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Perdersi a Milano

Albini in viale Argonne
viale Argonne

di Gianni Biondillo

A Linate Bruno ha affittato una macchina. Ha una giornata a disposizione e vuole assolutamente vedere il cantiere dell’Expo. Provo a spiegargli che non c’è molto da vedere, i lavori marciano a pieno ritmo e non è possibile entrarci, troppi problemi di logistica e di sicurezza. Ma lui non demorde. “Milano la conosco già” mi dice. “Visto il Duomo e il Castello cosa resta?” Sorrido, mentre costeggiamo il parco Forlanini. Superato lo spiccato ferroviario d’improvviso la città si fa densa, come fosse un’unica concrezione ossea. Devi sapere, gli dico, che Milano ha da sempre due caratteristiche. Innanzitutto è una città piccola. Intendo quella nei suoi stretti confini comunali, sia ben chiaro. Non parlo dell’area metropolitana, la vera città contemporanea, metropoli di almeno sei milioni d’abitanti, che arriva fino a Bergamo o a Como. Ma i confini comunali sono poca cosa. Spesso le distanze sono più mentali che geografiche. Niente a che vedere con le borgate romane, oltre il raccordo, così lontane dal centro da sembrare isole sperdute in un oceano.

Lo porto in viale Argonne per spiegargli il concetto. La mole della chiesa dei Santi Nereo e Achilleo fa da testata al viale alberato. Sulla destra c’è un quartiere di case popolari degli anni trenta del secolo scorso. Alcuni edifici sfoggiano timpani e modanature dal gusto storicista, oppure vezzosi colori pastello. Ci sono anche i lunghi parallelepipedi progettati da Franco Albini nel più puro stile razionalista, studiati in molte storie dell’architettura che però dal vivo, data la scarsa manutenzione, non fanno gridare al miracolo. Da qui, a piedi, il centro si trova a meno di mezz’ora. Ecco perché spesso capita di trovare zone popolari affiancate, se non addirittura intrecciate, a quartieri borghesi. Città studi, quartiere della (ex) nuova borghesia di professionisti, condivide in molti casi scuole, campi sportivi e oratori con l’adiacente quartiere ultra popolare e multietnico di via Padova. Basta evitare le arterie di massimo traffico e la città è capace di stupire per l’enorme varietà di tipologie edilizie. A pochi passi da queste case, per dire, c’è via Guido Reni, fatta tutta di villette a schiera di appena due piani, e ce n’è una simile in via Tiepolo, o analoghe più su, verso piazza Aspromonte. Spesso non si sa se siano nate per essere case di famiglie piccolo borghesi oppure sorte per rispondere alle esigenze abitative delle classi meno abbienti, come nel quartiere Mac Mahon, dall’altra parte della circonvallazione, un piccolo pezzo di Londra d’inizio Novecento in salsa meneghina.

via Andrea del Sarto
via Andrea del Sarto
Biblioteca di Porta Venezia
Biblioteca di Porta Venezia

“E oltre all’essere piccola, qual è l’altra caratteristica di Milano?” chiede Bruno. Nel mentre ci fermiamo, devo consegnare un libro alla biblioteca di Porta Venezia. Lui alza gli occhi e osserva le modanature liberty della facciata. È l’ossessione alla novità, gli rispondo. Vuole continuamente rinnovarsi e allo stesso tempo cerca di crescere sempre su se stessa. Quindi puoi trovare diversità non solo tipologiche, ma anche cronologiche nel volgere dello stesso fronte stradale. “Che c’è di nuovo in questo?” mi chiede ironizzando. Anche il liberty – e a Milano ci sono esempi bellissimi (penso al non finito di palazzo Castiglioni in Corso Venezia, o alla plasticità muliebre di casa Campanini in via Bellini) – era “il nuovo”, quando importarono lo stile da Vienna. Aggiornarsi, aggiornarsi, era l’imperativo, mai perdere il contatto con le capitali europee. Ma allo stesso tempo cercare una propria lingua, più “nostra”. Come fecero Gio Ponti, o Giovanni Muzio. Gli faccio fare qualche passo e lo porto in via Giorgio Jan. Quello che forse ha meglio interpretato queste istanze, gli spiego, è stato Piero Portaluppi. “Adelante ma con juicio”, manzonianamente. Rinnovarsi ma senza esagerare. Gli mostro un edificio. Una casa borghese di quattro piani che ha sullo spigolo, enfatico, un enorme bovindo vetrato ruotato di quarantacinque gradi. Moderna, per quegli anni, eppure non modernista. Come se fosse sempre stata lì. Edificio tutt’ora abitato che ha però al primo piano la Casa-Museo Boschi-Di Stefano. Con i Lucio Fontana esposti nel salone centrale si potrebbe appianare il debito pubblico nazionale, dico, scherzoso.

