Che Nervi! (un’intervista)

nerviedizioni-logodi Francesca Fiorletta

Nasce Nervi, un progetto editoriale a cura di Fabio Donalisio, Francesco Targhetta e Marco Scarpa. Sono libri di poesia cuciti a mano, curati al dettaglio, stampati in cento copie per ciascun titolo e distribuiti più o meno come si faceva una volta: su richiesta. M’è venuta curiosità, e ho fatto qualche domanda agli editori. Ecco cosa ne è saltato fuori.

1) Innanzi tutto, e non si può non chiedere: una casa editrice oggi, un’altra casa editrice oggi: perché?

FD: Perché quando una cosa non la trovi già fatta in un modo che ti soddisfa, ti viene voglia, e bisogno, di farla da te. Si chiama urgenza, tutto qui. E anche polemica, se vogliamo. Ma soprattutto (grande) bellezza. Non è un’azienda e non lo facciamo per vivere (sarebbe suicida, peraltro). Nervi c’è finché sarà necessario, e finché ci riusciremo. Poi basta.

Pochi giorni fa mi sono trovata a rispondere a una domanda sulla “responsabilità” o meglio sull’”affidabilità” di certe fonti critiche e letterarie, e ho detto, convinta, che, più che i luoghi o le entità canonizzate, quello che mi ispira o non ispira fiducia è, in sintesi, l’essere umano. Dunque, conosciamoci meglio.

(E non me ne vogliate se il discorso esulerà un poco dalla letteratura tout court, è tutto biecamente calcolato.)

2) Che cos’è che vi appassiona, veramente? Come passate il tempo, cosa v’incuriosisce, quali sono i vostri interessi fuori dal mondo delle belle lettere? 

FT: Il tempo lo passo sui libri e sui dischi, con gli amici e con i gatti, ma soprattutto da solo, mentre quando sono fuori casa, e non sono a scuola, lo trascorro a cercare posti decadenti, e poi a frequentarli. Amo pochissime cose, e ho amato pochissime persone, ma molto. Davvero molto.

FD: Per prima cosa non fare mancare al tempo una degna colonna sonora. La vita è troppo breve per passarla con la musica di merda, o con il chiacchiericcio infinito della società dello spettacolo. E poi il silenzio, questo sconosciuto, ormai. Su in montagna, dove vorrei mi spargessero da morto. Ciò che è inutile e improduttivo, poi, che non ha scopo. Come le conversazioni, le camminate, e le sigarette. Provo a dire cose (sbagliate) sulle vita ai ragazzi con il trucco di spiegare loro la grammatica latina. Il mondo delle lettere è quello che mi interessa meno. I libri si leggono a casa, da soli. E mi hanno fatto molto male. Francesco ha ragione: si amano poche cose, e fortissimo. Una persona, una città. Il resto è bulimia.

MS: Oltre il lavoro (che esula da tutte queste faccende) il tempo che rimane è poco. Comunque, al di là delle lettere, direi i libri. Proprio come oggetti, come possibilità estetiche e tattili. Mi capita di farne/costruirne alcuni di brevi, in copia unica, per me stesso, sperimentando con pochi mezzi. Poi la musica. Moltissima, varia e sconosciuta. Infine le persone e i luoghi in relazione alle persone. Starei ore a guardare la gente e le case altrui.

3) Come v’immaginavate, da bambini? E, se le vostre aspettative e/o previsioni sul futuro erano diverse, cos’è che poi vi ha fatto cambiare rotta? 

FT: Da bambino mi immaginavo inventore di giochi, da adolescente cantante. Sono finito a suonare la chitarra, ma poi ho preso atto di non avere né una voce decente né doti da strumentista. Ho sempre scritto, anche, ma non pensavo che ci si potesse vivere. Infatti non si può.

FD: Da bambino volevo fare l’astronauta, ma manco so nuotare, figuriamoci fluttuare. Poi avrei voluto coltivare la terra, e avrei fatto bene a farlo. La persona che mi ha cambiato la percezione delle cose? La mia professoressa di retorica all’università, pace all’anima sua. Non la ringrazierò mai abbastanza per avermi fatto vedere cos’è la lingua. Ne ho avuto orrore. E allo stesso tempo ho saputo lucidamente che non avrei fatto altro che usarla, e pure bene, anche, purtroppo. Non ho altri talenti, e il dipanarsi della vita finora l’ha ampiamente dimostrato. Come si dice, l’epifania di essere fottuto.

