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Identità, tragico, agnosticismo. I regni di Emmanuel Carrère

di Ornella Tajani

Guardando a buona parte della produzione di Emmanuel Carrère sembra di individuare due fils rouges: uno, tematico, è l’indagine sull’identità, l’affermazione sofferta di sé, l’empatia appassionata per i propri simili, il desiderio di essere un altro che sempre si eclissa davanti al compiacimento infinito di essere ciò che si è, con i limiti e i difetti che definiscono un carattere. Il talento di Carrère è ammirevole nella trasparenza con cui si rappresenta in continua negoziazione identitaria con se stesso, senza timore di apparire meschino quando si tratta di descrivere pensieri e abitudini che gli appartengono e che le convenzioni sociali condannerebbero ferocemente – e in questo modo avvicinandosi al lettore grazie a uno slancio di sincerità.
Il secondo filo rosso è la modalità narrativa che innerva varie sue opere: se un certo senso del tragico è piuttosto riconoscibile in La moustache o La classe de neige, in altre opere Carrère gioca con questo registro in maniera più sfumata, tessendo una dialettica di rimandi che a volte cadono nel vuoto, altre vengono recuperati a distanza di pagine. È il caso di L’Adversaire, che si apre, apparentemente, su una catastrofe già avvenuta, oppure di D’autres vies que la mienne, quasi una costellazione di microtragedie accompagnate dalla messa in scena di paure e incubi personali e collettivi. Con Carrère, però, la tragedia viene spesso interrotta o resta incompleta: fatta eccezione per La moustache, le altre opere che prenderò in considerazione si sottraggono a un reale compimento tragico, a un acme drammatico precisamente identificabile; la tragedia è sviata, nel momento più difficile la narrazione compie un salto temporale (Hors d’atteinte ?), che lascia il lettore ignaro del modo in cui il protagonista sia uscito dall’impasse, oppure il libro finisce prima che la vera tragedia abbia inizio (La classe de neige); o, ancora, il finale tragico che ci si aspetterebbe, e per il quale tutto sembra essere pronto, non arriva (L’Adversaire, Limonov).
L’incompiutezza del tragico in Carrère ha forse motivazioni autobiografiche legate all’origine della sua scrittura, che, come si intuisce in Un roman russe, muove in parte le mosse dalla scomparsa di un uomo: il nonno materno, georgiano ed emigrato in Francia, un individuo fuori dal comune, lacerato da velleità confuse e tormentato dallo spettro del fallimento (a cui l’autore sente di somigliare), fu collaborazionista durante la guerra e sparì nel nulla dopo la liberazione. Sua figlia – madre dello scrittore, celebre russista e segretaria dell’Académie Française – ha sempre imposto alla famiglia un rigido silenzio sulla vicenda. Carrère cresce in un ambiente su cui incombe un mistero innominabile, una vergogna da nascondere, un gigantesco non detto che contiene una reale ignoranza sul come siano andate le cose: a me sembra che qui risieda uno dei principali focolai della sua attività di scrittore. Animato dal desiderio di sciogliere un mistero familiare denso di conseguenze, l’autore finisce col sentirsi attratto da tragedie “strozzate”, che si articolano intorno a un vuoto e che dunque gli ricordano la sua. Grazie alla stesura di Un roman russe, Carrère racconta di essere riuscito a liberarsi di quella volpe che per anni gli ha «divorato le viscere»; nelle opere successive, però, il registro tragico non viene abbandonato, bensì è usato per rimodulare letterariamente una tensione inesplosa. Sia in D’autres vies que la mienne, sia in Limonov, l’autore si muove dentro esistenze altrui, trovando sempre lo spazio – e, in realtà, l’urgenza – di parlare anche di sé: ogni ritratto è un confronto, ogni storia un dialogo. E, come un equilibrista sul ciglio del burrone, Carrère riesce a infondere alla narrazione delle venature di tragico, manipolandolo, procedendo per salti, senza mai precipitare, ribadendo in qualche modo che, se la catastrofe è stata superata o scansata, non tutto è stato ancora archiviato.