Casa-Museo Boschi-Di Stefano
via Giorgio Jan

Proseguiamo il nostro viaggio. Il vero simbolo di Milano non è il Duomo, affermo come illuminato, mentre osserviamo in macchina la Torre Breda, ancora oggi per me uno dei grattacieli più belli di Milano. “E qual è?” chiede Bruno. Inizio a credere che andare all’Expo gli interessi sempre meno. In fondo il trucco per far sembrare più grande questa città sta nel perdersi nelle sue strade, ammirando i suoi edifici come fossero i ritratti di famiglia di una pinacoteca privata: studiando le acconciature, i vestiti, i tratti del volto o le pose che cambiano di generazione in generazione, ma allo stesso tempo riconoscendone la continuità. È il cantiere del Duomo il vero simbolo cittadino! – dico enfatico – al punto d’essere diventato un modo di dire popolare. Milano non sa fare a meno di gru, pale meccaniche, scavi a cielo aperto, ponteggi.

Piazza Gae Aulenti
Piazza Gae Aulenti

A Porta Nuova l’intuizione si palesa di fronte ai nostri occhi. Questo è il più grande cantiere urbano d’Europa, gli spiego. Ci sono gru ovunque. Alcuni edifici sono già terminati, nel “bosco verticale” di Boeri c’è già chi ci abita, altri sono ancora in fieri. Quello che manca a Porta Nuova è il parco al centro dell’area, che dovrebbe fare da cerniera e da polmone all’intero quartiere. A pochi passi da qui, gli spiego, c’è il nuovo Palazzo della Regione Lombardia che, al di là delle lecite polemiche, è un progetto architettonicamente ineccepibile. Ma gli architetti mica hanno sempre ragione. È la gente che decide dove andare. E i milanesi hanno adottato di slancio la piazza soprelevata dell’Unicredit Tower, architettura globalista e un po’ tamarra subito accolta nell’immaginario collettivo, per quella nostra tipica passione per la novità. Un quartiere così a Parigi l’hanno edificato alla Defénse, non a ridosso del centro storico. Quarant’anni prima e molto più lontano. Ma ogni città ha la sua storia.

Zona Ex Fiera
Zona Ex Fiera

Faccio fare a Bruno una lieve deviazione, lo porto in via Euripide, zona ex Fiera. Ammiro con lui la misura della case d’inizio Novecento, fra queste una di Ansnago e Vender. Ma lui è attratto da altro: “Cos’è quel transatlantico laggiù”, dice, sorpreso. Ecco, forse un quartiere che i milanesi non adotteranno mai credo sia quello delle residenze di Hadid e Libeskind. Non tanto per la qualità progettuale (a dir la verità bassa, le “archistar” qui hanno fatto da foglia di fico di una clamorosa operazione speculativa), non tanto per l’estraneità del carattere degli edifici al gusto meneghino (sembrano provenire direttamente da Miami beach), è per quell’aspetto di fortilizio impenetrabile, di comunità recintata che guarda con sospetto il resto della città.

Diverso, non ostante le sue contraddizioni, è il caso del Portello. Qui almeno il parco l’hanno realizzato. Quello di Jencks e Kipar è un bel progetto, con tanto di laghetto e colline artificiali fatte con i materiali di scavo del cantiere. Gli abitanti del quartiere che una volta ospitava l’Alfa Romeo l’hanno subito popolato. Gli faccio vedere le case di Cino Zucchi ma gli evito la magniloquente e spettrale Piazza Gino Valle. Poi tiriamo dritto, dentro il QT8, quartiere laboratorio degli anni Cinquanta. Lasciamo sulla destra il monte Stella, opera poetica di Piero Bottoni, tumulo delle macerie della seconda guerra mondiale, e ci dirigiamo verso Bonola, dove è stato costruito il primo centro commerciale di Milano. La città inizia a diradarsi.