MS: Ho sempre faticato a capire cosa volessi fare da grande. Anche oggi me lo chiedo, nonostante abbia un lavoro stabile, un mutuo di venticinque anni, alcuni progetti già su qualche binario. Ricordo che da piccolo pensavo solo al pallone. Me lo portavo sotto le coperte e, al primo rimprovero, facevo una piccola valigia in cui mettevo le scarpe da calcio e il libro delle preghiere e dicevo che sarei partito per Torino (tifavo Juventus). Poi all’università avrei voluto fare filosofia ma, pensando all’instabilità del futuro, ho ripiegato su ingegneria (perché così un lavoro l’avrei trovato). In effetti così è andata ma c’è molto altro che ho incrociato nelle mie giornate. La poesia ad esempio. Le aspettative le creo e le distruggo ogni giorno. Banalmente, diciamo che mi basta che qualcosa avvenga ogni giorno.

4) E come vi immaginate, adesso, fra (teniamoci larghi) vent’anni? (Gradito uno sguardo sociale, oltre che biografico) 

FT: A volte spero a volte temo di diventare un lupo solitario che vive ai margini dei boschi. Ho l’impressione che con il tempo finirò per sperarlo molto di più che temerlo.

FD: Niente di borghese. E non solo per scelta. Ho quasi quarant’anni e sto all’addiaccio. E peggiorerà, il mondo dico. Per fortuna. Come dice Jünger, mi sa che mi darò al bosco. Ci sarà un’altra epoca di partigiani. Senza epopea, stavolta. E senza intellettuali, per fortuna. Che hanno – abbiamo – inequivocabilmente perso. Merce tra le merci. Forse si riuscirà a sostituire il concetto di guerra con quello di nascita. Forse.

MS: Seriamente non ci penso mai. Non riesco ad avere questo sguardo lungo. Parlavo ieri con mio padre della sua adolescenza e di oggi. Molte cose successe non erano nemmeno immaginabili. Dunque spero la vita stupisca anche me, in qualche modo. Domandi della società: se riusciamo a non autodistruggerci entro un secolo sarà un successo.

5) Che musica ascoltate, principalmente, quali film scegliete di andare a vedere al cinema? 

FT: Musica ne ascolto molta, troppa, almeno 4-5 dischi al giorno, di tutti i tipi, tranne hip hop, metal e classica. Cose preferite degli ultimi anni: Andy Stott, Grouper, Julia Holter, Forest Swords. Film ne vedo pochi, troppo pochi. Realismo, documentari, i registi che stanno addosso alle cose.

FD: Troppa musica anche per me. I dischi non ci sono quasi più, e tocca fare le mondine, passare il setaccio e trovare le canzoni. Il cuore pulsa a dodici battute comunque. Più o meno lente a seconda della quantità di sangue del momento. Immagini poche, le sopporto anche meno delle parole, di questi tempi. Specie se vogliono – hanno la presunzione di – spiegare la “realtà”. Manca il pensiero, la fantasia nel senso di ipotizzare, suggerire connessioni inedite in un alfabeto che sentiamo inesorabilmente frusto (e non lo è, non lo sarà). Contro l’impotenza percepita ci vorrebbero occhiali da presbite. E invece tutti con il microscopio…

MS: La musica è epicentro e passione. Passione condivisa da tutti noi tre. Personalmente spazio dalla psichedelica al blues sporco, dal jazz vecchio a sconosciuti gruppi rock, da esperimenti di field recordings alla musica africana. Musiche del momento sullo stereo: Charles Bradley, Allah Las, The war on drugs, Naomi Shelton, Toumani Diabaté, Alio Die, Murcof, Thurston Moore, Sufjan Stevens e King Creosote. Film, invece, pochi. Non ho la televisione e al cinema vado 4-5 volte all’anno. L’ultimo film è stato Youth di Sorrentino. Per me, bellissimo.