Una ricognizione

La moustache riecheggia da subito nasi e scarafaggi di consacrata memoria letteraria: un mattino il protagonista si sveglia e decide d’improvviso di tagliarsi i baffi che da anni gli coprono il labbro. Pochi minuti dopo, davanti al suo nuovo volto rasato, la moglie non mostra alcuno stupore, dal momento che lui non ha mai portato i baffi. La spirale della follia comincia per gioco, mentre si è seduti in una vasca da bagno e ci si sorride guardandosi allo specchio, e rapidamente conduce a schermaglie di sospetti laceranti, prima coniugali, poi introspettivi. Chissà se Carrère era memore del frammento di Henri Michaux dal titolo On veut voler mon nom (Vogliono rubarmi il nome), in cui l’io narrante si scopre tre denti d’oro in bocca, «lui che non è mai andato dal dentista»; per Michaux, in quel caso, la soluzione dell’apparente enigma era evidente, qualcuno voleva «farlo dubitare di se stesso». La moustache, come è indicato già in quarta di copertina, «finit forcément très mal»: il piacere della lettura risiede nello scoprire in quale modo, e la tragicità, come sottolinea Peter Szondi nel Saggio sul tragico, si compie nel momento in cui l’uomo soccombe percorrendo proprio la strada che ha imboccato per sottrarsi al proprio declino.
Anche in Hors d’atteinte ? e La classe de neige la questione dell’identità è indagata in terza persona. Il primo romanzo, orchestrato intorno alla seduzione del gioco d’azzardo, contiene un prodigioso ritratto di coppia parigina separata e bobo: dalle schermaglie iniziali tra i due protagonisti – che fanno a gara nel mostrarsi anticonvenzionali – fino alle gite segrete di lei verso i casinò, paradigma trasparente della fuga dalla quotidianità, la questione dell’autorappresentazione emerge ripetutamente, anche attraverso riflessioni sul linguaggio usato dai due personaggi principali, che in questo modo diventa elemento di caratterizzazione sociale. La classe de neige è invece un racconto che ha per protagonista un ragazzino troppo giovane per affrontare un’interrogazione consapevole su se stesso. Così, il conflitto identitario è mediato dalla figura paterna: in gita sulla neve con i compagni di scuola, Nicolas mente sulla professione del padre per rendersi più interessante agli occhi del capo del gruppo; l’attività lavorativa da lui inventata si fa diretto motivo di vanto personale. Che su Nicolas incomba una minaccia è chiaro sin dalle prime righe: «Plus tard, longtemps, jusqu’à maintenant, Nicolas essaya de se rappeler les dernières paroles que lui avait adressées son père». Plus tard, longtemps, jusqu’à maintenant: quello che sta per succedere segnerà Nicolas per tutta la vita. Laddove nel finale di Hors d’atteinte ? si assisteva a un salto temporale che lasciava il lettore ignaro sul come la protagonista fosse riuscita a uscire da una situazione sans issue, La classe de neige si conclude un attimo prima che si apra, letteralmente, la porta della tragedia, un attimo prima che il ragazzino si ritrovi dinnanzi alla madre in lacrime, alla verità sul padre: Carrère trova di nuovo una strategia per sottrarsi alla descrizione del picco tragico, ma intanto ha raccontato straordinariamente tutto ciò che porta Nicolas fino alle ultime pagine, davanti a una porta che mette fine e al contempo dà inizio. La tensione del racconto è indubbiamente tragica, e la narrazione converge in moto accelerato verso la fine.
