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Il protocollo

 

di Ornella Tajani

Chi se ne frega che è morto Heaney, in Siria c’è la guerra (cit.)

Si è tornati sin troppo spesso sulla questione del tasto “non mi piace”, un tasto che a Zuckerberg proprio non piace e non piacerà mai, poiché implicherebbe una democratizzazione -reale e non apparente- del sistema. La community che Facebook ha creato e vuole mantenere è composta di persone che trovano il modo di andare d’accordo tra loro, e non esattamente di persone che devono seguire le direttive di un capo, come suggerisce l’analogia con la sovranità nel pezzo di Luca Sforza apparso ieri su Alfabeta. Facebook vuole che non litighiamo, che stiamo buoni come bambini, tenendoci per mano sotto il sole dell’accordo categorico con l’essere. Ma noi, utenti ribelli come pesci dentro la boccia, litighiamo lo stesso. Ad esempio quando qualcuno non rispetta l’ormai consolidato protocollo.
Il protocollo è l’applicazione dell’eticamente corretto, la convinzione per la quale l’utente ritiene di sapere cosa vada postato in quel determinato giorno. Esempio: il giorno dopo la vittoria di Miss Italia aureolata da un’infelicissima battuta, per Erri De Luca è stata richiesta una condanna di otto mesi. Su Facebook dobbiamo dunque parlare di De Luca e non di Miss Italia. Senza voler neanche lontanamente porre sullo stesso piano d’importanza i due eventi, non è forse pericoloso anche il discorso del “ciò che si deve dire”, che inevitabilmente si trascina dietro, seppur con un guinzaglio lungo, “quello che non si deve dire” (proprio ciò per cui l’autore è finito sotto processo, fra l’altro)? Inoltre, esulando dagli esempi specifici, non sono libera di non parlare d’attualità? Da qualche parte, in un punto sempre meno indefinito, finisce la mia libertà di utente che scrive quello che le pare sulla propria bacheca e inizia l’obbligo al cospetto della comunità di partecipare a qualche tipo di mobilitazione virtuale (perfettamente sintetizzato nella funzione “parteciperò” creata per gli eventi Facebook; sappiamo in quanti casi partecipiamo soltanto virtualmente).
C’è un po’ da riflettere sull’alterazione che la nostra capacità empatica subisce attraverso il mezzo; è come se il social network volesse imbrigliarla, canalizzarla, visto che se esprimo tristezza per la morte di un poeta che mi piace corro il rischio di essere rimproverata perché non mi occupo di questioni umanitarie più urgenti. Da qualche parte esiste una gerarchia di argomenti e sentimenti da rispettare.
Poniamo un altro caso. È mattina, mi sveglio, controllo la posta, apro Facebook, vedo la foto del bambino morto sulla spiaggia turca. È una foto scioccante, per quanto un’ulteriore foto di un dramma che conosco sia ancora in grado di scioccarmi. Ma in verità non ho molto tempo per provare uno choc perché, immediatamente dopo aver visto la foto, il flusso di informazioni in cui sono immersa mi trascina dentro le polemiche a proposito dell’opportunità della pubblicazione, o del titolo che un giornale ha scelto di usare: eventuali slanci di empatia, solidarietà, turbamento vengono frenati e ciò che leggo chiama in causa un mio giudizio intellettuale. Leggo i vari pareri in maniera disordinata: “è giusto far vedere quello che succede”, “no, non è giusto”, “aveva più senso la foto con anche il soldato”, eccetera.
Non so se in questo tipo di speculazione ci sia già quel germe di razzismo di cui parlava Luigi Manconi in un articolo su Internazionale: non so, cioè, se il solo fatto di mettermi immediatamente a disquisire sull’opportunità o meno di pubblicare la foto di un bambino morto sia già sintomo di una mia scarsa partecipazione ai problemi di una categoria –i migranti- che considero altro da me (il famoso “noi” e “loro”, l’opposizione grammaticale più nociva della storia). Forse questa è una conclusione affrettata.
Quel che è certo è che la questione in sé, politica, umana, passa in secondo piano: secondo la consueta prassi, il medium diventa il messaggio e il messaggio si offusca. In un attimo non sto più parlando né pensando a ciò che è successo, ma a come bisogna raccontarlo, come se questo unico scrupolo etico mi esonerasse da tutto il resto: documentarmi su quello che accade, registrare le dichiarazioni, le eventuali ipotesi di intervento; e, in ultima istanza, considerare il sentimento che provo di fronte alla foto. Perché l’obiettivo di una foto del genere è soprattutto quello di scuotermi anche a livello emotivo, di farmi sentire addosso un disagio, recapitarmi una pur minima traccia del dramma in corso.
Il protocollo stabilisce di cosa devo parlare, come mi devo emozionare, quando devo mettere da parte l’empatia. Se commetto un errore, è la comunità di utenti a fustigarmi (come accennavo già un po’ di tempo fa), senza alcun bisogno di un tasto per esprimere disapprovazione. Zuckerberg declina tutto in positivo: se è vero che sta progettando delle funzioni per esprimere una fascia ampia di sentimenti, c’è da scommettere che si tratti di tasti tipo “mi emoziona” piuttosto che “mi lascia del tutto indifferente”. Quel che a Facebook interessa è il controllo; ad omologarci, dopo aver messo qualche bacheca a ferro e fuoco, ci pensiamo da soli.