Adesso torniamo ab ovo.

6) I vostri gusti letterari, dai grandi classici agli iper contemporanei.

FT: Pure qua: tutti gli scrittori che stanno addosso alle cose. Il classico più grande: Leopardi. Tutta la poesia tra Otto e Novecento: proprio tutta. Verga, Fenoglio, Bianciardi, Satta, Roth, Houellebecq. Il suo Estensione del dominio della lotta e Zona di Énard i miei libri degli ultimi vent’anni.

FD: Qualche autore a cui lasciare l’onere di fare da esempio di letture matte e disperatissime. In versi: Leopardi anche per me. Pascoli per la lingua e la perversione. Caproni, ultima sintesi, nessuno come lui dopo di lui, tranne Ivano Ferrari di Macello. In prosa Céline, Bernhard, Faulkner, Gadda e Manganelli. Vivi: Mari e Moresco, McCarthy e Houellebecq. E Roberto Bolaño. E le baruffe per voce sola di Paolo Morelli. Poi c’è un sacco di brusio.

MS: Poesia e saggi. Pochi romanzi. Solo per la poesia, alcuni nomi: Marino Moretti, Corrado Govoni, Giorgio Caproni, Andrea Zanzotto, Amelia Rosselli, Vittorio Sereni, Bartolo Cattafi, Giorgio Orelli, Luciano Erba, Giovanni Giudici, Giorgio Cesarano, Umberto Fiori, Antonella Anedda, Ivano Ferrari, Milo De Angelis, Anna Maria Carpi, Simone Cattaneo.

7) Ammesso che l’arte abbia (debba avere) una funzione, qual è, secondo voi, il fine ultimo di tutto ciò? Cosa vi smuove, insomma, intimamente, a scrivere, a pubblicare libri, a leggerne avidamente, a occuparvi di critica ad ampio raggio? 

FT: Un bisogno potente di alimentare la vita interiore, per aggiungere un tassello alla comprensione delle cose e per godere di una bellezza che fa stare meglio (leggere). E poi provare a condividerla (scrivere).

FD: La vera letteratura è una menzogna necessaria. Senza è soltanto peggio. E poi, il linguaggio è una delle forme definitive di potere. Know your enemy, cantavano i Rage Against the Machine nel 1992. Sindrome di Stoccolma diffusa.

MS: Penso dopo alla funzione, penso prima alla condivisione. Mi smuove la volontà di far conoscere cosa credo abbia un valore, una bellezza e che, per vari motivi, rimane sconosciuta. Credo la poesia possa piacere a molte più persone di quanti, ora, la frequentino. Dopo tale spinta il diktat è fare le cose come chi mastica libri e lettere vorrebbe. Questi libri sono qui per questo. Hanno al loro interno alcune di quelle caratteristiche che si stanno perdendo (nell’editoria). E non tutte è un bene che si perdano.

8) Il momento storico nel quale viviamo è davvero un momento di crisi, per come lo percepite? (E non parlo chiaramente solo dell’aspetto economico). Insomma, quanto questo buco nero della precarietà influisce sulla produzione di senso, nell’arte in generale, e nella scrittura in particolare? E quanto negativamente o forse invece anche positivamente, secondo voi? 

FT: Non è un momento di crisi, mi pare. È un nuovo paradigma, nel quale è certamente più facile andare in crisi, per la velocità e competitività di tutto, e per la progressiva dissociazione tra ciò che facciamo ogni giorno, nonostante nessuno ci punti una pistola alla tempia per indurci a farlo, e ciò che invece vorremmo fare ma non facciamo mai. La frattura che si crea, come tutte le crepe e tutte le forme di alienazione, può rivelarsi una risorsa e un’occasione per diventare più lucidi, ma anche un abisso dove sprofondare. Nella maggior parte delle persone, purtroppo, non si crea nessuna frattura, nessun dubbio. È il motivo per cui trovo la gente sempre meno interessante. Che è a sua volta il motivo per cui aprire una casa editrice e pubblicare libri che facciano perdere i nervi ha senso.