Nei successivi L’Adversaire, Un roman russe e D’autres vies que la mienne la voce del Carrère autore e narratore si impone. La prima opera trae spunto da un fatto di cronaca: nel 1999, Jean-Claude Romand uccide sua moglie, i figli, i genitori e il proprio cane e tenta, in modo forse poco convinto, di suicidarsi. È la conseguenza di una bugia durata diciotto anni: Romand aveva fatto credere alla famiglia di essere un medico affermato, laddove trascorreva le giornate in giro fra boschi e piazzole di servizio, aspettando che si facesse ora di tornare a casa. Interrogandosi sui motivi che possono muovere a mentire sulla propria identità, l’autore conduce una sorta di inchiesta personale articolandola su due binari paralleli: da un lato, l’indagine sulla figura di Romand, cui Carrère non sa se attribuire lo status di eroe tragico intrappolato nella propria tragedia, o piuttosto quello di individuo che ha agito nel pieno del suo libero arbitrio; dall’altro, un’interrogazione sui motivi dell’attrazione che questa vicenda, caratterizzata nuovamente da un finale incompiuto, suscita in lui. Romand non si uccide, né lo vediamo condannato a una vita di laceranti sensi di colpa; sembra che si penta in maniera “equilibrata”. Anche stavolta nessun crescendo indica una direzione piuttosto che un’altra, l’ago della bilancia resta incerto fino all’ultima frase dell’autore: «J’ai pensé qu’écrire cette histoire ne pouvait être qu’un crime ou une prière».
Se già in L’Adversaire l’autore ha raccontato i fatti adottando una focalizzazione interna, è soprattutto nelle due opere successive che il motivo autobiografico diventa centrale all’interno della narrazione. Un roman russe, per ammissione stessa di Carrère, è un’opera-liberazione: ossessioni, incubi e fantasmi personali accompagnano l’autore in un viaggio alla ricerca delle proprie origini, verso un mistero familiare mai realmente scandagliato. La messa in discussione e ridefinizione di sé sono al centro del romanzo, anche grazie all’analisi del suo rapporto con la compagna Sophie – una compagna che pure ama, ma alla quale tutto quello che riesce a dire sembra risolversi in un contorto e telenovelistico «Je te demande de me croire, mais ne me crois pas, je te mens».
Di nuovo la lingua è un elemento identitario potente: la ricostruzione del passato s’interseca per Carrère con il recupero della conoscenza del russo, imparato da bambino e in seguito parzialmente dimenticato; la confusione linguistica è sineddoche della vaghezza in cui affondano le sue radici biografiche, la difficoltà nel recuperare il russo è analogica a quella di riavvicinarsi al proprio dramma. Qui l’autore incastona un mistero nell’altro, a mo’ di matrioske, e nel finale crea una giustapposizione drammatica di eventi: il suicidio del cugino, la madre che piange al cinema, la proposta di matrimonio a Sophie, che si trasforma in una scena mostruosa. Il proprio dramma sentimentale insegue l’autore anche nelle pagine dei ripetuti viaggi in Russia: eppure a un certo punto del romanzo veniamo a sapere che, quale che sia l’epilogo, oggi, cioè nel momento in cui scrive, l’autore è sereno con un’altra donna, il che cancella istantaneamente il dubbio tragico sulla vicenda.
Il riflettore, in ogni caso, è puntato sul mistero familiare della scomparsa del nonno, più che sulle difficoltà d’un amore. Un roman russe è un congedo dalla tragedia irrisolta ricevuta in eredità dalla madre; il romanzo non la risolve, ma l’autore riesce a voltare pagina. A mio avviso, però, la sua attrazione congenita per questo tipo di storie, caratterizzate da un’incompiutezza del tragico, non scompare dai suoi libri, ma si riplasma in forme diverse: anche quando non è lui il protagonista, il suo interesse lo porta verso personaggi che hanno storie simili alla sua, e il suo talento nel raccontarle sta proprio – lui stesso vi fa cenno più volte – nella capacità di immedesimazione, nell’affinità elettiva che ricrea con i suoi protagonisti.
