Non è un gesto finale

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di Francesco Borrasso

Quando le parole non esistono più, inizia a prendere forma il gesto. Quando nessuno ti ascolta, i pensieri ti si spezzano nella gola. I muscoli del collo stringono la presa, una spugna nella faringe che cattura la saliva e consuma il respiro, pochi secondi. Mi basterebbe il pianto; basterebbe, forse, per rendere meno reale questa muscolatura estranea. Appena qualche lacrima, come un fiume potente, porterebbe via i detriti che raccatta lungo il cammino: un poco di dolore, una parte di rabbia, questa tristezza che con una gravità contorta mi spinge verso il basso. Ho terminato con la domanda che circolava nella testa come un cane sciolto: dove sei? Ho smesso con questo gioco sadico che preparavo per bene prima di dormire; raccoglierti e portarti nel pensiero con la speranza poi di trascinarti dentro il sogno. Era un conforto questa piccola certezza, il nostro luogo di esilio, nel sonno. Le mattine agitate, gli occhi rossi pieni di vene pronte, sembravano, a spezzarsi; il viso pieno di espressioni sbagliate, senza forza per tenere su un sorriso. Non mi pento di averti cercato così a fondo; non chiedo scusa a nessuno per averti confuso con qualche ombra, durante la notte, a luci spente. Non rinnego l’ansia, i tranquillanti; faccio uso del percorso come fosse un insegnamento; di questi giorni passati da morto in mezzo ai vivi. Se mi giro e ti do le spalle, ti prego, tu non prendertela. Sono state eccessive le ore in cui sono stato immobile, travolto continuamente dalla tua assenza che crocifiggeva ogni mia voglia di libertà; sei stato una prigione, senza una finestra per vedere il giorno, con le pareti umide, che in estate faceva l’inferno e in inverno un gelo senza regole. Certo, una prigione, ma ci sono entrato per capire meglio cosa fosse vivere senza te.
Mi comprendi, lo so, e per questo provo a non starci male in questo gesto di allontanamento. Sono uomo anche io, adesso. Vivo, e lo sento dal sangue che fa il suo giro, dalla pelle che si arrossa per un calore tenuto troppo vicino, per la tensione della schiena e dagli occhi che cercano chiusura dopo troppe veglie estreme. Lo immagino, questo lasciarti andare, come un movimento veloce, quasi distratto; io che mi volto dopo averti sorriso e tu che finalmente ti senti leggero, ti fai distante e diventi materia celeste. C’è una parte del ricordo che vive nella testa come fosse un sentimento di non appartenenza; mi rimanda di continuo a ciò che sono stato. Ero il centro di una fiamma, ero la luce, nel cuore del fuoco; ma tutte le persone che mi circondavano erano costrette alla distanza per non rischiare la bruciatura. Ho educato i miei sogni, cercato di farli volare con coscienza; ho ascoltato il sudore della pelle, le braccia indolenti e indolenzite, la compagnia meschina delle vertigini che confondevano le mie coordinate, il mio mondo era divenuto un costante terremoto dove l’unica cosa che andava in frantumi ero io. Adesso mi riaggancio ad una sensazione lontana, deve essere stato così quando appena venuto al mondo hanno reciso la carne del mio cordone ombelicale. Questi giorni hanno il sapore di una definizione. Ascoltare il passato non deve essere per forza cedere alla caduta; imparare ad ascoltarne la voce è come comprendere che la fiamma scotta solo se non sei veloce con il dito. Ho un ricordo nitido della prima cucina; della prima volta davanti al mare, la sensazione di essere insignificante e che tutto poi fosse solo un gioco di prestigio. Adesso mi sembra uguale a quella volta lì, nel giardino della nonna: ero spaventato sulla bicicletta e tu mi dicevi che per il prossimo giro non mi avresti seguito, con un sorriso credevi che l’equilibrio, questa volta, sarei riuscito a tenerlo saldo. Tu lontano ad osservare, io, su due ruote. Questo momento è identico, come istruirsi per quella magia una seconda volta, imparare a farcela, senza di te. Certo, ora sei alle mie spalle, ma mi basta un movimento, un gesto veloce del busto, un braccio che si alza e prova a stringere, per abbracciarti; sei talmente vicino che dalla schiena puoi toccarmi il cuore.
Ecco, mi alzo, sono le mie gambe che mi portano lontano; i miei polmoni che si allargano e si restringono; io sono il mio stomaco che sente una frattura, ma non smette di fingere indifferenza. I primi passi sono pieni di terrore, poi ne faccio un altro, e un altro ancora; e mi stupisco, va bene anche così, può andare bene anche in questo modo. Bisogna sempre credere di poter volare per riuscire almeno a stare saldi con i piedi in terra.
Non è un movimento finale, lo sai bene; giungerà un punto nel vorticare del tempo, in cui ritorneremo a trovare un punto di giunzione, forse sarà dentro un silenzio troppo rumoroso, forse dentro una luce che spogliandoci di tutto ciò che siamo stati, ci vestirà con i ricordi e smetterà di farci stare sospesi.
Provare a cancellare dalla mente di una persona: un evento, un oggetto, un volto, un’emozione; tentare di togliere via tutto questo con le pillole, con i ceffoni, con le punizioni, è come spiegare a un bambino che è tempo di camminare e di abbandonare le quattro zampe, obbligandolo a stare in piedi, mantenendolo in equilibrio su due piedi anche quando è stanco, anche quando piange pregandoti di lasciarlo riposare.
Dalla carne e dal copro non si cancella niente, sono lo scrigno del ricordo a prescindere dalla mente.

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2 Commenti

  1. Posso ritrovarmi anche io nel mio essere comunque donna, in questo abbandono.
    L’importante è in extremis riprendersi e contenersi, al di là di ogni dolore.

  2. Mi piace. Borrasso dico. Conduce, con uno stile tutto suo, all’interno di una sensazione esatta. Senza divagare, con una puntualità svizzera.
    Ha un incedere incalzante, ma ogni tanto, con sapienti utilizzi di metafore coerenti e sempre vivissime, accende sentieri secondari che poi abbandona. O magari lascia in sospeso per analisi future.
    Fa un ottimo lavoro di “luci”, considerando i suoi scritti alla stregua di un set. Ed è piacevole, davvero piacevole, seguire il flusso apparentemente casuale della sua scrittura. Anche stavolta. In questo gioco elegante di rimandi tra parola e gesto, tra ricordo e intenzione. Tra sé e altro da sé. In questo frammento di vita corporea, carnale, sanguinolenta che ci ha regalato.

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Mariasole Ariot ha pubblicato Essendo il dentro un fuori infinito, Elegia, opera vincitrice del Premio Montano 2021 sezione opera inedita (Anterem Edizioni, 2021), Anatomie della luce (Aragno Editore, collana I Domani - 2017), Simmetrie degli Spazi Vuoti (Arcipelago, collana ChapBook – 2013), poesie e prose in antologie italiane e straniere. Nell'ambito delle arti visuali, ha girato il cortometraggio "I'm a Swan" (2017) e "Dove urla il deserto" (2019) e partecipato a esposizioni collettive.  Aree di interesse: letteratura, sociologia, arti visuali, psicologia, filosofia. Per la saggistica prediligo l'originalità di pensiero e l'ideazione. In prosa e in poesia, forme di scrittura sperimentali e di ricerca. Cerco di rispondere a tutti, ma non sempre la risposta può essere garantita.
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