Dalla distanza

Mario de Santis intervista Gilda Policastro a proposito del suo romanzo Cella

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Partiamo dalla scelta della voce. Come è nata la scelta della  prima persona, diversamente dagli altri due romanzi di quella che consideri una trilogia narrativa ( “Farmaco-Sotto-Cella “) concentrandosi molto su un unico personaggio (anche se nel libro ce ne sono ovviamente altri)?

Dopo due libri in terza persona e però, al contempo, dei libri in versi con un io lirico molto marcato, anche ove fosse dissolto nelle voci comuni e nell’erlebte Rede, ho deciso di assumermi la responsabilità dell’io in prosa.
L’ho fatto con un personaggio molto distante da me, forse il più distante, tra quelli ideati in questi anni, e ciò ha consentito una libertà di sguardo che non sospettavo. È come se nella terza persona fosse insita la trappola dell’affezione: a questi personaggi che chiamiamo Giovanni o Mario finiamo per rapportarci con una cautela narrativa che non si dà se assumiamo la prima persona come specola. Nessuna premura verso chi dice io: è padrone della sua voce, può accettarne le conseguenze anche spiacevoli o drammatiche. L’unica preclusione narrativa è, a quel punto, la narrazione della morte, come notava Benjamin. Ma non ho nessuna voglia, al momento, di raccontare la morte: non dopo aver letto nei Buddenbrook le pagine insuperate e insuperabili su quella di Hanno, probabilmente tra le migliori morti letterarie mai raccontate. O non raccontate.

 
Ciò che la distingue prima nella relazione giovanissima con Giovanni, poi nella scelta di autorecludersi, in casa, come conseguenza o forse causa della sua depressione, la protagonista vive una particolare forma di “abbandono”  alle cose, all’accadere delle cose, all’eros. Si abbandona e al tempo stesso ha paura di essere abbandonata.. Puoi definire questo concetto di “abbandono” – di cui la stessa protagonista prova a dare definizione nel libro.

L’abbandono di cui parlo nel libro è un traslato. Quando ho scritto Il farmaco pensavo con fastidio all’idea che di una separazione amorosa si dicesse che era un lutto, e che questo lutto comportasse un’elaborazione. Chi ha attraversato il lutto sa che non c’è niente di paragonabile, nell’abbandono amoroso. Però è altrettanto vero che nella ritualità legata al lutto sopravvive un’idea di socialità che la separazione amorosa tronca invece del tutto: si rompe un’unità, qualcosa che prevedeva un lessico, delle consuetudini. Questa separazione non è quasi mai bilaterale, e dunque ho pensato che in qualche modo poteva fungere da travestimento del vero abbandono, che è nella fattispecie quello del padre, della figura maschile intesa come complice, riferimento ideale. Il padre che leggeva il giornale e con cui la protagonista parlava di politica non è meno importante del suo compagno, alla fine. C’è un lutto, in questa storia, ma è nascosto dall’abbandono, al contrario di ciò che avveniva nel Farmaco, all’altezza del quale il lutto poteva fungere da specimen di una qualunque separazione. Almeno come obiettivo polemico, ecco.

 
Centrale in questo abbandono è il rapporto con il sesso: lo vive con una partecipazione ma pure con indolenza, è animalesca e distaccata al tempo stesso. Che cosa è per “Cella” il sesso?

Mi verrebbe da dire niente di particolare. Ma non è così, a quanto pare, soprattutto per i lettori, che mi stupisco sempre di trovare stupiti rispetto al fatto che in un romanzo, a un certo punto, i protagonisti possano per così dire “interpretare” delle scene sessuali. Le mie sono piuttosto tipiche, io ritengo. Nel primo libro, a quanto mi si dice, prevaleva la fellatio, qui il sesso anale. Ma a me sembra che al di là del repertorio il sesso possa funzionare da pattern fisso, setting di un travestirsi che è proprio, alle volte, letterale. Il ridicolo e l’ossessività sono gli aspetti che attraversano le vite delle mie protagoniste, anche al di fuori di una sfera erotica o per così dire basso-materiale.
 
 
Obbedire al proprio corpo, rendere onore dice ad un certo punto a quel corpo desiderato è l’unica forma per sottrarsi ad un potere?
 
Guido Mazzoni l’ha detto in modo molto preciso, nel presentare il libro: la percezione del corpo, di quello proprio come altrui, da parte della protagonista è sempre legata all’invecchiamento, e alla perdita di potere che ne consegue. C’è un nesso molto forte tra giovinezza, fascino e seduzione, che è poi la coazione al desiderio della società merceologica.
 