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8 Commenti

  1. ma insomma, che temini, che orizzonti (limitati e limitati), da un pezzo mai (su NI) qualcosa che vibri e faccia vibrare

  2. Io trovo questi articoli su fb sempre più divertenti. Tempo fa uscì un pippone immenso di Vasta che “spiegava” perché a fb non c’era il tasto non mi piace, perché vogliono rimuovere il negativo, diceva. Ora voglio vedere se lo mettono quando ammetterà di aver scritto una cazzata. E qua pure, vedo continuano le paranoie sul controllo di fb: fb vuole questo, quest’altro eccetera. La presenza del tasto non ha nulla a che vedere con la fantomatica democratizzazione del sistema. Primo perché non c’è nessun sistema e secondo perché come ti accorgi da sola, le persone su fb litigano tranquillamente e già esprimono il proprio dissenso, per non parlare di vere e proprie pagine odiose, che curiosamente non vengono rimosse perché non violano i parametri della comunità. Il che basta a smentire, se ce ne fosse bisogno, il tuo assunto che fb ci vuole tutti sereni e mano nella mano. Il protocollo non stabilisce proprio nulla, e la distinzine noi e loro è una robetta che si è evoluta per milioni di anni, quando ancora le grammatiche non erano neanche teoriche. Il razzismo è condizione naturale di ogni essere umano e animale. Il motivo per cui non passi molto tempo a pensare a quella foto ma passi a pensare a cosa dirne o altro non dipende da fb, dipende dal fatto che fondamentalmente non te ne frega niente, come è umano che sia, dato che quel bambino non è tuo figlio, non ti è parente, è appunto altro da te, perché così siamo fatti, fb o non fb. Quello che potresti fare, invece di delegare ad altri responsabilità tue, è ammetterlo.

  3. Che fb ci voglia uniti e solidali è una provocazione; certo che ci sono i modi per esprimere il dissenso. Il punto è quali sono questi modi: ce ne sono di un certo tipo, e non di un altro. Magari non c’è il tasto “non mi piace” perché questa funzione porterebbe alcuni utenti, tanto per fare il primo esempio che mi viene in mente, a sentirsi denigrati anche dalla comunità costituita dal proprio gruppo di amici, e magari spingerebbe molti a cancellare il proprio profilo, o a ridurre drasticamente l’uso che fanno di facebook. Invece continuano a esistere pagine “odiose”, come scrivi tu, perché c’è gente che su quelle pagine ci va; a facebook, che è un’azienda, non frega nulla di quello che si fa su facebook, l’importante è che lo si usi e che non se ne esca. Gli scrupoli etici sono una minima salvaguardia d’apparenza necessaria.
    Provo solo a fare qualche riflessione sulla base di quello che vedo; riflessione che può essere assolutamente non condivisa. Mi interessano i modi in cui, all’interno del social network, e sulla base dell’interazione con gli altri, sulla base anche di una certa frequenza di modalità di espressione, la sensibilità subisce delle modificazioni.
    Il razzismo non è una condizione naturale e le parentele non c’entrano niente, se un argomento non interessa si potrebbe semplicemente non parlarne; invece se ne parla, ma, di nuovo, in un certo modo. Era un paio di queste modalità che volevo prendere in considerazione.

