12 poesie edite

di Antonio Bux

(dal ciclo di poesie “Un Adamo di meno”)

IV

Bisognerebbe ricrescere nell’amore
ogni volta che qualcosa lì si spegne
e cercare di strappare poi le ali
alle farfalle prima che si involino
via dallo stomaco; e non invece
lasciarle intatte e ferme su ogni
volto di donna o di uomo
che nasconde in un suo bacio
il verme fingendo nella mela
quel bisogno reciproco di stare
come torsoli nudi e senza semi
nella bocca e nel volto di quell’altro
ignorando il retrogusto della buccia
che protegge nel suo frutto la paura.

È MOLTO TEMPO

È molto tempo che non scrivo una poesia.
È molto tempo che non sparisco in una poesia.
Ora sparisco, e vi scrivo una poesia. Anche se
è molto tempo e non ricordo davvero bene
come si scriva una poesia, però se sparisco
è tutta per voi, una poesia che non so scrivere,
la più bella poesia che potete immaginare,
per voi che sapete leggere tutte le coordinate
provatela a immaginare perché io non so scriverla,
immaginate quella poesia che non c’è eppure vi fa spostare
i polsi e le giunture del cervello, quel tipo di poesia
che c’è e non c’è e anche se scompare te la ritrovi davanti
ogni santo giorno quando non realizzi che ti stai svegliando
e sei già sveglio, ed eccoti la poesia più bella del mondo
scritta sulla fronte, che pure se non ti piace la poesia
la senti nelle budella continuare il tuo fantasma nascosto,
il tuo romanzo da dodici battute, che non sarà mai come
questa poesia, no, il romanzo è un fiato lunghissimo
pure se di dodici battute, ma ha una morale esatta sul punto
mentre la poesia vive col cuore in gola, ed è lì che ti cancella.
Ora vi scrivo una poesia. Una poesia di quelle forti e chiare.
Ve la sto scrivendo, davvero. Anche se non è facile cancellare
poesie. Ed è molto tempo che non riesco più a vivere.

PIOGGIA MENZOGNA

Piove di spalle, mai vista la pioggia
entrarci nel naso e aprire il fiume
del nostro respiro o lo sguardo
ad un oceano più prossimo.
Ma l’oceano meraviglioso del tempo
non esiste, è una bolla di bugie,
nel silenzio ingrossa le sue menzogne,
l’aria fatta di miseria, i pesci falsi,
gli splendori delle lische venduteci
non valgono un odore marcio della terra
quando inzuppata di pioggia ci mente
con tutto il suo coraggio l’inerzia
spettacolare del mistero! Trasportiamo
acque finte per tutta l’esistenza
senza avvertire il profumo
della prima pioggia, quella scivolata
sotto le palpebre secondarie, ma ora è
tardi e si apre meglio l’onda bugiarda,
si apre meglio e mostra il fosforo sbagliato
all’opaca luminescenza, mostra il nostro
meglio diluito mentre ci piove davanti
il mistero della sua menzogna.

CAMICE DI CUORE

Camice di cuore, ho provato a spigare
montagne, ma nessuno le ha volute
comperare. Vendevo nebbie, anche, dal
banco degli ultimi, e le scorie dei campi
per un calice vuoto, di memorie verdi.
Un segnale, è stato meno di questo,
sotto il freddo della vita. È stato dirlo,
avvertire il monsone, il sistema termico
del piano superiore, concentrando aria
di nessuno addosso, costruendo mura
su di noi già fermi. Camice sventrato
senza più cuore, io ho provato a reagire
ma il sole è troppo loro. Io ho provato
a spostare la luce, qualcuno ha provato
a metterla in fiore, ma già sono morti
tutti e niente rimane splendente. Camice
di sangue la mia mente malata prega
sotto la quercia con il verme piegato
nel tronco dell’ombra. Tu sei la cappa
strappata al mio petto, la forza girata
nella mano della semplice elemosina.
La sola moneta a valere te è l’attesa.

D’IMMAGINE MIGLIORE

Ho immaginato di avere: una casa
e il fiore della casa e una donna
con accanto un mestiere
solo per me e nel bacio
la morte del frutto e il colore
saporito dell’erba, la mia fronte
cresciuta per lei e ancora e ancora
senza mai fine, l’aria fidanzarsi
negli sguardi e ossidarsi un pensiero
sarà vero, sarà vero… ma l’occhio
è cresciuto per poco, è tornato
bambino cristallo si è rotto
il mio occhio immaginario
immaginandosi troppo ma non c’è
più nessuno che piange
per me nessuno a cui tendere
la mano… sarà vero, sarà sogno
più vero svegliarsi e guardare
nel vuoto se il vuoto è lo sguardo?
Ho immaginato di avere: qualcosa
da guardare, una mano cresciuta
sul cuore una mano più grande
pensare per me, la mia vita
veramente stretta nel pugno; ma
ho immaginato lo stesso, qualcuno
con me a immaginare, più niente
se niente è reale, se io vivo di questo
per te che non sai immaginarmi.

UNA SOLA NOTTE

Ogni volta che passo il varco
della notte, una solitudine mi vede
espandere un’altra notte precedente,
ed è un futuro a non promettere
più niente, a tenermi così stretto
ai miei luoghi ciechi; eppure io
così cieco vedo quel luogo dove
qualcosa vive, ma sento nuove vite
in cui ero già stato; e forse non è tutto
vero ciò che cresce, forse continua
solo per distanziarsi; forse è crescita
bugiarda ciò che nasce o per davvero
l’unica risposta il buio più dentro; forse
è scia che non centra l’energia o il vento
attraversando corpi ottusi forse è scia
di un’altra vita che poi cambia tutto: viene
e non restituisce, la scia ciò che fulmina
la notte; viene e non rivive me più di una
volta, la notte viene in me e non mi vive
solo una volta, ma viene sempre la notte
e perde me da quella volta, da sola viene
dentro me la notte, senza di me a vedermi.

LETTERA AD UN FIGLIO NON MIO

Precipitano i livelli, se stai a pensarci
l’economia ti fotte gli anni, figlio non mio,
i migliori schieramenti, i personalissimi
giochi e gli sguardi degli amici, se ci pensi
non riconosci più nessuno ora che la fila
si è fatta lunga, ora che le tende le tirano tutti
fino a strappare il sorriso rimasto fuori
dai tagli statali, e siamo in tanti ad avanzare
senza il ricordo di un sorriso, siamo in molti sorridenti
per indifferenza verso la felicità, lo sappiamo bene, figlio,
non esiste la felicità, è solo un marchio non registrato
dalle società delle cioccolate fondenti, eppure sorridiamo
come catalogati, assortiti in uno strano giorno di cioccolata,
squagliamo cervelli tra bustine inzuppate e specchi sozzi,
e le polverine magiche che ci fanno sorridere e piangere chiodi
se ci abbracciamo con un amico sentiamo le spine
dell’indifferenza infilzare l’identità della potente droga, lo stato
vuole questo, sentirci indifferenti alle infilzate. Impara presto,
figlio non mio, il nuovo sorriso, impara a prendere puntuale
la pillola della dimenticanza, sì, figlio non mio, dimentica
il sorriso che ti ho negato, restatene nella pancia infilzata
della mamma, io non ho droghe migliori né cioccolate più dolci,
io non ho regali lucenti, né specchi sicuri, io ho solo paura
di vederti sorridere.

(dal ciclo di poesie “TSO”)

II

Si sono chiamate da sole le spiagge,
appartate in un unico sentire più sole,
più sole nonostante i paesani lombrichi
e così i boschi e le calunnie degli alberi
fiorire sempre verdi, sempre distanti
a un certo punto della distanza
è accaduto che si è fuso il perdono,
e che l’oro colato non si è fermato
al piombo sbagliato della sostanza, no
ma che per confusione l’attacco finale
incominciando a deridersi, ha disunito
cicatrici già sparse per il globo spaccato
e la carnagione della terra con pezzetti
spinosi di cielo, e l’hanno fatto male davvero
l’uomo di poca volontà, eccolo ferito stride
finalmente da sveglio, aperto all’emozione
bianca come sfumato dal suo cadavere,
e stride in quell’attimo, per sempre, fermato
nell’ascolto perpetuo del rumore selvatico,
avverte l’ondata che non può ferirlo ma solo
fermare il suo stridere a tempo. Perciò si è
chiamati da soli, risposta, senza sapere
come il bosco nel buio riposi, e le spiagge
sibilline sparendo nel vano del mare come
disteso un ognuno da solo, potendo l’ascolto.