 
Il rapporto con gli uomini è un rapporto col potere( medico, professore….) e il potere che descrivi qui come ne “Il Farmaco” si declina in un settore molto preciso, quello medico. Da dove nasce la scelta dell’ambiente medico come metafora dei rapporti di potere?
 
 Questa è una domanda molto opportuna, perché la prima volta che ho visto il potere incarnato in un essere umano non è stata in un ambiente di lavoro o ancor prima in famiglia, ma in un ospedale. Più che il medico è la malattia che ha il potere di cambiarti la vita, di determinarla lungo un corso diverso, talvolta opposto a quello che stavi percorrendo. Il medico, e il camice, su cui tanto insisto nella rappresentazione della vita mortale, per dirla alla Leopardi, è ancora una volta un travestimento: della beffa che è la vita, una cosa che va avanti in un certo modo fino a un certo punto e poi zac, in tutt’altra maniera. Sei vestito, dicevo nel Farmaco, e all’improvviso devi stare tutto il giorno in pigiama, non più padrone nemmeno dell’ora in cui vuoi andare a dormire. È metafora della vita stessa, evidentemente, di quanto sia intrinsecamente viziata al fondo da questa insospettabile (finché non la si esperisce in qualche modo) infermità, pronta a irrompere.
 
La stessa domanda che si fa Cella : la malattia ha senso? Che senso ha? È una metafora?
 
Sì, una metafora della condizione di precarietà ma anche di irripetibilità di ciascuna vita: non esistono corpi uguali, modi identici di funzionare, ciascun individuo è mondo a sé. E questo lo dice in modo drammatico l’inesistenza delle cure per le patologie che si somigliano, ma non coincidono, fisiche come psichiche. La scrittura stessa per alcuni è cura, per altri è patologia, come ho tentato di rappresentare nel Farmaco, a partire dall’ambivalenza del titolo.
 
Distante un padre, citazione da Milo De Angelis che emerge più volte.  Cella insegue in Giovanni un padre distante, come fa Dario alla  fine e come fa Elena,la figlia della protagonista e di Giovanni, che si attacca a Dario; come fa la stessa “Cella” con il Professore o con il medesimo Dario per somiglianza. Questa sarebbe la spiegazione psicologica della natura della  tensione    erotica e di relazione tra le varie monadi del libro. Tutto accade per questa centralità a distanza del padre?

Il padre fantasma, in generale il maschile fantasma, senza voler fare il verso a Recalcati, è certamente uno dei temi non solo del libro, ma di questi anni. Tema politico, direi proprio. I padri hanno disertato il dialogo e il conflitto con la generazione di cui faccio parte, noi stessi non abbiamo particolarmente cercato né l’alleanza né la frattura, quindi quel che predomina è un senso di smarrimento e di perdita di qualcosa che non si saprebbe nemmeno ben definire. Forse l’autorevolezza che coincideva con l’autorità, comunque una visione ideale che orientasse la prospettiva. La prigionia del proprio ego è stata un effetto di questa mutazione: il padre è stato cancellato nel momento in cui ha rifiutato di assumersi il compito dell’educazione ed è diventato un compagno di playstation.
 
 
Dario e Giovanni hanno una forma di somiglianza e adesione. Elena e Cella no.
Che senso ha questa discontinuità della linea materna, se è tale? C’è quasi un senso di estraneità tra loro…

 
Ancora una volta c’entra il dominio maschile (come tratto ideale, non di gender) e l’idea che al padre si voglia somigliare attraverso la carriera o almeno ereditandone le certezze materiali, i soldi e gli agi. La donna avverte di meno questa dinamica rivalitaria, la donna è dentro e dunque la partita è sulla seduzione, sul potere del corpo che si ridimensiona con gli anni. Ad avvertire questa spinta competitiva può essere la protagonista, non sua figlia che è già in un mondo a-ideologico e tutto sommato non trova nemmeno interessante indagare sul passato di una terrorista o farsi qualche domanda in più su sua madre. Nella scena del libro che qualche critico ha definito dell’incesto io vedo piuttosto l’identificazione, la fusione di Dario ed Elena nell’unità di ambizione e rivalsa, esattamente a imitazione del padre. In fondo “Cella” cos’altro ha chiesto se non di essere amata per sempre (è ironico).
 
Ho letto una recensione in cui veniva definito, come elogio, un romanzo “antifemmiile”: che ne pensi?

