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Di messaggi vuoti e strette intese

di Daniele Ventre

Sul messaggio di un Capo di Stato quasi dimissionario molto ci sarà da discutere. Nel frattempo è il caso di puntualizzare i termini propri dei problemi che la retorica consolatoria di palazzo, frutto della frequentazione pluridecennale di due chiese, una laica e una religiosa, con opportuno equilibrismo comunicativo sfiora in superficie e occulta nella sostanza.

Ci si appella spesso al patrimonio comune che le istituzioni dovrebbero costituire, ai valori originari della democrazia, alla creazione di una società di pari opportunità, di meriti riconosciuti, di integrazione dell’altro.

Ma le istituzioni diventano vuote, se sono svuotate ab origine. A svuotarle ab origine permangono comunque fattori interni ed esterni così strutturali, che ogni discorso in senso miglioristico o riformistico, quando non veli progetti sinistri di contrazione dello Stato di diritto, di serrata dell’oligarchia sotto forma di riconoscimento autoreferenziale travestito da merito, o di cancellazione di quel che resta dello statuto dei lavoratori e dei servizi offerti al cittadino, suona ridicolo o ipocrita o quantomeno ingenuo, appena si libra dalle labbra nel vuoto dell’aria.

Anzitutto, dobbiamo guardare apertamente in faccia all’evidenza che l’economia del Paese è un circuito in cui le imprese del nord sono in modo diretto o indiretto il prodotto del riciclaggio delle mafie del sud. Queste mafie sono anche multinazionali del crimine. Agiscono per proprio tornaconto, allignando in un brulichio verminoso di corruzione e collusione con una politica che è di fatto inetta e incompetente, in presenza di una classe dirigente, anzi digerente, neo-feudale, e proliferano in un contesto di marginalità sociali, urbane, economiche e logistiche tenuto in piedi ad arte, sulla base dell’assioma leggendario per cui le mafie costituirebbero la necessaria scoria digestiva di un’economia prospera e in crescita.

In secondo luogo, dobbiamo contemplare spassionatamente la verità palmare che la costruzione europea è un fallimento integrale: essa costituisce ormai il Commonwealth continentale della Germania, in opposizione al grande Commonwealth globalizzato dell’Inghilterra, che a guardarla sul planisfero non sembra, ma sottobanco il suo Impero non solo l’ha conservato, ma lo ha espanso. La Germania usa l’euro come strumento di conquista economica e di imperialismo egemonico, per scaricare in modo complesso e non sempre immediatamente trasparente le proprie passività sull’Europa latina (la chiamo così per evidente analogia) e sull’Europa orientale -le stesse direttrici di espansione che la Germania seguiva durante la seconda guerra mondiale.

La stessa Europa mediterranea e latina, che avrebbe potuto forse costruire un’alternativa federativa in opposizione al compatto egemonismo economico neolotaringio, è dilaniata da vecchi sciovinismi e diffidenze. Della Grecia e di come sia stata pressocché terzomondizzata e trasformata in uno Stato zombie dalla finanza transnazionale si è già detto abbondantemente. La ex-seconda locomotiva europea, la Francia, è diventata intanto un punctus minoris resistentiae più complesso e problematico della stessa Italia, fra revanchismi, aspettative tradite e tensioni sociali post-coloniali, che covano sotto la cenere ormai fredda del socialismo spento di Hollande, e aizzati da una crisi montante.

L’euro e la politica che c’è dietro -la truffaldina pseudo-scienza economica del rigore- rappresentano le catene che impediscono all’Europa centro-mediterranea di riprendersi, insieme alle pastoie interne dovute alla collusione e alla corruzione. Il peggio è che Eurolandia, come l’Ade, ha facile ingresso, ma impossibile uscita, sorvegliata com’è dalle erinni e dai cerberi della speculazione finanziaria. Il massimo che possiamo aspettarci, finché regge, è la contrattazione del governatore della BCE: ma contrattare sulle briciole non è più sufficiente.

Dunque, abbiamo un Paese sclerotizzato all’interno e suddito a interessi esterni. I diritti e la costituzione sono deprivati di senso. Regnano u zu’ Ciccu e la Bundesbank allargata. La classe politica è ridotta a intermediaria fra questi poteri: le campagne elettorali, strutturate come campagne di marketing, al meglio hanno saputo produrre l’aborto di dissenso dal basso dei pentastellati e la pantomima del confuso e deludente attivismo riformistico di un Renzi, e in ogni caso si limitano a captare le paure e le velleità delle masse, aizzando desideri populistici o solleticando umanitarismi vuoti e fatui risentimenti sociali. I populismi razzistici o di campanile sono funzionali a costruire la possibilità sociale e valoriale di avere a disposizione schiere di lavoratori di serie b, resi tali dalla legge ancora per poco non scritta della discriminazione: migranti, meridionali, materiale umano da ridurre a combustibile di basso rendimento per economie inquinate e inquinanti: slurries operai -e humus per ogni tirannide futura che voglia presentarsi come provvidenziale salvatrice. Gli umanitarismi assolvono la cattiva coscienza dei socialisti avariati e dei rivoluzionari scaduti; i risentimenti sociali tornano utili per declassare i lavoratori vecchio stampo, con diritti residuali bollati come privilegi, quando i veri privilegi oligarchici sono saldamente nelle mani di una nobilitas impropria. Nel mondo piccolo dei rapporti interpersonali si è nel frattempo coltivato con singolare sistematicità un grumo di immondizia, fatto di deprivazione culturale, ineducazione, rampantismo, snobismo, volgarità, servilismo, aggressività, competitività per una briciola di pane.

Buon anno, repubblica.

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4 Commenti

  1. Purtroppo è così. Il discorso di Re Travicello mi sono ben guardato dall’ascoltarlo. L’Europa è quello che è. Il paese allo sfascio idem. Serve rianalizzare (lo sfascio)? Dopo il fascismo lo sfascio e la maledetta cancrena delle mafie. A’ quoi bon tutto questo?
    Forse presto lo sapremo.

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daniele ventre
daniele ventre
Daniele Ventre (Napoli, 19 maggio 1974) insegna lingue classiche nei licei ed è autore di una traduzione isometra dell'Iliade, pubblicata nel 2010 per i tipi della casa editrice Mesogea (Messina).
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