È ciò che accade ad esempio in D’autres vies que la mienne, che racchiude l’indagine identitaria già nel titolo, per antifrasi: raccontando le vite degli altri, Carrère trova il modo di continuare a interrogarsi su se stesso, di proseguire la narrazione dopo la crisi personale superata con la stesura di Un roman russe e di descrivere il suo modo di riuscire a raggiungere quella che, come l’autore ricorda, Freud definisce «salute mentale»: la capacità di amare e di lavorare. In questo libro è come se Carrère si ritrovasse in una condizione splendidamente descritta in una poesia di Patrizia Cavalli: «Perché ho quest’infallibile certezza/quando voglio raggiungere il mio male,/mentre per il mio bene non ho idea/non ho nessuna idea su cosa fare?». Quello che Carrère fa è aprire il racconto parlando di come lui e la sua famiglia siano stati risparmiati dallo tsunami del 2004 in Sri Lanka, dove si trovavano in vacanza (ancora una tragedia scampata). Dopo il rientro a Parigi, la narrazione sposta l’obiettivo su Étienne e Juliette, un uomo e una donna che hanno entrambi affrontato il cancro; lui sopravvive, lei muore nel corso del libro. Eppure Étienne è un personaggio dal carisma e dalla positività fuori dal comune, e il marito di Juliette, Patrice, non soccombe alla propria tragedia personale e affronta il lutto in maniera esemplare nella sua spontaneità. Una scena lo dimostra meglio di altre: di ritorno da scuola con le figlie, passando davanti al cimitero, Patrice con un sorriso propone: «On va faire un petit coucou à maman ?» – una frase straordinaria perché, nel suo essere identica a quella che Patrice avrebbe potuto dire qualora la moglie fosse stata in vita e lui e le bambine stessero passando davanti al suo ufficio, rappresenta un ponte tra la vita e la morte; e, se la tragedia è la morte dentro la vita, allora si tratta di una frase intrinsecamente antitragica. Anche in D’autres vies que la mienne, dunque, si ha l’impressione che il posto di Carrère sia al centro del vortice tragico, così vicino da sfiorarlo, eppur finendo sempre con l’uscirne dolorosamente illeso.
Infine, Limonov: fin dalla quarta di copertina, che è un estratto del romanzo, l’autore sottolinea il polimorfismo di un personaggio sempre in bilico tra la gloria e il fallimento, tra l’eroismo e la meschinità. Per Carrère il ritratto di un personaggio porta spesso a un confronto diretto: in questo caso, l’“unicità” di Limonov gli ricorda intimamente la sua. Limonov si sente un eroe: poco importa che lo sia o meno, ciò che conta è che Carrère, con le dovute precauzioni, attinga per dipingerlo al calamaio della leggenda. Nelle ultime pagine l’autore, discutendo con suo figlio, mostra una certa esitazione sul finale da adottare per la sua biofiction – nella realtà Limonov è ancora vivo ed è ora a capo di un partito politico «de jeunes desperados», Carrère dixit. Il figlio dell’autore intuisce subito che il padre desidererebbe una fine tragica per il suo protagonista, un suicidio, o un omicidio politico; «Tu devrais dire à ta mère d’en parler à Poutine», lo provoca. È così, infatti, e l’autore parzialmente lo ammette. Per uno scrittore che si è sentito più volte sull’orlo del precipizio, e di questa esperienza ha fatto oggetto di scrittura, è difficile rinunciare all’attrazione per l’estremo, al pathos che l’immedesimazione con l’eroe tragico consente di instillare nell’opera – per quanto si tratti di un tragico interrotto o variamente manipolato.
È difficile, insomma, mantenere l’abituale e lucida tensione narrativa una volta abbandonato il regno del tragico ed essersi avventurato in terre lontane, abitate da personaggi in cui è molto più arduo identificarsi, non foss’altro che per una distanza difficile da colmare: è quello che si vede chiaramente nella sua ultima opera, che si intitola proprio Le Royaume.