In generale sono ostile al femminile come categoria ancillare, sembra che accanto a una donna, piccola o grande che sia, debba comunque esserci un uomo.  Nella vita politica, culturale, nelle università, nelle aziende, nelle redazioni dei giornali le donne restano figure o maschilizzate o decorative. Ecco, in Cella a parlare è una donna che anche senza voler svelare il rovesciamento finale, assume comunque un punto di vista che è considerato maschile sul mondo, sul corpo, sulle relazioni. Lo smascheramento muove proprio dall’esigenza di confondere i piani, di metterli in discussione una volta di più. Insomma, Simone de Beauvoir resta la donna di Sartre, per chi non l’abbia mai letta. Ma se poi la leggi, è vero che la propensione alla memoria e all’autoanalisi ti fanno comunque pensare alla scrittura di una donna. Si può arrivare a scrivere un libro di cui non si possa dire che è scritto da una donna? L’ambizione era questa, o quanto meno il gioco.
 
Certo è sottomessa   – aspetta Giovanni, che la mantiene economicamente, si deprime del suo abbandono, si sottomette anche fisicamente a giochi erotici del professore – ma la sua sottomissione appare per il lettore parte del suo tentativo di trovare un’autonomia, fino a tentare anche una catalogazione psicoanalitica degli uomini che ha conosciuto. Però non esce dal paradosso della passività, per fare questo: come nella relazione Servo padrone di Hegel: il servo sa tutto del padrone, ma il padrone può tutto sul servo.

L’unico vero potere che le donne abbiano mai avuto nei confronti del dominio maschile è la differenza e la bellezza del loro corpo: purtroppo la resistenza passiva delle donne di Aristofane è, per contraltare, l’unica vera moneta di scambio. Bisognerebbe arrivare a essere temute, per essere realmente emancipate: ma non è facile perché le donne viaggiano spesso da sole, e gli uomini con tutta la scorta.
 
Spesso, in punti strategici, appare il verbo pensare: “tu pensi troppo” le dice ad un certo punto sua madre : rimugina come una romanziera, le dice la figlia – o forse come una filosofa? Lo possiamo prendere come un romanzo di formazione della coscienza  di un soggetto?   Almeno fino alla terzultima pagina….

Cito ancora una volta un intervento da una presentazione recente di Cella. In questo caso si trattava di Clotilde Bertoni, che da esperta di romanzo qual è, individuava nel mio ultimo due caratteristiche riconducibili a una tradizione di lunga durata: quella del monologo interiore e quella del lamento dell’eroina abbandonata. In entrambi i casi la focalizzazione interna porta a galla un momento di crisi, diceva opportunamente Bertoni, mentre in Cella a dominare è una condizione di stasi, di stagnazione. Dovuta, ipotizzava, al paese, alla realtà costrittiva in cui vive la protagonista, all’impossibilità, forse, di formarsi una coscienza se non attraverso il contatto fisico con persone colte, il compagno medico e politico, il professore e prima di tutti il dentista, figura archetipica di un’intrusione, un’invasione patente dello spazio attraverso cui ci si esprime. Quel “pensi troppo” è invece uno dei rarissimi momenti autobiografici del libro, e in generale della mia scrittura. Mia madre si è sempre espressa così, essendo strenua paladina di un’etica del fare che non prevedeva deroghe o intermittenze. Un tratto molto maschile, per tornare agli stereotipi e ai loro sovvertimenti. Non a caso la figura autoritaria della mia famiglia era lei. Mio padre era quello che “pensava troppo”, insieme alla sottoscritta. Insomma, forse quella prima persona a cui facevamo riferimento ha effettivamente comportato qualche sconfinamento nel privato delle memorie, cui mi autorizza peraltro la dialettica ininterrotta con gli scomparsi, che ha evidentemente una ricca tradizione letteraria alle spalle.

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Helena Janeczek è nata na Monaco di Baviera in una famiglia ebreo-polacca, vive in Italia da trentacinque anni. Dopo aver esordito con un libro di poesie edito da Suhrkamp, ha scelto l’italiano come lingua letteraria per opere di narrativa che spesso indagano il rapporto con la memoria storica del secolo passato. È autrice di Lezioni di tenebra (Mondadori, 1997, Guanda, 2011), Cibo (Mondadori, 2002), Le rondini di Montecassino (Guanda, 2010), che hanno vinto numerosi premi come il Premio Bagutta Opera Prima e il Premio Napoli. Co-organizza il festival letterario “SI-Scrittrici Insieme” a Somma Lombardo (VA). Il suo ultimo romanzo, La ragazza con la Leica (2017, Guanda) è stato finalista al Premio Campiello e ha vinto il Premio Bagutta e il Premio Strega 2018. Sin dalla nascita del blog, fa parte di Nazione Indiana.
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