Articolo precedente
Articolo successivo

Braccia rubate (al cinema) – atto II

roland-topor-10

Illustrazione di Roland Topor

 

Ecco il secondo atto della rubrica « Braccia rubate (al cinema) », corredato da una breve bio-filmografia dell’autore e da un link a un film che evoca il testo (o viceversa). Le seconde braccia rubate sono quelle di Manuel Maria Almereyda Perrone con le sue tre storie di lupi, Lavizzari e bulbi oculari.

 

ANTI-FAVOLA

 

Francia, massiccio centrale, febbraio 2017

Trovati morti ancora dodici lupi.

Negli ultimi mesi la carneficina di lupi è aumentata in modo allarmante: sono ormai migliaia gli esemplari trovati morti in questa regione montagnosa.

Compito ingrato quello della polizia locale che cerca di mettere un freno a questi atti criminali, difficili da perseguire perché le vittime sono animali, e contro un’opinione pubblica che disprezza i lupi e chiude volentieri un occhio su questo massacro.

Tutto porta a pensare che non si tratti di casi isolati ma che siano tutti opera della stessa persona che agisce con freddezza e premeditazione.

I lupi sono attirati nel bosco, con cestini pieni di leccornie.

Storditi dal cibo sono legati e travestiti con abiti da pensionata.

In seguito, in questo atto barbarico, gli viene inserito un bambolotto di plastica nel ventre lacerato.

Tutto questo mentre sono ancora in vita. Moribondi sono infine violentati e sgozzati nel momento del piacere.

Il giornale locale è stato vittima di un attentato dopo una serie di articoli che esigevano una presa di posizione della popolazione accusandola di nascondere e assecondare il probabile mandatario di questi atroci delitti.

Nell’ultimo articolo appaiono alcune foto, scattate da un cacciatore che aveva assistito alla scena e sfuggito per puro miracolo, che lasciano poco spazio ai commenti e stordiscono per la loro crudezza: una bambina di sette anni, bionda, vestita di un impermeabile rosso e ricoperta dal sangue del povero animale che sta torturando con un sorriso innocente.

 

LA GUERRA DEL PESO

 

Si è detto a lungo che il quadro di Lavizzari sia uno dei più suggestivi della sua epoca.

A cavallo tra l’alto e il basso medioevo il quadro rappresenta il ponte tra questi due mondi, le credenze e l’immaginario di popolazioni così diverse tra loro.

La guerra del peso, dipinto dal maestro nella primavera dell’anno mille, raffigura due popoli che scendono da due valli contrastanti per affrontarsi in un corpo a corpo sanguinario.

Due donne in primo piano, avvinghiate tra di loro, traspirano tutto il rancore della guerra, il sudore e la polvere sono magistralmente raffigurati dal maestro con un utilizzo di colori tenui in una scala cromatica per il resto dai toni forti e generosi, tecnica ancora sconosciuta all’epoca e poi ripresa dalle scuole della Bassa Sassonia e dai maestri rinascimentali.

Le due donne raffigurano la sintesi dei gusti a cavallo tra le due epoche, una opulenta e imponente con un seno prosperoso, l’altra dal corpo asciutto, scaltra agile e muscolosa, un seno piccolo e appuntito.

Ogni donna è seguita da un popolo di persone, da una parte magri e agili dall’altra grassi e imponenti.

La battaglia è un abbraccio di questi due popoli, avvinghiati in questo corpo a corpo silenzioso.

Per questo motivo da sempre questo quadro è stato considerato un grande capolavoro d’avanguardia rispetto ai suoi tempi.

Una rappresentazione tangibile dell’immaginario collettivo, un esempio della sua trasformazione tra due epoche, da un periodo di prosperità economica rappresentato da donne formose coi seni prominenti a un periodo di miseria in cui l’ideale è rappresentato dalla scaltrezza e la forza di sopravvivenza.

Nel Medioevo il processo di cristianizzazione porta in effetti ad un radicale cambiamento nel modo in cui viene percepita la figura femminile.

L’austera morale medioevale definisce i nuovi canoni estetici del corpo della donna: esile e acerbo per dimostrarne la castità e la purezza, con i fianchi stretti, il seno appena abbozzato, ma il ventre prominente, indice di fecondità in quanto madre.

In epoche successive questo conflitto e questa trasformazione si sarebbero ripetute a vari intervalli.

Forse la guerra intestina più importante nella storia dell’umanità: la guerra tra grassi e magri.

Quello che si conosce meno è la storia intima del maestro e le origini del quadro.

Uno studioso svedese, Jolaf Sberdensen, ha scritto un ottimo testo proponendo un parallelo con il mistero delle valli gemelle, mistero che data della stessa epoca del Lavizzari e anzi, secondo lo studioso il mistero non sarebbe altro che la storia riprodotta nel quadro.

Visione piuttosto imbarazzante perché relegherebbe il capolavoro del maestro a una semplice cronaca di fatti e non uno sguardo sensibile sull’umanità e i suoi complessi.

Sberdensen si perde un po’ in questa polemica sterile, dato che qualunque sia la fonte di ispirazione il quadro è un capolavoro anche per l’equilibrio delle parti, la sovrapposizione di tecniche, la sensibilità e la ricchezza di dettagli, in cui non è da meno la precisione anatomica, anch’essa piuttosto insolita per l’epoca.