VI

Ma io vorrei leggere davvero i semi
se sono veri quelli dell’autunno invece
mi trovo sempre solo in mezzo a steppe
di amici e a mani fredde eppure nessuno
muore col sorriso appeso alla sorte della
memoria universale se ci pensi arriva fino
ai primi anni quel prodigio familiare poi finta
la retromarcia se ti sgama dentro sé fa nebbia
prima ancora dell’adunata generale si dirada
la sua voglia di sbocciare tra i due bronchi
della notte sussurrata a poche mani. Ma è
miracolo così chiaro esserci ancora sebbene
qualcuno voglia fare fuori noi mentre svegliamo
i simboli del corpo e sono gli stessi della mente
li vediamo così chiari eppure spegnersi di colpo
così uccidono le ore e la tranquillità di ogni vita
fatta di stracci e di illusioni, dietro schermi tutti
uguali stando bene senza riflessi, se ci pensi
noi accadiamo non nel tempo però nessuno
viene a dirlo. Se te ne accorgi loro sanno che
tu sei morto camminando senza piedi. Però
non interessa più alla gente ricordare la paura
perché paura è troppo forte da temere allora
meglio aver paura di sapere forse è vero che da
un certo punto in poi l’oro diventa marcio sincero
se la sola cosa a tenere in vita è l’indifferenza io
riscrivo la sentenza: se mi lancio, fingo di cadere.

NESSUN POTERE

Non avete nessun potere. Oltre lo sguardo,
non avete nessun potere. C’è un muro bianco
di fianco che aspetta, tutti aspetta e non cresce
e non crolla, ma è uguale per tutti, è distanza
di ognuno, per un po’. Contro quel muro, tu non
hai nessun potere. Sembra temere solo lo sguardo
il tuo muro, sembra temere solo il riflesso di te
che ti muovi in silenzio. Eppure tu non hai più
nessun potere. Tu sei solo il tuo muro distante.
Però nessuno ha il suo potere, più di te se sai
di essere muro, oltre il tuo sguardo nessuno
sa di essere te, senza scavalcare il potere del
muro di ogni essere solo. Quello è il vero potere.

NON È PER TUTTI

Esiste un mattino ma non è
per tutti. Si alza da sé cresce
un volo di rogne. E non è per
tutti. Non è per tutti sapere
il mattino, alzare una specie
di nebbia in qualcosa quel livido
dove ognuno può riconoscersi. Ma
non è per tutti. Non tutti possono,
non tutti sanno il mattino, non a
tutti è dato capire se il cielo è un bel
velo, se davvero riflette o se esclude. Però
perché dire il falso? È per tutti lo stesso
cielo a squarciare, è per tutti uno sbalzo
nel nero o soltanto il gelo della promessa
se per tutti vale la sfera, il mondo girato
nella mano nemica. Se per tutti è straniero,
meglio si dica: non contate più troppe stelle.
Ma no, non è per tutti, se il mattino dirada
le piogge se le nuvole atrofizzano i volti se
l’aurora non finge e mostra la terra. Non è
per tutti se ritorna a costringere il buio al suo
specchio, se si mostra più caldo e se apre
nel ventre la voragine umana. Se la notte
combacia i silenzi, non è per tutti starsene
zitti. Allora cresce ancora in miseria, da una
scatola nera l’ombra terrestre. Quella è per tutti.

COLORE DEI CANI

Vorrei piangere con i miei amici
almeno una volta essere come loro
al fischio della chiamata. Così
da perdermi l’esecuzione
ogni giorno, quando i miei cani
diventano neri e se ne vanno
senza più strada. Ma gli amici miei
piangono dopo, se poi rimangono
un po’ più da soli, i loro cani
ancora al guinzaglio, questi lo sanno
di che colore è la fuga.

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(da “Un luogo neutrale” Edizioni Il Foglio, collana curata da Cinzia Demi, Piombino, 2015)

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Daniele Ventre (Napoli, 19 maggio 1974) insegna lingue classiche nei licei ed è autore di una traduzione isometra dell'Iliade, pubblicata nel 2010 per i tipi della casa editrice Mesogea (Messina).
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