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Al parco

di Elisabetta Scantamburlo

al parco

Avevo una cotta per Gabriele, il ragazzo dai capelli rossi della classe vicina alla mia. Anche Valentina, mia compagna di classe, aveva una cotta per lui. Nessuna di noi due lo ammetteva, ma entrambe lo sapevamo. Quel pomeriggio di inizio maggio le nostre due classi avevano organizzato un incontro di pallavolo al parco. Ecco l’occasione per parlargli, per ridere insieme, per piacergli. L’occasione per capire chi di noi due avrebbe avuto la meglio alla resa dei conti. Avevo messo la maglietta più carina, il pantaloncino corto, ma non troppo, avevo fatto la coda di cavallo che mi stava tanto bene, diceva la mamma, e che non portai più. Ero pronta a volare al parco, già la porta di casa alle mie spalle. Se esci ti porti tuo fratello. La voce di mamma. Non feci in tempo a dire ‘a’. Alla mia espressione sconsolatamente ribelle, mia madre rispose con il suo solito sguardo deciso e risoluto, un verdetto senza possibilità di appello. Affrettavo il passo verso il parco, la coda che sbatteva a destra e sinistra, trascinando per la mano il mio fratellino.
Il parco era più verde del solito, l’estate sembrava appena esplosa, in anticipo. I rami alti e imbottiti di foglie erano un muro soffice che separava all’improvviso la città di macchine e palazzi da una tavolozza fatta di verdi di tutte le tonalità, che diventava di volta in volta per i suoi piccoli visitatori una savana per la caccia, una foresta selvaggia che nascondeva tesori da svelare, una palude da cui i pirati erano fuggiti abbandonando una barca. Bambini giocavano a rincorrersi, mentre le mamme sedute parlottavano accavallando le gambe sulle panchine verdi. Altri bambini salivano e scendevano dal trenino, coppiette contavano i fili d’erba, adulti solitari correvano per i viali, il solito vecchio del chioschetto vendeva gelati e bibite fresche. Tutto era sempre lo stesso, una girandola di colori, un ciclo di vita che proseguiva identico a se stesso e che dava sicurezza. Vicino al chiosco stavano i miei compagni. Tra tutti, eccola la testa di lui, spiccava come se illuminata dall’alto, di un rosso bellissimo. Lei invece, Valentina, non c’è ancora. Non potevo perdere l’occasione e mi avvicinai con la timida speranza di potergli parlare. Mio fratello mi tirava il braccio, voleva salire sulle giostre. I giochi per bambini si trovavano dall’altro lato del chiosco, non così vicini, ma facilmente visibili. Gli dissi di sì, che poteva andare, e di stare attento. Poi mi giro. E poi lui che mi chiede se è mio fratello. E noi che iniziamo a parlare e forse io che arrossisco un po’ all’inizio. E io che più per l’imbarazzo che per la responsabilità mi giro alla terza parola, verso il fratello che corre verso le giostre. Poi alla decima. E mio fratello è sull’altalena. Poi non mi giro più per non so quante parole. La girandola di verdi, profumi di fiori e pollini, di brezze leggere, è entrata nella mia testa. Volano farfalle e sbattono foglie di tutti i colori, le voci intorno diventano un sottofondo lontano. Lontano.

All’improvviso mi ricordai che anche mio fratello era diventato lontano. Mi girai sicura di vederlo dove l’avevo visto l’ultima volta, sulle scale dello scivolo o sull’altalena a farsi spingere da quella bambina dai capelli lunghi, per rivoltarmi subito verso il volto che mi incantava. E, poi mi rigirai di scatto, perché no, mio fratello non era né sullo scivolo né sull’altalena. Mi voltai di nuovo immediatamente, cercando la sua piccola sagoma sugli altri giochi. Nemmeno. La mia testa come una piccola trottola che andava su e giù, all’improvviso si fermò immobile. Le altalene, le corde, gli scivoli diventavano sempre più grandi. Non mi ero accorta che stavo correndo verso di loro. Così, all’improvviso, senza dire niente mi ero lanciata lì. Non era possibile. Mio fratello non era lì, su nessuno dei giochi, né nello spiazzo che li conteneva, né girandomi tutto attorno sull’erba che circondava l’area e che si espandeva per tutto il parco. C’erano ancora dei bambini, non più la bambina dai capelli lunghi. Chiesi a tutti, nessuno sembrava avere notato la sua presenza e quindi nemmeno la sua assenza. Il parco divenne in un attimo un deserto arido e sconfinato che non sapeva darmi appigli, suggerimenti sul dove guardare, dove correre, dove cercare, dove urlare. Perché l’avrei trovato, sì ne ero certa, non poteva che essere che così, ma avevo tanta voglia di urlare il suo nome. Di urlare e basta. Il ragazzo dai capelli rossi, gli amici, non esistevano più. Ero in un deserto verde in cui esistevo solo io e la mancanza di mio fratello. La mamma. Cosa avrebbe detto la mamma. Cosa avrei detto alla mamma. No, l’avrei trovato. Stava sicuramente giocando e voleva farmi uno scherzo. Che mi stava spaventando a morte. Perché lo chiamavo. Lo chiamavo ancora e ancora, ma non c’era risposta. Le voci dei bambini che incredibilmente continuavano a giocare come se il mondo fosse rimasto lo stesso, diventavano un amalgama indistinto di suoni, lontano. Una parola. Una parola usciva distinta e sembrava essere la sua voce. Mi giravo verso la direzione da cui proveniva e sulle macchinine che giravano in tondo tante piccole teste vorticavano ridendo, tutte differenti e tutte uguali, perché nessuna di loro era la testa di mio fratello. Iniziai a correre. Il prato verde dove il sole giocava con l’ombra sfumò presto in un bosco buio, dove alberi antichi insinuavano le loro grosse radici nella terra come mani che nascondono nel fango. Il laghetto che celavano era uno specchio scuro che tratteneva il fiato. Il riflesso sulla superficie densa era più reale del reale. Avrei voluto tuffarmi per cercare lì dentro. Ripresi fiato e corsi ancora su per i gradini di roccia. Un odore di cantina, di vecchio, mi avvolse, come se fossi entrata, eroina coraggiosa, in un antro mai esplorato, per salvare il mio fratellino dalla strega cattiva.