Ma non c’è bisogno di perdersi a difendere un artista che non ha altro argomento di aver sopravvissuto nel tempo e aver continuato a dialogare coi suoi posteri, mille anni dopo, con assoluta pertinenza.

Molti poeti hanno citato il maestro, nei secoli, in modo più o meno esplicito.

Basti ricordarsi i famosi versi di Leopardi – ai tu che al cuor fece bilancia – nei suoi teneri sonetti di gioventù.

La scuola freudiana ha fatto suo lo sguardo del maestro sintetizzando i disturbi alla base di anoressia e bulimia come il complesso di Lavizzari.

Perfino in medicina il nodone di Lavizzari fa riferimento all’infiammazione dei neurostrasmettitori che si occupano dello smaltimento del grasso.

L’imponente opera di Botero non si potrebbe capire senza considerare una certa vena di provocazione al maestro.

Famosa è anche la storia del quadro.

Rifiutato dalla società dei duchi, che avevano commissionato l’opera a Lavizzari, probabilmente a causa del loro rinomato complesso estetico, il quadro è finito per secoli nel dimenticatoio, prima di diventare una delle opere di riferimento per tutta una generazione di pittori barocchi, che ne vedevano una chiara rappresentazione del potere delle forme e della vittoria dell’opulenza.

Durante i primi anni del Ventesimo secolo, invece se ne ricordano le riproduzioni su manifesti di propaganda politica, esortando un popolo magro e coraggioso a difendersi a ribellarsi a un nemico grasso e inattaccabile.

Il quadro per anni ha occupato una delle sale più importanti del Musée du Louvre, a Parigi.

Recentemente ha ancora fatto parlare di sé dopo essere stato oggetto di vandalismo dalla famigerata società dei custodi del grammo.

La polemica che ne è scaturita ha portato il governo francese a proibirlo per oscenità e provocazione della morale di uguaglianza e fratellanza dei popoli.

Da quel momento si trova nelle cantine del museo, malgrado le insistenti domande da parte di musei di tutto il mondo, in attesa della fine di un processo che probabilmente durerà ancora molto tempo.

Quello che stupisce in tutta questa storia è che, malgrado il quadro abbia suscitato forti reazioni, sia stato soggetto di vari saggi e sia un pilastro della storia dell’arte, un elemento non viene mai citato al proposito, anche se è senza dubbio essenziale per capire l’opera del maestro e la sensibilità del suo capolavoro.

Lavizzari era cieco.

UN OCCHIO

 

Un giorno sono andato a pescare nei mari del Sud.

Seduto su una sedia in metallo pieghevole, un secchio a terra pieno a metà d’acqua e la sigaretta tra i denti per salvarla dal vento, ho pescato un occhio.

Un occhio grosso, scivoloso come un pesce, caldo e morbido.

Aveva dei tentacoli come lunghe ciglia e non si capiva se sopra e sotto gli spuntassero pure due piccole pinne.

La sera raccontando l’accaduto, in una taverna di poca cosa, attorno a un tavolo grezzo e ricoperto di bottiglie, i vecchi avventori, che di notte sono pescatori, mi hanno spiegato.

Nei mari del sud capita spesso di pescare un occhio, un naso o una bocca.

 

FINE

Manuel Maria Almereyda Perrone,(03/12/1981), svizzero di origine napoletana e tedesca, si forma in teatro, scopre il linguaggio cinematografico per caso, lavorando con un gruppo di donne anziane (da 80 a 90 anni) a Buenos Aires su un progetto teatrale, per adattarsi ai problemi di energia e memoria del gruppo.

Ha fondato a Marsiglia, dove vive e lavora, l’Agence de l’Erreur (www.lerreur.fr) con cui ha prodotto Rêves d’occasion, 2012, di cui l’episodio Santex è stato distribuito da Canal Plus, Adios Muchacha, che ha avuto il premio Paca al Festival di Nizza. Lavora in questo momento come assistente di Cid Hamet Ben Engeli su un adattamento cinematografico di Don Quichotte de la Mancha. Ha avuto il premio Unesco della città di Trieste per la sua poesia Ho camminato nel giardino dei vecchi ed è stato finalista del premio di drammaturgia Oltreparola per la pièce Agonia di un angelo.

Print Friendly, PDF & Email

articoli correlati

Il sommo revival di Tondelli – Gabriele Galligani

Saggio su Tondelli e la letteratura del male di Gabriele Galligani.

La nostalgia che avremo di noi – Anna Voltaggio, Neri Pozza

Estratto dall'esordio letterario di Anna Voltaggio edito Neri Pozza.

“Nome e Lagrime” di Elio Vittorini – nuova edizione Bompiani

Nota critica alla nuova edizione Bompiani di "Nome e Lagrime" di Elio Vittorini

Felicia Buonomo – tre racconti brevi

Tre brevi racconti inediti

Disfacimenti

di Manuel Maria Perrone
Abbiamo parlato troppo. Abbiamo detto tutto. Però: a me piaceva quel profumo, le notti d’estate, quando si stava zitti.

Note d’altrove #2  – Gianluca Cangemi

  Due poesie inedite di Gianluca Cangemi   Ho le mani impolverate di pollini e galassie. Saetta la serpe. La polvere di un sorriso mi...
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: