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Lettere della fine


HOITSU3di Nadia Agustoni

 

i volti tra le frasi il poco
dei giorni succede chiaro
le parole arrivano viene il mondo
una volta erano le voci
un che di cicoria e limoni
o terra a patire
e il gas falciava i prati
in un altrove dove le spine
dove noi e nulla –
scrivi sulla morte
lì cadono i bambini i fiori
che pensiamo per sempre
e senza le tue parole c’è altro
come se restasse il sangue di tutti
e tutta la vita per niente –
ma il male credimi il male
guarda se siamo soli
se siamo figli padri
qualcun altro –
ricordati chi rideva chi
disse cosa a chi
e non tornava risposta
ma un’eco
l’osso cranico

(io non sono la domanda)

 

 

 

 

“avvicinamento“
Eraclito

 

 

 

 

quando il giorno finisce sono un passeggero

 

 

 

 

biglietto n. 1

i fiori e altri fiori
un solo fiore e fiorire
il gelo e gli occhi non sanno
non sanno com’è nei fiori
e i passeri i rami – campagne.

 

 

 

 

la mia vita coi fogli e poi senza
nella grandezza della sillaba tutto parlavo
le cose prese
come un grano
sono la cosa viva –
curo gli occhi curo la morte
piccolo passa il sole.

 

 

 

 

biglietto n. 2

i fiori dove esistono le nostre vite
tutto questo – siamo qui a cercarci
le parole la terra l’orecchio
ascolta come dice sì.

 

 

 

 

le scarpe i fogli le sere nelle buche
di terra le sere che mastichi il pane
l’azzurro è tutta la vita
gli occhi sono la casa
avrai segno come i più piccoli
quelli vuoti di sé che non sanno mai
non sono mai altri.

 

 

 

 

scrivere è quello che sta nell’aperto

 

 

 

 

c’è un posto
dove accade di vivere
sugli alberi la luce
va coi germogli
i panni gelano di notte
per un vento di lago
aperto.
basta poca morte
una polaroid da Luino
il vecchio atlante
la pagina è l’erba
del mio nome.

 

 

 

 

questa povera cosa di amare
millimetri il mondo – gli altri stanno
negli altri e pare sia solitudine
un sangue preso.
nel bello della vita non so
più lavoro – cresce breve un dire
salverò i quaderni il libro più limpido.

 

 

 

l’incendio quando abbatte la realtà

i petali più nudi di una rana
gli ossi un perimetro –
era di paglia il futuro
anche la coda
il tempo non siamo più noi.

 

 

 

 

finito e infinito sono parole
di avanzi: tutta
la vita nella vita
se guardi nascere
(quello è sempre).
dei versi bisogna
spaventarsi.

 

 

 

 

i piatti vuoti manciate d’erba sono di ieri le braccia che chiedevano l’avvento

 

 

 

 

nella postura di dopo
noi siamo io vivo
come ognuno vive
accanto
nell’ora che la luce toglie
nebbia torna il campo
i versi e la mia bocca
tornano voce
il tavolo e il campo
sono la voce
potrei sottovoce
fare assenza.

 

 

 

 

la nostra vita è vedere tutto
siamo noi la pianura il km morto
il mazzo di fiori sulla statale
che aspetta la neve e un’altra neve.
l’inverno è dove immagini ogni ora
nel grammo dei vetri.

 

 

 

 

– noi siamo incolti e piccoli. perché ogni albero perché la luce. ricordiamo. perché la foglia. perché c’è il nome. perché nulla è veramente nulla. né veramente. perché nei fiori. perché nell’ombra. perché nel giorno i giorni. il mondo l’alba la sera. perché il male. perché il bene. perché un bambino. perché conta sulle dita. perché aspetta. perché dove. perché non è abbastanza se immagini o pensi. perché pensiamo la fine perché l’inizio. perché due. perché tre. perché quattro. e uno è un pesce. uno canneto. uno ricomincia. uno abbandona. perché –

 

 

 

 

biglietto n. 5

a lungo pensiamo la poiana
starà nella sera migrerà in noi
come il piccolo muscolo del fiore
ma il geco lunare dà la caccia
fermo sul portone nella grande notte
nulla di sé frantuma
nel fazzoletto un po’ ci cura la parola.

 

 

 

 

Testi tratti da Nadia Agustoni, Lettere della fine (Vydia 2015)

 

 

*

 

 

 

 

Dalla Prefazione

di Renata Morresi

 

Di cosa è fine la fine di Lettere della fine? Una fine reiterata in quasi ogni titolo di sezione di questo libro, numerata e declinata in una varietà di luoghi e modi, scomposta e rifratta quasi a smentire che possa bastarne una, la definitiva fine, per dire di quanto è sottratto al continuo, all’incompleto (quindi aperto), al resistere. Una fine quasi mai ‘naturale’: che riguardino la catastrofe delle alluvioni in Liguria o l’alienazione (e il pericolo) del lavoro in fabbrica, l’isolamento degli anziani in una clinica o la marginalità dei poveri, le fini di Agustoni sono fatte di cessazioni specifiche, incarnate nell’esperienza dell’autrice (nella biografia, nel lavoro operaio, nella sua pluriennale ricerca, in poesia, nell’attivismo e in saggistica, delle storie omesse e dimenticate dalla tradizione culturale) e processate in una poesia di creaturale compassione, che ogni volta riporta in presenza della caducità, della dissoluzione inerente a ciò che vive, e ne elabora un lutto candido. Esse sono, allora, in molti casi, riconoscibili come fini prodotte dall’incuria, dallo sfruttamento o dall’infamia, tuttavia la lingua poetica che le dispiega è una festa del contatto e del respiro.

Le Lettere sono dunque lettere di resistenza, e, proprio come le lettere dei giovani eroi della Resistenza italiana, sono fresche e struggenti, desolate per la fine prossima e insieme attraversate da una celebrazione pura, senza retorica, della vita. Le Lettere sono anche lettere dell’adesività, che unisce i rigettati e i senza mondo, nella schiettezza di chi sa che “siamo vivi per la vita intera ma non c’è l’intero” (115), nell’abbandono al divenire di chi sta accanto alle cose, se ne lascia attraversare, o le ama pensandole: “a lungo pensiamo la poiana / starà nella sera migrerà in noi / come il piccolo muscolo del fiore” (94).

Nelle note conclusive Agustoni ci dice, citando Giuliano Mesa, che siamo sempre alla “penultima fine”, come a dire che, dopotutto, la fine non c’è mai, quasi proponendo, in controluce, un rovesciamento ironico di quella fine che a più riprese il Novecento promise (la fine della storia, la fine della guerra fredda, delle guerre, o, ancora prima, riandando a Roosevelt, la fine del bisogno, la fine della paura). L’ironia è leggerissima, e lontana dalle asprezze del sarcasmo o dal cinismo dei delusi. Alla retorica del progresso continuo dell’ultimo fin de siècle, tosto seguita da quella dell’urgenza e del superamento della crisi economica, l’autrice risponde con la severità (e il sollievo) del pensiero apocalittico, che risponde alla crisi e produce la crisi giacché non si può pensare – non si può tollerare – che essa non abbia fine.

In tale tensione è costruito il libro, che, per la coerenza dell’ispirazione e del dettato, per la coesione del suo palpabile tessuto di frammenti, biglietti, righe, allusioni e citazioni, si configura più come sequenza poematica che come raccolta. I testi appaiono come mobilissimi mandala, per i simboli che si compongono e spariscono in un soffio, per lo sfuggire e continuare e aderire alla stessa vocazione di custodi della fragilità:

 

sottovento qualcosa i pini la
nostra vita – la pioggia col giornale
la nuca come cicoria
quando il sole avrà tempo –
nella giacca la nostra forma
usata – o il modo in cui
pensiamo il mondo.

(143)

 

Nel suo dipanarsi la scrittura disegna le tracce di una lunga elegia per gli ultimi e, insieme, la delicata grazia della mobilità, anzi, della motilità che inerisce gli umani, e li rende – loro, così spesso inclini alla ferocia verso ciò che è diverso da sé – disponibili alla trasformazione, allo stupore. Questa disposizione morale vive nel corpo della poesia: l’irregolarità della sintassi, simile alla spontaneità del parlato, le frasi sospese, le spezzature incompiute, le ellissi, gli anacoluti, si associano a un lessico fatto spesso di nomi concreti, bisillabi, primari (osso, bocca, acqua, neve, roggia, mela, palla, bosco, terra, ecc.), ma dall’alta densità metaforica. Si produce così un testo disseminato, sospeso tra l’instabilità della lingua orale e l’appunto, tra il fiato fresco della corsa e la voglia di registrare l’impulso subitaneo, come pure l’incongruo di simboli che si addensano e sciolgono nell’attimo della visione. È una indeterminatezza che commuove ed inquieta. Perché nei messaggi timidi e abbozzati che questa poesia manda sentiamo vibrare la precarietà: “i fiori e altri fiori / un solo fiore e fiorire / il gelo e gli occhi non sanno / non sanno com’è nei fiori” (24). Perché l’instabilità nel fissare per certo un soggetto o un complemento oggetto produce una fusione col mondo naturale, ma nelle forme di una campagna della provincia italiana che sappiamo ormai quasi estinta. Perché vi rinveniamo il disordine benefico dell’infanzia, ma anche il male possente d’ogni volta che, bambini, ci hanno tradito, beffato per sfregio, risposto che eravamo bruttezza. Perché lì sentiamo la minaccia che incalza quel che è minuto, indifeso, sensibile, “lì cadono i bambini i fiori / che pensiamo per sempre” (21).

[…]

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9 Commenti

  1. “Lettere della fine” è un libro che ho la fortuna di “tenere” (e non finire, se non con la consapevolezza della sua intensa “verità”), e Nadia Agustoni un’autrice di grande forza e “asciuttezza”, s’intende – a mio sentire e leggere – lirica e presente, toccante. Credo che un libro così renda il lettore ancora fortunato di poter trovare una poesia di valore e valori – che non direi, per “genere”, “sociale”, ma poesia e cos’altro deve dirsi, se c’è, e dice la vita?

    • (e non finire, se non con la consapevolezza della sua intensa “verità”, e dunque della voglia di ritrovarla, sfaccettata, ad ogni nuova lettura)

  2. più che una risposta, nemmeno una domanda, ma un capovolgimento, un capo/lavoro, qualcosa ad incidere pelle,una stretta in gola, accordersi d’un respiro trattenuto e poi aperto all’aria, con ritorni di nuovi sguardi a cui s’accompagna o precede “Un dipanarsi” magistrale dell’implicito. grazie.

  3. sto leggendo e lo leggerò ancora, lo so già da ora, perché la scrittura ,interrotta perché crepita, perché salda salta non di palo in frasca ma da una gola all’altra dove l’interruzione della relazione è violazione della natura umana ed è vitale sostanza ha bisogno di ascolto, ha bisogno di depositarsi come la calce nell’acqua, ormai sporca per troppo sentire. Un grande abbraccio a Nadia e una nota ancora: bellissima anche la prefazione, che solitamante non apprezzo, ha colto con precisione i passaggi di stato della parola di Nadia che comunque resta ancora più corposa saldamente in mezzo alla memoria, tocca il corpo, la nostra sostanza viva. fernanda f.

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