    • i motivi per cui non c’è il tasto “non mi piace” sono stati spiegati, all’epoca in cui se ne parlò. Io penso che sia irrilevante che ci sia o meno, ed è molto facile spiegarlo. Mentre tu con altri andate investigando su motivazioni basandovi su cosa? su quello che andate divulgando sia l’ideologia di fb, e lo fate ancora basandovi su cosa?. Il tasto non mi piace non cambierebbe una virgola, le persone stanno o meno su fb per motivi che nulla hanno a che vedere con una opzione del genere. Se credi il contrario dovresti portare un minimo di prove. Del tipo convincere i lettori che la potenza del non mi piace è maggiore dell’indifferenza (esprimere indifferenza manifestandola è pure un controsenso, se mi sei indifferente non ci tengo a dirtelo, altrimenti non è vero che mi sei indifferente, dato che perdo tempo a dirtelo) e degli insulti che regolarmente fioccano su fb. A me sembra solo che intelligente l’idea che il tasto non mi piace è ambiguo, e se si vuole esprimere qualcosa di negativo ci sono le parole per farlo. Questa riflessione non ha molto a che vedere con il controllo del dissenso, è molto più banale e non vede macchinazioni dietro. So che provi a fare delle riflessioni. A me sembrano inconsistenti. Anzitutto tu parti dal presupposto che la sensibilità si modifichi, e ti interroghi sul come avviene, ma prima dovresti dimostrare che è così. Poi vorrei vedere che sul NI vi impegnaste per cacciarli i lettori.

      Sul razzismo ti sbagli, ma pensala come vuoi, io ti ho solo fatto notare che il tempo che dedichi al dolore per gli altri dipende da te, non dalla timeline di fb. Però se vuoi puoi credere benissimo che il mezzo alteri la nostra empatia e il flusso di informazioni ci trascini qua e là, a me sembra una sciocchezza, ma vabbè. Di solito quando hai un lutto che ti riguarda non stai su fb a cazzeggiare, mentre è del tutto normale cazzeggiare mentre si vedono bambini morti in foto, perché appunto non ce ne può fregare di meno. infatti concordo quando dici che a omologarci ci pensiamo da soli. Non saremmo esseri umani altrimenti.

  4. Cara Ornella,
    la fenomenologia dei media tecnologici è sacrosanta, è importante, tanto più che per una sacco di gente vale ancora il luogo comune che il mezzo è neutro, che tutto dipende da come lo usi, e mogli e buoi dei paesi tuoi, e tanto va la gatta al lardo. La fenomenologia degli usi è anche uno dei modi più diretti e accessibili – senza passare per grandi campate teoriche, che pure sono necessarie – per creare una minima “distanza critica” tra noi e il mezzo.

    Naturalmente spiriti superiori potranno dirsi completamente “al di sopra” delle silenziose pressioni sociali che il funzionamento di FB, ad esempio, rende ben palpabili. Io che come te sono uno spirito “normale”, invece, queste gerarchie più o meno implicite le percepisco. Il problema è che siamo di fronte a una confusione tra due spazi disomogenei. Sul piano dello spazio politico, non c’è dubbio che De Luca viene prima di Miss Italia. Ma FB è uno spazio politico? Per me no, anche se puo’ diventarlo accidentalmente. Per me FB è uno spazio bastardo, ibrido, tra pubblico e privato, ed è questo suo carattere costitutivamente ibrido a non renderlo innanzitutto uno spazio politico, ossia prevalentemente pubblico. Ma questo discorso andrebbe approfondito.

    Termino con un’altra osservazione. Ti ringrazio di aver scritto quello che hai scritto sulle reazione “in rete” e altrove intorno alla foto del bambino annegato. In un contesto come quello attuale, la disquisizione da specialista dei media, che tutti diventano come si diventa specialisti di pallone sotto i mondiali, mi sembra manifestazione di intelligenza sprecata, e di capacità empatiche pericolosamente a secco.

