Nuova antologia di poesia americana

nuova-antologia-di-poesia-americanadi Angela Galloro

Di altre Spoon River non resta molto in questi anni. Sembra che la poesia americana sia stata rastrellata via dalla Beat Generation o al limite dopo Ezra Pound e Thomas S. Eliot, quantomeno in Italia, dove – dopo l’interesse della Pivano – di poesia americana contemporanea se n’è parlato solo fino agli anni 00 con la raccolta di L. Ballerini, P. Vangelisti (Mondadori) o con West of your cities di Minimum Fax, curata dal più grande poeta americano dei nostri tempi, Mark Strand, scomparso da pochi mesi e sotto la come sempre straordinaria traduzione di Damiano Abeni. 

Eppure Tom Wolfe, nel suo Falò delle vanità, ancora nell’87, fa dire a un poeta della buona società di Manhattan che «gli Stati Uniti meritano una poesia epica». Sarebbe impensabile proporlo ai poeti discreti presenti in Nuova antologia di poesia americana, pubblicata da Ensemble edizioni e curata da Alessandra Bava, poetessa, traduttrice e animatrice culturale, fondatrice di Rome’s Revolutionary Poets Brigades e attivista in 100 Thousand Poets for Change.

Nella sua selezione si trovano poeti nati dopo il ’40, attivi quindi insieme a Bob Dylan e Bruce Springsteen, quelli che avrebbero potuto condividere con Sylvia Plath, se fosse ancora viva, la stessa corrente senza nome di oggi.

E proprio a lei va il sentito omaggio funebre, dolorante e insieme sarcastico di Thomas Rain Crowe, uno dei poeti ospitati nell’antologia: sua la diagnosi di Synapses of imagined pain. Ma sono molti gli epitaffi e i cammei presenti tra questi nuovi volti. Sembra che la smania futuristica on the road si sia addormentata sotto l’albero del passato. I nuovi poeti sussurrano sulle spalle di giganti come Federico García Lorca, che ricorre negli istanti anaforici di John Brandi e nei suoi versi pieni di dettagli osservati con la coda dell’occhio, ma anche nella rievocazione degli idoli del passato di Alejandro Murguìa.

Il fuoco della lingua e la rosa rossa del canto di Pier Paolo Pasolini compaiono in una poesia a lui dedicata di Neeli Cherkovski, ma anche Trastevere e Trieste si tingono di stelle e strisce. La selezione di Ensemble raccoglie tutto il mondo in una varietà di toni dove la ricorrenza ossessiva della parola ‘America’ in I Wash Your Dishes America sempre di Rain Crowe è soltanto il frutto di una protesta spaesata che si fa largo alla cieca tra le categorie di banchieri, politici, insegnanti, attricette di Hollywood e che chiede infine umilmente al nuovo sogno americano di lavare e asciugare queste lacrime.

Ma è davvero una piccola Spoon River letteraria, invece, la passeggiata di Sharon Dubiago accanto alla tomba di Emily Dickinson, Albert Camus e signora, Simone de Beauvoir e Giovanna D’Arco, Vallejo, Jean Seberg e ancora Gertrude Stein e Karl Marx. Sempre nella Dubiago si leggono i versi d’amore più belli e di avvolgente erotismo che scalzano finalmente l’ombra logora e volgare dei bukowskiani, con le puntigliose istruzioni tattili di How To Make Love To A Man.

E ancora, le tensioni trascendenti di Renée Gregorio, una preghiera fatta di domande e risposte e i suoi ritratti di donne; Stephan Kessler e la mitologia contemporanea di un’Euridice scomparsa, metafora dell’atto creativo della poesia; il tenero e fantasioso omaggio a Zelda Fitzgerald di Kaye Mc Donough. In Mc Donough, tra l’altro, si trova anche una bellissima dichiarazione d’amore per la poesia, senza scopo, senza lucro, di sola polvere. In generale, come in tempi già visti, ricorre frequente l’amnistia della parola poetica, come in Alvaro Cadorna-Hine ma anche nella Lazy tongue di Terri Carrion, con i suoi bozzetti casalinghi di prosa poetica. La voce di quest’antologia si spinge fino al parossistico annullamento della poesia, scritto in capital letters nei versi di This Isn/t a Poem di Michael C. Ford con la sua minacciosa clausola: this isn/t a poem: this is the way we can figure out / a way to make them all stop / breathing dove per “them all” si intendono gli artefici di tutte le rivoluzioni, una guerriglia contro tutti i sistemi, sorretti da un’abile psicologia del contrario.

In generale, ragliamo come asini pur di avere qualcosa da dire, ci ammonisce con rassegnazione Michael Rothenberg.

Riportano all’ossessione Sarah Menefee che in If He Didn’t Keep Appearing ci mette sulle spalle il peso di Abu Ghraib e Anne Valley Fox, inviata dalla storia recente, mentre Bill Pearlman celebra il poeta Javier Sicilia e la sua triste storia.

Da considerare, tra l’altro, che è sempre americana e precisamente di Chicago, la più grande associazione al mondo che si occupa di poesia, Poetry Foundation, in cui uno staff di venti persone riempie la vita quotidiana di lettori e utenti di poesia tramite eventi, newsletter, articoli di critica letteraria e aggiornamenti. Con metodi vari, tra cui il Poetry Magazine, un gioiello della poesia contemporanea. «Una sorprendente community culturale» come l’ha definita Henry Bienen, nuovo presidente ad interim chiamato poche settimane fa a sostituire Robert Polito, già direttore del corso di scrittura creativa alla New School di New York.

A mantenere «robusta» la poesia ci pensa la Fondazione, che con un cospicuo bilancio riceve donazioni da varie altre società e associazioni – anche non prettamente culturali – e gestisce premi, bandi, borse di studio. Non male per la tutela dell’ars che ha ancora molto da offrire, stando al panorama attuale. Un’arte magica, come la descrive nella Nuova antologia Stephen Kessler, in una – per la verità rara – ventata di ottimismo creativo: Relish your lost mind and embrace the mania, / just keep it contained, and when the spirit hits, / write. You are a poet».

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