Ma non era una favola. E nemmeno un brutto sogno. Avevo perso mio fratello. Ma come si può perdere una persona? Si perdono le chiavi, gli occhiali, ma una persona, che respira, parla, vive? Era assurdo. Sempre di più nella mia mente si concretizzava la sensazione dura e amara: avevo perso la vita di mio fratello. La mia testa, i miei occhi velocissimi, frugavano tra i rami e nei sentieri che si aprivano, incrociavano, sparivano nel verde sempre più scuro. Tra i sassi delle rocce, le conchiglie imprigionate sembravano palpebre chiuse. Di mio fratello. E invece no. Più in alto l’ombra di un profilo. Eccolo. Nemmeno. Era il busto di un qualche personaggio storico che ignorava il mio sguardo con antica alterigia. Acqua, sembrava dirmi. Correvo, e i miei occhi più veloci di me, davanti a me, e le mani che cercavano di acchiappare l’aria, non so se nella speranza di correre più veloce o di stringere quello che cercavo.

Mi riavvicinai al prato dove prima si trovavano i miei amici. Erano spariti. Quanto tempo era passato? Anche le mamme non c’erano più. Solo qualche vecchio con un cane a passeggio. Il silenzio aveva preso il posto di quel coro lontano di vocine sottili, ma faceva molto più baccano nelle mie orecchie. Una sottile brezza muoveva le foglie degli alberi. Mi infastidiva, mi impediva di sentire la sua voce, se per caso mi stava chiamando. Il chiosco aveva chiuso, ma fuori era rimasto il cartello con la lista dei panini. Mi parve di leggere il suo nome in quell’elenco. Mi guardai attorno, immobile. Ogni minimo rumore, ogni piccolo movimento mi urtava dolorosamente, perché non era suo. Mentre io sprofondavo in un verde che diventava sempre più cupo, mi resi conto per davvero che non stava giocando. Mio fratello era sparito. Nella mia mente tutti i perché, i dove, i come prendevano forma senza diventare parole. Tutte le paure si concretizzarono in un mal di pancia acuto, che da allora mi stringe lo stomaco ogni volta che entro in un parco.

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Antonio Sparzani, vicentino di nascita, nato durante la guerra, dopo un ottimo liceo classico, una laurea in fisica a Pavia e successivo diploma di perfezionamento in fisica teorica, ha insegnato fisica per decenni all’Università di Milano. Negli ultimi anni il suo corso si chiamava Fondamenti della fisica e gli piaceva molto propinarlo agli studenti. Convintosi definitivamente che i saperi dell’uomo non vadano divisi, cerca da anni di riunire alcuni dei numerosi pezzetti nei quali tali saperi sono stati negli ultimi secoli orribilmente divisi. Soprattutto fisica e letteratura. Con questo fine in testa ha scritto Relatività, quante storie – un percorso scientifico-letterario tra relativo e assoluto (Bollati Boringhieri 2003) e ha poi curato, raggiunta l’età della pensione, con Giuliano Boccali, il volume Le virtù dell’inerzia (Bollati Boringhieri 2006). Ha curato due volumi del fisico Wolfgang Pauli, sempre per Bollati Boringhieri e ha poi tradotto e curato un saggio di Paul K. Feyerabend, Contro l’autonomia (Mimesis 2012). Ha quindi curato il voluminoso carteggio tra Wolfgang Pauli e Carl Gustav Jung (Moretti & Vitali 2016). È anche redattore del blog La poesia e lo spirito. Scrive poesie e raccontini quando non ne può fare a meno.
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