  5. Parto dall’articolo di Luca Sforza che citi, il cui nocciolo è secondo me:

    Da un sistema siffatto – totalitario, antidemocratico, antisociale – bisognerebbe fuggire dopo avere gridato: Facebook non mi piace! […] oppure contestarlo, democratizzarlo davvero e così come un tempo si voleva portare la democrazia in fabbrica, oltre i cancelli, così bisognerebbe fare per la rete e per i social network: portare la democrazia dentro Facebook (e non solo), ridare la sovranità al popolo/demos, perché Facebook – più che una community – sia una vera società[…]
    Se Facebook non è democratico, e non è neppure una società, ma purtroppo sta diventando un modello. Che troppi stanno cercando di imitare nella realtà.

    Una proposta contraddittoria la sua quindi, riconoscendo il limite che FB ha. Più che una fabbrica dove esistono rapporti di lavoro, ruoli economici, politica e diritti, userei la metafora del supermercato, dove i ruoli sono quello del consumatore, i diritti riguardano la conformità delle merci e dove soprattutto l’esperienza è plasmata dalle regole del marketing e non dalle esigenze produttive (portatrici, quanto meno, di una loro razionalità professionale che può fare crescere l’individuo).

    FB è quindi un laboratorio skinneriano in cui siamo attirati e sottoposti a stimoli allo scopo di ottenere comportamenti conformi. Come scrivevo a Ornella:

    Quando sei sul SN esso imbriglia e canalizza veramente la tua empatia le tue doti sentimenti ed esperienze e ne fa salsicce dal gusto immondo che distrattamente pilucchi insieme a tutti gli utenti mentre sei sempre sul SN pensando di fare altro

    Su Nazione Indiana abbiamo pubblicato in particolare una critica su queste linee de Nell’acquario di Facebook, di Ippolita:
    https://www.nazioneindiana.com/2012/06/08/nellacquario-di-facebook/
    Ornella stessa cita il panopticon a proposito di Facebook qui:
    https://www.nazioneindiana.com/2014/06/24/lutente-al-guinzaglio-qualche-appunto-preliminare-sulle-strategie-punitive-di-facebook/
    Un’alra riflessione su social network, espressione di sé ed esibizione:
    https://www.nazioneindiana.com/2015/06/23/variazioni-del-dispositivo-dal-panopticon-allesibizione/

    Mi fermo per ora

  6. Andrea, grazie per la messa a fuoco, come immaginerai condivido punto per punto, anche a proposito del carattere ibrido dello spazio, che tuttavia mi pare diventi sempre più pubblico. Staremo a vedere che forme assumeranno i vari tipi di gerarchizzazione interna, anche tra i vari utenti.
    Anch’io Jan penso sia impossibile “contestare” Facebook dall’interno, al limite si possono evidenziarne dei meccanismi (che, dopo essersi diffusi sul web, possono passare oltre lo schermo, su questo concordo con Sforza). Ma di tutto ciò si parla sin dal libro di Ippolita.
    La mia impressione generale è che ormai ognuno si sia fatto una sua idea sui social: gli articoli in proposito fioccano e declinano qualsiasi argomento. E’ come se ormai avessimo capito come funzionano e ci dicessimo che li usiamo con cognizione di causa. Solo che poi, di fatto, la maggior parte delle cause ed effetti ci sfuggono o passano di mente.

  7. Vogliono farci credere protagonisti di un gioco di ruolo che viene da lontano (sempre per non farci approfondire altre questioni)

    http://youtu.be/gYNUOkqzcVA

    P.S. su youtube la funzione mi piace/non mi piace nemica del discernimento consapevole e delle puntualizzazioni esiste da tanto

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ornella tajani
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Ornella Tajani insegna Lingua e traduzione francese all'Università per Stranieri di Siena. Si occupa prevalentemente di studi di traduzione e di letteratura francese del XX secolo. È autrice dei libri Tradurre il pastiche (Mucchi, 2018) e Après Berman. Des études de cas pour une critique des traductions littéraires (ETS, 2021). Ha tradotto, fra vari autori, le Opere di Rimbaud per Marsilio (2019), e curato i volumi: Il battello ebbro (Mucchi, 2019); L'aquila a due teste di Jean Cocteau (Marchese 2011 - premio di traduzione Monselice "Leone Traverso" 2012); Tiresia di Marcel Jouhandeau (Marchese 2013). Oltre alle pubblicazioni abituali, per Nazione Indiana cura la rubrica Mots-clés, aperta ai contributi di lettori e lettrici.
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