Le Royaume

La miglior condizione per scrivere la storia di una religione è quella di chi, un tempo credente, non crede più: ad averlo detto sembra sia stato Ernest Renan, autore di una celebre Vita di Gesù, che in questo ritratto si rispecchiava. Carrère sposa il suo punto di vista e con Le Royaume, uscito in Francia a fine agosto e in corso di traduzione presso Adelphi, si lancia in quella che lui definisce un’inchiesta storica sulle origini del Cristianesimo: Paolo di Tarso e Luca evangelista ne sono i due principali protagonisti. Com’è possibile che milioni di persone abbiano creduto e credano a storie così difficilmente credibili come moltiplicazioni di pani, concezioni immacolate, resurrezioni? Questa è la domanda iniziale, che Carrère si sente legittimato a porsi in quanto ex credente.
La primissima parte del romanzo è l’unica a essere incentrata sull’autore e si intitola emblematicamente “une crise”: la crisi è la fase religiosa che Carrère ha vissuto e che racconta in circa un centinaio delle oltre seicento pagine complessive. Lo vediamo che va a messa tutti i giorni, commenta il vangelo sui suoi quaderni, oppure si ritrova a dover fare i conti – in una scena piuttosto memorabile, al cospetto della sua psicanalista – con il complesso rapporto tra religione e psicanalisi. Quella che lui definisce “crisi” è destinata a terminare dopo circa tre anni – “per fortuna”, sottolinea più di una volta l’autore. Qui è il primo limite del romanzo, a mio avviso: se è vero che si può parlare della fede senza essere credenti, come si fa a parlarne covando dentro di sé il desiderio di riaffermare continuamente che credenti non lo si è più – “per fortuna”? Il compiacimento dello scettico emerge già nella prima parte del libro – che pure tenta di dimostrare un’indulgenza verso il periodo cattolico della sua vita – e successivamente si impone.
Quello che ci si sarebbe aspettati da Carrère, dal suo funambolismo introspettivo, era il racconto dell’agnostico che a tratti vacilla davanti alla irraggiungibile certezza del credente; di questi vacillamenti l’autore parla invece in modo sommario, sempre con un certo distacco, forse perché proprio all’agnostico (non all’ateo) quel tipo di certezza può risultare orticante. Il seguito del libro è composto di ricostruzioni storiche dei viaggi di Paolo e Luca, del loro incontro, del racconto di come si arrivi a fondare una chiesa, dei rapporti con i vari rabbini: tutto ciò è accuratamente documentato, e diversi interessanti episodi della prima cristianità sono poco conosciuti. Carrère sostiene che questa narrazione lo affascini, perché lo intriga che la gente creda in Cristo; lui non ci crede, ma non per questo vuol sentirsi più scaltro degli altri. Così, la tensione fra lo scrittore coscienzioso e l’intellettuale narcisista – per il quale il lusso più eccentrico non può che essere l’umiltà (dell’agnostico davanti alla fede, in questo caso) – crea una spaccatura che restituisce un romanzo sfilacciato. Il racconto storico appare scollegato dalle intenzioni autoriali e prende la forma di una serie di zolle narrative galleggianti, inframezzate da commenti dallo humour opinabile e accompagnate da un linguaggio spesso banalizzante. Inoltre, la scrupolosità documentaristica provoca a tratti un effetto di ridondanza. Ciclicamente l’autore si ritrova a condividere con il lettore i propri dubbi: sto facendo bene a scrivere questo romanzo? Forse è inutile scriverlo se non ho più fede? Non sarà meglio che parli di me?
Dubbi più che legittimi. Per un virtuoso dell’introspezione, della corrente autobiografico-nombriliste, le strade del successo sono due: parlare di sé («pour parler de moi, on peut toujours me faire confiance», ribadisce anche in quest’opera), oppure parlare di personaggi ai quali sente di somigliare, cui lo lega un’empatia viscerale. In Le Royaume, invece, i tentativi dell’autore di riconoscersi in questo o quell’atteggiamento di Paolo o Luca appaiono piuttosto ingenui: forse perché la distanza spazio-temporale è tale da impedire un’efficace immedesimazione; o forse perché i suoi slanci d’empatia sono sempre radicalmente frenati dall’antipatia intellettual-estetica per il credente che è stato. L’inchiesta che Carrère si propone è quindi fallimentare in partenza: andare alla ricerca del segreto della fede, rinnegando strenuamente la fede che ha sentito in passato, significa cercare qualcosa che non si ha nessuna voglia di trovare, che quasi si teme di ritrovare.
Nelle ultime pagine l’autore manifesta nuovamente il tormentoso dubbio di non essere riuscito a dire l’essenziale e dichiara che probabilmente l’unico modo per scongiurare questo rischio sarebbe stato quello di farsi credente, cosa che com’è ovvio non voleva né poteva fare. Io non penso che sia così, anzi ritengo che avesse ragione Renan, quando scriveva che quella di ex credente è una buona posizione per parlare della religione – a patto però di trovare il giusto equilibrio tra il rispetto per quel che un tempo si è creduto e le convinzioni cui in seguito si è approdati. Carrère non ci riesce e, nell’ultimo paragrafo del libro, da giocoliere dell’ambiguità quale è, sembra anche che lo ammetta: «Je me demande […] si [ce livre] trahit le jeune homme que j’ai été, et le Seigneur auquel il a cru, ou s’il leur est resté, à sa façon, fidèle. Je ne sais pas». Nel momento in cui dichiara di aver scritto Le Royaume «in buona fede», eppure con “l’ingombro” della sua intelligenza e del suo successo, si direbbe proprio che sì, sia andato «fuori strada»; o invece sta mentendo, per autoconvincersi e convincere il lettore della sua sincerità: «Je te demande de me croire, mais ne me crois pas, je te mens». Qui forse finalmente lo riconosceremmo.