via Cilea
via Cilea

Voglio fare vedere a Bruno il complesso residenziale “Monte Amiata”, in via Cilea. Estrema periferia per alcuni milanesi che non sono mai usciti dalla cerchia dei Navigli, in realtà a venti minuti di metropolitana da piazza del Duomo. C’è in questo gigantismo edificatorio tutta l’utopia dell’urbanistica pubblica degli anni Settanta. A molti non piace, io lo trovo bellissimo. Ha quarant’anni eppure resiste come un monumento che cerca di riprodurre un lacerto della complessità urbana in una periferia anomica: strade soprelevate, appartamenti duplex, cortili, anfiteatri, percorsi labirintici. E a contrappunto di tanto vociare architettonico c’è la nivea, dechirichiana stecca di Aldo Rossi. Yin e yang. Fu l’ultima stagione dove la cosa pubblica – la casa come diritto non solo come bisogno – era prioritaria nell’agenda dell’amministrazione comunale.

Abbiamo ripreso da pochi anni a costruire. Ma non si chiamano più “case popolari”, fa poco chic. Ora si dice social housing. Come il complesso dei Mab Arquitectura in fondo a via Gallarate, ai confini della città, piccolo progetto di buona fattura. O peggio, dico a Bruno, scesi dalla macchina di fronte ad un cantiere, quello che si sta costruendo qui, a Cascina Merlata. Piedi nel fango guardiamo le gru, gli operai, le ruspe. E le torri. Multicolori e kitsch. Della “misura milanese” ormai non c’è più traccia. “Dove mi hai portato” mi chiede, stupefatto. Qui verranno ospitati i 1300 delegati dei paesi che partecipano ad Expo 2015, gli spiego. Poi diventerà un quartiere residenziale. Social housing, of course. Se ti interessa da qui si può vedere il cantiere dell’Esposizione Universale. “Lascia stare” mi dice. “Ci torno il prossimo anno, mi conviene”.

Cascina Merlata
Cascina Merlata

(pubblicato su Dossier Milano, Corriere della Sera, il 13 dicembre 2014. Le pessime foto, fatte in un giorno incredibilmente grigio, sono mie)

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11 Commenti

  1. poi mi porti anche a me?
    (e forse riesci a convincermi che Milano è bella, in fondo sono un credulone)
    :))

  2. via del Sarto, e la viuzza Apollodoro, preferita da me e Francesca, ed esemplare dello sfascio di ALER: villette meravigliose e cadenti, il centro sociale occupato (o forse non più) Lambretta, un asilo nido privato, giardini abbandonati.

  3. Nell’articolo, sul Liberty, si parla del non finito di Palazzo Castiglioni. E’ un riferimento al fatto che in facciata mancano le statue delle “chiappone” che scatenarono l’ilarità del popolino (ben venga, senza di quella non avremmo la cà di ciapp appunto o il monument di tri ciucc in lazzaro papi per citarne uno)?

      • E comunque facevo (anche) riferimento alla fascia basamentale in pietra grezza, spettacolare per la sua tettonicità.

        • M’è capitato di recente di vedere la Ca’ brutta, nemmeno io so mettere la dieresi sulla u anche se mi viene spontanea. Un po’ voncia, purtroppo risente dell’inquinamento. Piccoli capolavori anche i palazzi di via serbelloni e cappuccini, con i fenicotteri a fare da colonna sonora. Il palazzo dell’Arata, all’angolo con via Vivaio, non so se ha un soprannome popolare, ma se lo meriterebbe visto che sembra disegnato da uno scienziato pazzo.

  4. Bellissima visione di Milano… Per me che ci sono nata e da anni non ci vivo più è un respiro di “aria di casa” che nemmeno conoscevo. Grazie! (P.S. A quando il prossimo Ispettore Ferraro?? :) )

  5. Bello!!!
    Milano è bellissima e folle.
    Un capitolo a parte meriterebbe il lombardo moresco neogotico del Maciacchini Carlo da Induno Olona nel suo Cimitero Monumentale con Famedio a mo’ di tempio massonico.
     

     
    E che dire dell’assiro milanese con punte wagneriane della Stazione Centrale dello Stacchini Ulisse da Firenze, ovvia?
     

     
    ,\\’

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gianni biondillo
gianni biondillo
GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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