Caro Pier Paolo

Pier Paolo Pasolini

(gli amici di Doppiozero stanno pubblicando materiali di e su Pasolini, nei quarant’anni dalla sua morte. Qui. Mi è stata chiesta una lettera indirizzata a Pasolini stesso. Eccola.)

Caro Pier Paolo,

avevo nove anni quando ti sentii nominare per la prima volta. Ho un vago ricordo di me bambino, durante un intervallo a scuola: un compagno di classe davanti a me che ne prende in giro un altro, affibbiandogli l’epiteto di “pierpaolo”, come fosse una parolaccia indicibile. Ricordo i miei compagni che ridevano, e io che mi accodavo, senza capire che cosa ci fosse poi di così divertente.

Eravamo in una di quelle periferie anomiche che tu abborrivi, figli di quei ragazzi di vita che avevi così tanto amato e che ti avevano tradito per cercare nei miti sottoculturali dello sviluppo senza progresso una conformistica emancipazione. Scrivo usando le tue parole, ma io all’epoca mica le sapevo queste cose. Ero semplicemente un bambino del sottoproletariato urbano che stava scoprendo solo in quel momento l’esistenza, anzi la tragica scomparsa, di un poeta omosessuale. Parola che non esisteva nel mio vocabolario. Tu eri identificato con parole ben più grevi, al punto che il tuo nome poteva essere tranquillamente usato come ingiuria.

Alcuni anni dopo, da adolescente, ti ho ritrovato in una libreria del centro. Stavo marinando la scuola per evitare una interrogazione. Spulciando nel sempre magro scaffale della poesia di ogni libreria italiana mi si presentò una edizione economica delle Ceneri di Gramsci. Conservo ancora quel volume con affetto. Fu il primo di una lunga serie.

Negli anni c’è sempre stato qualche poeta che ha cercato di convincermi che fossi migliore come regista. E registi che ti apprezzavano di più come narratore. E narratori che preferivano la tua opera di polemista. E così via, in un circolo vizioso di rabbiosi specialisti intenti a marcare il proprio territorio, sistematicamente invaso da te, eretico viandante che transumavi fra le discipline, indifferente alle regole. Spesso inventandotele strada facendo. Era questa vitalità irrequieta, in fondo, che ho sempre amato di te. Quella che fin da ragazzo mi ha catturato, senza remore. Il tuo coraggio bambino, incosciente, il tuo sporgerti sull’abisso. Oggi che tutti ti lodano e di te ne hanno fatto un santino inviolabile, oggi che sei un’icona persino per quella destra becera che tanto ti ha attaccato in vita, oggi anche i miei “colleghi” coetanei del piccolo mondo culturale nazionale – geneticamente, per casta, di sinistra – hanno dimenticato, o forse fingono per convenienza, quanto i loro padri nobili ti odiassero.

Perché sapevi essere colto nelle tue opere eppure popolare, senza mai scendere a compromessi. Toccavi i nervi scoperti della finzione sociale, mostravi come un bimbo la nudità oscena dell’imperatore. Con grazia. Perché quelli che oggi si appellano al tuo magistero, urlanti e sgomitanti, non sanno nulla della dolcezza della tua voce. Pacata e ferma. Correlativo acustico del tuo corpo fragile, quello di un pulcino allenato alla lotta. Pronto a restituire al mondo parole pesanti come un fardello, come un onere.

Eri nel giusto anche quando sbagliavi. Questo di te amavo. Non mi hai mai imbrogliato. Ho potuto essere in disaccordo con te senza mai smettere di volerti bene, come si fa con un fratello. No, anzi, no, come ad un parente lontano, uno zio d’America, emigrato alla ricerca di miglior fortuna, del quale, per volontà misteriosa della sorte, avevo ritrovato in soffitta i suoi diari nascosti, o, peggio, dimenticati. Perché lo sai, Pier Paolo, noi non siamo mai stati coetanei, per un banale scarto di ere. È proprio la tua profonda inattualità, oggi, che ti rende ancora più grande ai miei occhi. Eri un visionario. Come ogni profeta immaginavi futuri. Che non si sono necessariamente avverati. Ma era la potenza della visione la cosa importante. Il monito della visione.

Alle tue spalle un mondo bruciava, davanti a te il futuro era un mistero insondabile. Tu, come Enea in fuga da Troia, con addosso solo quello che il tuo corpo ferito poteva sopportare, esaurivi nel cammino la tua esistenza, struggendoti di nostalgia per ciò che era perduto per sempre, armato solo della speranza sempre più flebile di una nuova fondazione. Sono proprio i mondi perduti o sognati – i paesaggi che mi hai raccontato – la tua eredità più autentica. Mondi che non ho conosciuto. Ma che oggi, nella monotopia globale sembrano gridare la loro irriducibile diversità. Eterotopie resistenti. Ammonimenti per una realtà che ha dimenticato la sua storia. Che tornerà per questo a ripetersi, non come farsa, ma come tragedia.

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4 Commenti

  1. aveva forte carisma, genialità, anticonformismo (fino a un certo punto…)
    possiamo dire che ha segnato un periodo della nostra storia….
    sapeva riconoscere chi valeva (altri poeti..)
    ma oramai si è detto tutto e di più….
    ora dobbiamo districarci dalla palus putredinis in cui ci troviamo e le sue luci e ombre (più ombre….) non servono più, né le sue dicotomie e nemmeno il suo alfabeto…
    così è se vi pare

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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