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Leggere i romanzi

di Giuseppe Zucco

legge

Lei allora leggeva a lui un estratto del suo nuovo romanzo
Lei allora leggeva il proprio estratto, e nell’estratto c’era un uomo, un uomo seduto a un tavolino, un uomo seduto a un tavolino di un bar, fuori, all’aperto, in mezzo a altri tavolini vuoti, tavolini e sedie di alluminio su cui la luce si smaterializzava in puntini e bagliori, mentre aspettava che il cameriere arrivasse con il suo caffè.

L’uomo, per ingannare il tempo, come faceva sempre, cercando di non farsi vedere (il piacere stava proprio nel farlo in pubblico, senza che nessuno lo fotografasse) (postando la foto su un qualche social network) (e additandolo), metteva le dita nel naso, passava in rassegna quelle cavità umide, se ne veniva fuori con piccole pepite di un verdino trasparente, scaglie (ora secche) (ora molli) (ora viscose) che l’uomo levigava e arrotondava con pazienza tra i polpastrelli fino a quando, le scaglie, di una rotondità perfetta, non erano pronte per affrontare il mondo con una spinta decisa, un colpetto tra pollice e indice. Il caffè ancora non arrivava, allora l’uomo tornava su, con le dita nel naso. Sempre senza farsi vedere, ma con cura e metodo, esplorava tutti i recessi cercando un nuovo (esaltante) (esaltante perché nascosto ai più) filone aurifero. L’uomo non era raffreddato, non si aspettava di trovare chissà che, procedeva comunque, con il mignolo, adattandosi alle cavità e sperando di avere fortuna. L’uomo si avventurava, esplorava e rovistava, ogni avanzamento era dettato dal fallimento di quello precedente – e in quelle condizioni, qualcosa, qualcosa di inaspettato, attirava la sua attenzione. Poi il cameriere arrivava, posava il caffè sul tavolino, e l’uomo smetteva la ricerca, ringraziando con gentilezza. Ma la sensazione era stata così rara (rara era la parola adatta) che l’uomo tornava con le dita nel naso. Un cordino, pensava l’uomo, oppure no. L’uomo premeva con il mignolo su quella cosa e la spingeva fuori. Appena fuori dalle narice, l’uomo prendeva la cosa tra le dita e tirava giù. Non era un cordino, ma l’inizio di un nastro, un nastro rosso, il nastro che, con due giri e il fiocco in cima, stringeva di solito la carta regalo intorno alle torte o ai pasticcini. L’uomo teneva il nastro tra le dita e tirava giù. L’uomo tirava tanto che alla fine un dolore, un dolore lancinante, gli causava insieme la chiusura degli occhi, la perdita di respiro, un mancamento (quasi). Era come se qualcosa gli si fosse strappata dentro la calotta cranica, e il dolore era tale che l’uomo non poteva fare altro che tirare il nastro, sperando che il dolore passasse. L’uomo dava un altro strappo, strappo seguito dalla sensazione che qualcosa scendesse dall’interno della calotta cranica verso la narice, sensazione confermata dall’ingrossamento e dall’ostruzione della narice sinistra da cui usciva il nastro, come se al suo interno si trovasse un corpo estraneo che impediva il passaggio dell’aria. Il dolore, non più lancinante, ma insostenibile, deformava i linea-menti dell’uomo. Le lacrime gli rigavano le guance, e l’uomo tirava il nastro non sapendo come evitare quel dolore. L’uomo girava il nastro rosso intorno all’indice – chiudeva gli occhi, tirava. E così, con uno strappo definitivo, l’uomo sentiva prima uno schiocco, poi la narice libera e la fine di quel-lo strazio. L’uomo apriva gli occhi. Sul tavolino, accanto alla tazzina del caffè, c’era una donna, una donna alta come un indice, con un vestito rosso, le scarpe rosse, il nastro rosso legato con un nodo intorno alla caviglia. La donna, sebbene in miniatura, era identica a quella di cui l’uomo si era perdutamente innamorato ai tempi dell’università e che poi, di fronte alla sua irrevocabile fermezza nel non corrispondere quel sentimento (anche se non aveva mai capito il motivo) (motivo non del tutto chiaro perfino alla donna) (erano troppo simili e intimamente legati per fare due vite distinte), aveva perso di vista. L’uomo si asciugava le lacrime, si ricomponeva, strofinava le mani sui pantaloni. Era stato il suo primo vero amore, ricordava – non sapendo cosa altro fare, l’uomo guardava la donna in miniatura sul tavolino. Non era cambiata per niente dall’ultima volta. Aveva perfino lo stesso vesti-to. Alla fine l’uomo le diceva ciao, ciao come stai, e in quel modo aspettava che lei dicesse una cosa qualsiasi.

