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Una lettera

di Elisabetta Scantamburlo

Una lettera

Carissima,
ti sto scrivendo una lettera d’amore. Come ti accorgerai presto, non è una lettera d’addio, non è nemmeno la lettera di una sconosciuta ammiratrice che esce dall’ombra. Questa è la lettera scritta da un ricordo. L’autrice di questa lettera è un ricordo che viene da lontano, da un punto nella tua vita in cui il passato tuo e il mio erano una linea ancora breve e quella del futuro si allungava indefinitivamente davanti ai nostri occhi semiaperti. Ma è anche un ricordo che torna dal futuro. Ciò che non sono, non sono mai stata, mai sarò, il tuo e il mio presente, che mai combaciano. Non hai nome ormai e forse mai lo hai avuto, il mio l’ho dimenticato. Restano due corpi che si sono incontrati, visti, sfiorati forse, annusati. Restano i tuoi capelli rossi che da quando sei nata hanno disegnato in riccioli attorno al tuo corpo le vie della tua vita.

La prima volta che ti vidi era a casa di amici dei nostri genitori. In realtà credo che i nostri genitori non si conoscessero e che si fossero trovati per caso a casa di amici comuni nello stesso momento. Ti vidi subito da dietro. Non vedevo che i tuoi capelli ricci e rossi e mi incantai seguendo le linee che ogni riccio creava nell’aria che ti circondava. C’era anche un altro bambino e un’altra bambina. Non ti sentii pronunciare una parola. La bambina più grande era un tipo prepotente, stabiliva lei i giochi e le penitenze. Aveva stabilito che come penitenza io ti dovessi dare un bacio. Che cosa assurda e imbarazzante mi sembrava, io che allora mi vergognavo solo a tirare fuori la lingua dalla bocca. Non te lo diedi quel bacio. La bambina grande e cattiva mi spinse e insultò, mentre l’altro bambino che diplomaticamente stava dalla sua parte ridacchiava, mentre i nostri genitori erano lontani e ridevano per chissà cosa nella stanza accanto. Io restavo chiusa nella mia vergogna e nella mia incapacità di affrontare quell’antipatica. Dopo poco i grandi vennero a prenderci, era ora di andare. Prima però volevano farci una foto. Ce l’ho ancora, l’ho trovata qualche anno fa in un cassetto di vecchie foto a casa dei miei e l’ho presa. La foto ingiallita di quei colori delle foto degli anni settanta mostra quattro bambini, chi porta il pantalone a zampa, chi il maglioncino stretto. Io porto il mio muso inconsolabile. Tu guardi fuori della foto, forse tua madre che sorrideva a un amico. Quello che la foto non mostra è il bacio che tu mi desti di nascosto, veloce come se stessi rubando un cioccolatino da una scatola appena aperta, e il sorriso schietto, disarmato, pieno dell’innocenza dei bambini con cui mi lasciasti. Ricordo l’umidore che mi lasciasti sulla guancia, che di solito detestavo, quando era il rimasuglio di un bacio di zia o di nonna, ma il tuo non mi diede fastidio, anzi. E mi sembrava strano. Aveva lasciato la scia di un odore dolce di infanzia che mi si era appiccicato addosso, e che non volevo più togliermi. La sera mia mamma si arrabbiò perché insistevo a non farmi il bagno.