Edizioni e traduzioni

La moustache, P.O.L., 1986 – I baffi, trad. it. di Graziella Civiletti, Bompiani, 1990
Hors d’atteinte ?, P.O.L., 1988 – Fuori tiro, trad. it. di Antonella Viola, Theoria, 1989
La classe de neige, P.O.L., 1995 – La settimana bianca, Einaudi 1996 (trad. it. di Paola Gallo) e Adelphi 2014 (trad. it. di Maurizia Balmelli)
L’Adversaire, P.O.L., 2000 – L’Avversario, trad. it. di Eliana Vicari Fabris, Einaudi, 2000 e Adelphi, 2013
Un roman russe, P.O.L., 2007 – La vita come un romanzo russo, trad. it. di Margherita Botto, Einaudi, 2009
D’autres vies que la mienne, P.O.L., 2009 – Vite che non sono la mia, trad. it. di Maurizia Balmelli, Einaudi, 2011
Limonov, P.O.L., 2011 – Limonov, trad. it. di Francesco Bergamasco, Adelphi, 2012
Le Royaume, P.O.L., 2014

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8 Commenti

  1. Grazie Ornella di questo bel saggio, che tra l’altro mi ha dato molta voglia di leggere “Royaume”.
    Un punto:
    “Com’è possibile che milioni di persone abbiano creduto e credano a storie così difficilmente credibili come moltiplicazioni di pani, concezioni immacolate, resurrezioni? Questa è la domanda iniziale, che Carrère si sente legittimato a porsi in quanto ex credente.”
    A me sembra una domanda del tutto legittima anche per uno che non è mai stato credente, ateo o agonostico che sia. Credo che uno storico della scienza contemporaneo possa essere non solo legittimato, ma appassionato dalla ricerca riguardanti le vie attraverso cui si è costruita la visione geocentrica del cosmo.

    • Certamente, è legittima per tutti. Intendevo sottolineare che è Carrère stesso ad attribuire al suo status di ex credente un valore aggiunto ai fini dell’indagine che si propone; invece la sua passata esperienza religiosa mi sembra che finisca col trasformarsi in un punto debole, piuttosto che in un punto di forza, per i motivi detti.
      Mi dirai che ne pensi del libro.

