi tre, non valgono nulla e quindi non è il caso di perderci tempo. Dal mio punto di vista, invece, queste lunghissime stroncature estremamente minuziose sono utili, indicando un gran numero di possibili errori da evitare o problemi da considerare.

    • Una cosa da aggiungere: per me la stroncatura di figura molto rispettata nell’ambiente editoriale è stata decisiva. Credo mi abbia fatto un monte di bene. Si è trattato di una stroncatura privata e non pubblica: in quel caso le dinamiche psicologiche sarebbero certo state differenti. Importante per me fu anche il fatto che la stroncatura veniva da una persona che sostanzialmente non mi conosceva (a parte un colloquio telefonico, sia pure cordiale) e che poteva tranquillamente essere definita ‘autorevole’, rendendo così il suo giudizio differente da precedenti critiche che mi erano venute da amici, più o meno competenti: anche quelle critiche utili ma necessariamente colorate dalla conoscenza personale.

  26. @stefano trucco, che scrive su Pippo Russo:

    Di recente è stato l’unico, mi pare, a stroncare ‘La ferocia’ di Nicola Lagioia ed è stato quindi accusato di invidia e malanimo.

    le consiglio di dare un’occhiata anche all’Indice dei libri del mese di dicembre 2014, per completezza d’informazione.
    Sul resto, condivido qui Mozzi

  27. ps: il termine “stroncature” è orrendo, giornalistico e superficiale, tratta i libri (anche brutti) come quello che non sono, come malattie e vacche al macello. Usarlo, a mio parere, inficia qualunque discorso sull’argomento, in partenza, e predispone al luogo comune.

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ADDIO ALL’INVERNO

di Cécile Wajsbrot
Consapevoli come siamo di una possibile scomparsa della specie umana in un futuro che non si calcola più in millenni o secoli, ma in decenni, rassomigliamo, torniamo simili agli Aztechi che di notte vegliavano colmi d’angoscia spiando la riapparizione del sole.

Figure della crisi

di Vittorio Coletti
La confusione sotto il cielo della politica europea, non solo italiana, era grande, a suo giudizio. Destra e sinistra ora si opponevano duramente anche dove, come nel caso della direttrice d’orchestra, non era il caso; ora si scambiavano tranquillamente elettori, programmi e linguaggi.

Quando sento parlare i personaggi

Cristina Vezzaro intervista Antje Rávik Strubel
Lavoro molto con il suono della lingua. Solo quando sento parlare i personaggi inizio a capire chi sono e come sono. Anche la donna blu e lo stile dei passaggi in cui compare sono nati da un dialogo interiore.

LE DUE AGRICOLTURE: LE RAGIONI DEL DISAGIO

di Un gruppo di agricoltori lombardi
Fin dagli anni sessanta si è andata delineando una tendenza, ormai diventata strutturale, di una netta separazione tra una agricoltura delle grandi superfici, dei grandi numeri economici, della capacità di investimento e di accesso al credito, e dall’altra parte, una agricoltura familiare molto legata al territorio, spesso marginale, di collina e di montagna ma non solo, con volumi produttivi spesso insufficienti a garantire investimenti, ma con un beneficio sociale immenso derivante dal presidio di un territorio
giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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