Quando ti vidi la seconda volta fu in una palestra. L’insegnante di danza creava movimenti che noi cercavamo di replicare come tante brutte copie di lei. Mi concentravo sul riflesso dello specchio, il viso sempre più rosso, il sudore sempre più bagnato. In ritardo, trafelata, con il nostro stesso fiatone, entrasti tu. O meglio, entrò una testa tonda e morbida di riccioli arancione, sotto cui si muoveva rapida e altrettanto morbida, una figuretta bianca in pantaloni verde militare e una maglietta bianca corta. Cercavi di metterti al passo con noi e facevi fatica, già ti girava la testa. Gli occhi, le sopracciglia e tutto il viso a seguire si corrucciavano ad ogni passo perso o in ritardo. Le braccia seguivano la scia dei nostri movimenti con dolcezza, non riuscivano a scrollarsi di dosso il languore della pigrizia insita nelle tue carni. Carni bianche e delicate. Ti tiravi su la maglietta per il calore e mi facevi dono per la prima volta del biancore di una pancia piccola e ben formata, tonica, ma che prometteva cedevolezza al bacio. Già sognavo di farla mia quella pancia e di baciarla fino ad addormentarmici sopra, cullata dal tuo respiro. Il tuo corpo nuotava mollemente nello spazio, cercando con le dita tenere i movimenti giusti. Il mio riflesso tradiva l’immagine di un corpo da ragazzo, adolescente, magro e nervoso, le spalle larghe, piene della sicurezza che spesso mi mancava a parole. Quelle parole che mi son venute meno quando, fuori dallo spogliatoio non ho saputo far altro che sorriderti senza nemmeno dirti ciao. Senza nemmeno chiederti come ti chiami, anche se poi alla fine non mi interessa niente dei nomi e sono solo le facce che ricordo. Uscivo dalla palestra correndo col pensiero alla futura lezione in cui ti avrei incontrata, senza accorgermi che già mi avevi lasciato un momento prezioso che si era già cristallizzato in passato, la visione dell’ora di lezione che mi aveva incantato e che non sapevo non si sarebbe ripetuta. Tu non tornasti.

Quando fu? Anni dopo ti rividi ancora, in un bar, all’ora dell’aperitivo, in un inverno che cala presto le tende del buio. Come sempre i tuoi ricci in fiamme mi annunciarono con battito di cuore la tua presenza. Poi vidi il trucco che ti disegnava il viso, rendendo più marcati i contorni, le linee che l’età aveva reso più decise. Ti scrutai da lontano, sorridendo e facendo malamente finta di seguire ciò che lo sconosciuto di fronte a me mi raccontava, probabilmente del suo lavoro. Tra me e te, parole urlate di gente sconosciuta, bicchieri liquidi, riflessi di lampadari e luci colorate, la maschera di una festa senza tema. Il mio occhio tornava a te che stavi dall’altra parte del bancone discorrendo con un uomo elegante in un abito sicuro e deciso. Il mio interlocutore sarà certamente passato a parlare di quello che di solito si dicono due persone che vivono a Milano ma che sono nate altrove, i piaceri e i dispiaceri di questa città straniera. Il mio naso si volgeva dalla tua parte cercando invano di percepire nell’aria una nota del tuo profumo, cercando scioccamente quel sentore di infanzia, l’unica cosa che un tempo mi avevi lasciato. Il mio cuore combatteva tra l’emozione di ritrovarti e la gelosia per quell’uomo che sfoggiava come gioielli tutte le sue mosse per sedurti. Ma tu no, non potevi cedere, ti muovevi col fare sicuro di chi conosce il proprio fascino, ma concede solo l’amicizia di una serata. Il tuo profumo te lo tenevi per te.

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Antonio Sparzani, vicentino di nascita, nato durante la guerra, dopo un ottimo liceo classico, una laurea in fisica a Pavia e successivo diploma di perfezionamento in fisica teorica, ha insegnato fisica per decenni all’Università di Milano. Negli ultimi anni il suo corso si chiamava Fondamenti della fisica e gli piaceva molto propinarlo agli studenti. Convintosi definitivamente che i saperi dell’uomo non vadano divisi, cerca da anni di riunire alcuni dei numerosi pezzetti nei quali tali saperi sono stati negli ultimi secoli orribilmente divisi. Soprattutto fisica e letteratura. Con questo fine in testa ha scritto Relatività, quante storie – un percorso scientifico-letterario tra relativo e assoluto (Bollati Boringhieri 2003) e ha poi curato, raggiunta l’età della pensione, con Giuliano Boccali, il volume Le virtù dell’inerzia (Bollati Boringhieri 2006). Ha curato due volumi del fisico Wolfgang Pauli, sempre per Bollati Boringhieri e ha poi tradotto e curato un saggio di Paul K. Feyerabend, Contro l’autonomia (Mimesis 2012). Ha quindi curato il voluminoso carteggio tra Wolfgang Pauli e Carl Gustav Jung (Moretti & Vitali 2016). È anche redattore del blog La poesia e lo spirito. Scrive poesie e raccontini quando non ne può fare a meno.
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