  2. Grazie per quest’analisi, Ornella. Risponde a molti quesiti che mi ponevo rispetto alla sensazione di instabilità che ho provato leggendo l’Avversario (su cui mi era sembrato di cadere e di non trovare il fondo). Libro che ho trovato bellissimo e che contemporaneamente mi lasciava quel senso di incompiutezza, di irrisolto, come se ci fosse un seguito fuori-libro, altrove, o da cercare dentro – o da non cercare affatto. Mi chiedevo: dove, quando dirà dei giorni in cui l’uomo vagava solitario, delle uscite bugiarde, del tempo trascorso nel vuoto dei boschi accennato nelle prime pagine? Del dopo. Non arrivava, e quel non arrivare in realtà ne potenziava gli effetti (cosa che il film, che mi è capitato di vedere recentemente, non riesce affatto a riprodurre : dove il film ha reso tragica e finita (finta?) ogni scena, il libro mi è sembrato operare all’opposto, in uno stato di sospensione). Come tu scrivi : “l’ago della bilancia resta incerto fino all’ultima pagina”.

    • Sì, Mariasole, è un libro scivoloso, difficilmente contenibile per le questioni che affronta; penso sia lì la sua bellezza. Non ho visto il film, invece, ma non mi stupisce che risulti più “netto”, tematicamente e formalmente. Difficile rendere la continua esitazione dell’autore davanti alla formulazione di un giudizio definitivo sul personaggio («Dans sa langue de bois catholique, je le trouvais, lui, réellement mystérieux. Au sens mathématique : indécidable» cit.)

  3. Le royaume è sulla mia tavola, in compania di Silvia Plath la mia passione.
    Ho letto la prima parte, ritrovando la quête du je.
    In particolare le je de l’écrivain.
    La margine bianca
    Lo spazio vuoto
    L’assenza del scrivere.
    Una depression della scrittura.

    Romanzo dell’inquietudine.

    Emmanuel Carèrre racconta come la religione cattolica fu salvatrice.
    Fu un nuovo viaggio nella scrittura.

    Una scrittura occupazione spartana.

    Mi piace la sua autodérision.

    Ho abbandonato il romanzo, quando sono arrivata alla vita di Luc.

    Non ho l’anima religiosa spiega l’abbandono del romanzo.

    Preferisco l’identità russa di Emmanuel Carrère.
    Ma forse raggiunge una questione che mi incanta:

    lingua straniera e letteratura, malinconia e ebbrezza
    folia poetica.

  4. Alla fine la sensazione che mi resta è quella di una specie di Gervaso-Montanelli francese. Una cosa tipo Prezzolini, insomma, peró senza il provincialismo o il caampanilismo. Abbassare tutto alla propria altezza di ultimo uomo nietzschardo o nietzschoso (non so bene come si scrive) o elevare tutto alla propria bassezza, se vogliamo, mi sembra il risultato dell’opera(zione). Lo ho letto con piacere.
    genseki

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ornella tajani
Ornella Tajani insegna Lingua e traduzione francese all'Università per Stranieri di Siena. Si occupa prevalentemente di studi di traduzione e di letteratura francese del XX secolo. È autrice dei libri Tradurre il pastiche (Mucchi, 2018) e Après Berman. Des études de cas pour une critique des traductions littéraires (ETS, 2021). Ha tradotto, fra vari autori, le Opere di Rimbaud per Marsilio (2019), e curato i volumi: Il battello ebbro (Mucchi, 2019); L'aquila a due teste di Jean Cocteau (Marchese 2011 - premio di traduzione Monselice "Leone Traverso" 2012); Tiresia di Marcel Jouhandeau (Marchese 2013). Oltre alle pubblicazioni abituali, per Nazione Indiana cura la rubrica Mots-clés, aperta ai contributi di lettori e lettrici.
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