FD: La parola crisi implica un paradigma indiscusso, appunto, di cui si verifica uno squilibrio, e presuppone, anela, prega per il rientro nella norma. Qui l’accelerazione quantitativa del “progresso” (altro pilastro indiscutibile anche sotto le rovine di Babilonia) sta inducendo vere e proprie mut(il)azioni, tutte accuratamente rimosse. Il “precariato” è la condizione inevitabile, e banale, della fine del lavoro. Credo che mai i tempi siano stati tanto moderni, nuovi, forti e interessanti. Ed è più o meno incredibile che una parte non piccola delle persone passi il tempo a frustrarsi per cose tipo non aver vissuto il ’68 o rimpiangere il calo di “benessere”. Persone che non sanno quello che vogliono (e quelle rare volte che vogliono, non fanno), ma si lagnano per quello che è stato loro tolto. Retroguardia ed emulazione del potere. Una volta si chiamavano servi. Oggi va di moda “precari”. Penso che ci siano state poche stagioni più adatte di questa alla poesia. E il fatto che non sia facile essere tramite tra poeta e lettore (altre due categorie assai competitive nella lamentatio) non è l’ennesima congiura ai nostri danni. Ma soltanto la realtà. Tutto è sempre stato difficile. Solo non lo si ricorda più. Altra rimozione, altra corsa. I nervi, è bene tenerli scoperti.

MS: La crisi è relativa. Esistono i cicli. Inutile ora ripensare all’intera storia. Ma in cent’anni, se vogliamo pensare con il microscopio, l’Italia ha vissuto due guerre mondiali, emigrazioni, boom economici, scandali inauditi, poteri oppressivi. Oggi molti sono senza lavoro, certo. I nostri avi emigravano, se sbocchi non ce n’erano. Ora la si chiama fuga dei cervelli. Il precariato che a me intimorisce lo rintraccio nelle deboli spinte di voci fuori dal coro: volessimo (veramente?) cambiare qualcosa, ne avremo ora le forze e la voglia? L’unica evoluzione (o involuzione) che vedo è una capacità sempre maggiore di adattarsi a tutto e a tutti. Anche la scrittura ne risente. E quando scava senza pietà, lucidamente ne trae dei risultati duraturi.

9) Se avete scelto di mettere in piedi una casa editrice, io credo, è perché comunque una speranza alle nuove scritture la date ancora. E dunque: qual è l’evoluzione che pronosticate, per le varie forme di espressione? Dove andrà, o, più facile: dove sta andando, oggi, la poesia?

FD: Lontano, sempre più lontano, da chi cerca di farne una moneta sociale spendibile. Che gli spazi sfuggiti alla socialità coartata siano ormai minimi, è solo una garanzia più forte della sua impossibilità a morire. Di mio, auspicherei due passi fuori dalla lirica. Per la moltiplicazione dei soggetti ci sono piattaforme più efficaci.

MS: Dappertutto e da nessuna parte. Moltissimi sono epigoni di alcuni noti. Ci sono scritture di ricerca, certamente, ma poche degne di nota. Molti sono i sottogeneri in poesia, alcune linee che si arricchiscono di deviazioni, interagiscono con altre forme e/o generi e cercano la loro unicità. Ma ciò che rimane, a me pare, non sono nuove correnti ma libri singoli, autori che azzeccano uno o pochi libri. Rimangono loro, assolutamente riconoscibili e necessari e poco importa se appartengano a un sottogenere. Possiamo dire e condire i pareri critici con qualsivoglia enfasi ma un libro di poesia che merita attenzione vivrà ugualmente mentre molti altri staranno sulla bocca di alcuni per qualche anno per poi tornare nell’oblio. Non importa la forma d’espressione che avrà la poesia. Ancora oggi nascono libri di poesia essenziali e, al di là della forma più o meno innovativa, essi sono nati per rimanere.

10) E la prosa? E le forme così definite (orrore!) “ibride”? 