*****

Lui allora leggeva a lei un estratto del suo nuovo romanzo

Lui allora leggeva il proprio estratto, e nell’estratto c’era una donna, una donna seduta sul terzo gradino in alto di un’ampia scalinata di pietra, una donna seduta sulla pietra con un enorme palazzo ottocentesco alle spalle e davanti una piazza esposta alla luce, un rettangolo di luce chiarissima ac-cerchiato dalla corsa delle macchine e dei motorini. La donna non aveva seguito i colleghi, non era andata con loro in pausa pranzo. Aveva preferito trovare un posto pulito, illuminato bene, mangiare una mela, e leggere alcune pagine di un libro. Non c’era nient’altro che la distendesse come leggere un libro, e così la donna ne teneva sempre uno in borsa, anche perché odiava i momenti vuoti (cioè, “i momenti morti”, come li chiamava) (la vita era una e una sola, andava sfruttata in ogni circostanza) (anche se era una fatica sfruttare ogni momento) (non rilassarsi mai) (presto però la fatica dive-niva un’abitudine) (e l’abitudine, a sua volta, causa di ordine interiore e distensione). La donna leggeva un libro di Clarice Lispector, e si mordeva le labbra. La donna si mordeva le labbra da quando era bambina. Conosceva alla perfezione i punti in cui mordere meglio. Secondo i momenti teneva la parte centrale del labbro inferiore tra gli incisivi o l’angolo a destra del labbro inferiore tra i canini. Stringeva appena i denti, affondava appena i denti nel labbro inferiore, e poi con estremo piacere liberava la carne solo per tornarci ancora su. Ma ora, sfogliando una pagina, e mordendosi le labbra (le labbra rosa) (morbide) (e lucide), aveva avvertito qualcosa. La donna aveva avuto la sensazione che nel labbro, nel labbro inferiore, fosse presente una parte più dura. La donna mordeva le labbra, e scopriva la parte dura, e questo le faceva posare il libro sul gradino di pietra. La donna stringeva con l’indice e il pollice il labbro inferiore – e la sensazione che sottopelle ci fosse qualcosa non svaniva affatto. Un nodulo, pensava la donna, oppure no. Anche se la donna immaginava che un nodulo avesse una forma sferica e si nascondesse da qualche parte nella profondità della carne, mentre il suo, la parte dura, sembrava allungato e neanche così lontano dalla superficie delle labbra. La donna guardava la piazza, le ombre nere della gente che attraversava la piazza. La donna stringeva la parte dura (tra i denti) (tra le dita) e aveva paura. Però stringeva i denti sulla parte dura, li affondava giù. I denti incontravano quella resistenza, spingeva a fondo. Sentiva il sapore del sangue. Sputava piccoli puntini rossi sul gradino di pietra, e andava più giù. Aveva rotto la carne, si era procurata un taglio sulle labbra – non lo aveva deciso, lo aveva semplicemente fatto, e ora tamponava la ferita con un fazzolettino di carta che aveva preso dalla borsa. Levava la carta, stringeva la parte centrale del labbro inferiore tra le dita. La donna stringeva, qualcosa si muoveva dentro. La più piccola oscillazione di quel corpo estraneo la irrigidiva per il dolore. La donna stringeva i denti sotto la parte dura, con i denti la spingeva verso la superficie. Stringeva i denti più che altro per il dolore, ma sentiva la parte dura risalire la carne. Aveva le lacrime. Le tremavano le spalle. I lineamenti del viso si contraevano al di là della sua volontà. Tutto il viso era sbiancato e ripiegato sulle labbra insanguinate – la parte dura affiorava in mezzo al taglio delle labbra. La donna stringeva per come poteva quella cosa tra le dita e urlava e la tirava via con uno strappo. La donna apriva gli occhi dopo che il dolore li aveva serrati. Sul palmo insanguinato della mano c’era una piccola capsula di metallo. La donna (incredula) (incredula e angosciata) asciugava le mani e la capsula sulla gonna. La capsula era fatta per a-prirsi – la donna la apriva, e dentro, nella capsula di metallo, c’era un bigliettino di carta arrotolato. La donna srotolava il bigliettino. Sul bigliettino, in caratteri appena leggibili, c’era scritto il nome di quella piazza. C’era scritta un’ora. C’era scritto ci vediamo qui, a quest’ora, tra sette anni in punto. Il bigliettino era firmato da un uomo che la amava senza condizioni (ma di cui lei, fino allora, seb-bene lo cercasse e lo volesse al suo fianco, non aveva capito o aveva finto di non capire se l’amava o meno) (se le mancava o meno) (se per lei, nella vita, era decisivo o meno). Così la donna leggeva il bigliettino, e tutto quello che capiva era che quell’uomo la stava lasciando. La donna prendeva la borsa e correva per i gradini. Correva per i gradini e tagliava la piazza in due. Attraversava la strada di corsa nonostante le macchine e i motorini. La speranza (anche se quella parola le sembrava perdere senso ogni passo di più) era che l’uomo si trovasse come ogni giorno al solito posto.

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helena janeczek
Helena Janeczek è nata na Monaco di Baviera in una famiglia ebreo-polacca, vive in Italia da trentacinque anni. Dopo aver esordito con un libro di poesie edito da Suhrkamp, ha scelto l’italiano come lingua letteraria per opere di narrativa che spesso indagano il rapporto con la memoria storica del secolo passato. È autrice di Lezioni di tenebra (Mondadori, 1997, Guanda, 2011), Cibo (Mondadori, 2002), Le rondini di Montecassino (Guanda, 2010), che hanno vinto numerosi premi come il Premio Bagutta Opera Prima e il Premio Napoli. Co-organizza il festival letterario “SI-Scrittrici Insieme” a Somma Lombardo (VA). Il suo ultimo romanzo, La ragazza con la Leica (2017, Guanda) è stato finalista al Premio Campiello e ha vinto il Premio Bagutta e il Premio Strega 2018. Sin dalla nascita del blog, fa parte di Nazione Indiana.
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