FD: Se la prosa smetterà di voler con tutti i costi sovrapporsi allo storytelling (campo che non gli compete, in cui sarà sempre fallimentare, anche economicamente), politico od onanistico che sia, e si rimetterà armi e bagagli sulla strada ardua della mitopoiesi – e quindi, necessariamente, dello stile – allora ci sarà un futuro. Che sia sostanziata di letterario (come Mari), o di muta – paradosso – visione (come Moresco), non importa. Basta che sappia costruire un’alterità, un’ipotesi, che mandi in frantumi lo specchio di cui è prigioniera. L’espressione “forma ibrida” non mi sembra calzante. Tra prosa e poesia la differenza non sono certo i versi. O almeno non quella fondante. Più in generale, come non credo nella retroguardia esistenziale “precaria” di cui sopra, così poco mi ha sempre interessato, concettualmente, la “avanguardia” come esibita rottura formale portata ad asse portante del testo. Un qualcosa, in soldoni, che la vita non la cambia, se non, forse, a chi la fa. Una sorta di egoismo. Che la poesia non può permettersi. E, dunque, cui prodest? La mulattiera sta in mezzo, strettissima e a strapiombo, come sempre.

FT: Spero che la prosa cerchi sempre di più, accerchiata com’è da linguaggi iper-usurati e da narrazioni ubique (e più aggiornate), di concentrarsi, piuttosto che sul cosa dire, sul come dirlo. Che non significa, naturalmente, indulgere in esercizi di stile gratuiti: come dicevo sopra, la materia c’è in abbondanza, forse ora più che mai. Bisogna saperla osservare, però. Guardarci dietro. Fabio cita Mari e Moresco. Io Falco e Maino.

11) Vogliamo spendere anche due parole per i nostri amici critici? 

FD: Due parole sul futuro le vorrei da loro. Ci sono ottimi cartografi (e di territori, come quello della poesia oggi, disperantemente frastagliati, veri e propri fiordi) e geologi. Mi piacerebbe sentire le urla di un profeta.

12) Restano i lettori. Quale pubblico v’immaginate, o auspicate, o rifuggite, insomma a chi è che vi rivolgete, in particolare, coi libri di Nervi?  

FT: I Nervi usciranno giocoforza in tiratura limitatissima, ma speriamo che arrivino tra le mani delle persone più diverse. Per questo organizzeremo letture e incontri in quantità, anche, laddove possibile, in luoghi non canonici per la poesia, in modo da poter coinvolgere e disturbare orecchie nuove. Contiamo che la bellezza dell’involucro e dell’oggetto-libro possa avvicinare ai versi anche coloro che solitamente, per diffidenza, se ne tengono a distanza.

FD: non si può pensare un messaggio senza un destinatario, questo è ovvio. Ma è anche bello non saperlo, visto che non abbiamo piani editoriali da riempire e budget da quadrare. Conti che non tornerebbero comunque, e mai. Mi piacerebbe vedere i nervi in mano a persone che riescono a sincronizzare tatto e occhio e voce. Che cercano la poesia come urgenza (non istinto, né solo genio, ma necessità), e non come l’ennesima identità in appalto. Vale sia per chi li scrive che per chi li legge. Persone (che la parola “lettore” mi fa venire i brividi, come “consumatore”, nei fatti) che non cercano mappe ma labirinti. Meglio se stampati con amore e con una gabbia grafica tersa.

MS: Sarò azzardato ma credo che siano libri per tutti. Se li tocchi, ti accorgi della loro sostanza. Se li guardi, ti accorgi che hanno una loro eleganza. Se li leggi, ti accorgi che sono versi che contano. Ecco, un pubblico curioso e ricettivo è quello che ci aspettiamo. Trasversale anche, lavorando su più strati (estetica e sostanza). Capiamoci: non ci stiamo inventando nulla, stiamo solamente riproponendo, con il nostro gusto, libri fatti bene. E se alcune caratteristiche erano sparite non erano certamente per il loro superamento ma semplicemente per ottimizzare processi produttivi che hanno a che fare con logiche di mercato che per ora ci lambiscono senza intaccarci.

Ringrazio gli editori, qui sotto il link al sito di Nervi Edizioni, dove potete seguire (e acquistare!) tutte le nuove uscite.

http://nerviedizioni.it

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