Virgilio – Eneide, XI, 768-915 (Morte di Camilla)

trad. isometra di Daniele Ventre

 

Clòreo già consacrato al Cibelo da sacerdote,
chiaro di frigia armatura per caso brillava lontano
ed eccitava il cavallo schiumante, che pelle borchiata
d’oro e di squame di bronzo in forma di piuma copriva.
Egli in persona, fulgente d’azzurro metallico e d’ostro
stava scoccando dall’arco di Licia un quadrello gortinio;
dietro le spalle del vate era d’oro l’arco e anche d’oro
l’elmo; anche aveva legati la crocea clamide e i crespi
veli di càrbaso insieme in un nodo d’oro rossastro,
e ricamati la tunica e i barbari schermi alle gambe.
E la fanciulla su lui, per mostrarsi in armi troiane
lei cacciatrice, su lui fra tutto quel fronte di lotta
s’era lanciata, ormai cieca, e incauta per tutta la schiera
dava in ismanie per brama femminea di preda e di spoglie,
quando d’un tratto in agguato, cogliendone l’attimo Arrunte
scaglia una freccia e agli dèi solleva pregando la voce:
‘Sommo fra i numi, guardiano del santo Soratte, tu, Apollo,
che dal principio adoriamo, e per cui in gran mucchio si cresce
pino da ardere e a cui, serbando pietà, da devoti
brace assai fitta pestiamo coi piedi passando tra il fuoco,
padre concedi che io cancelli con le armi quest’onta,
tu che puoi tutto. D’uccisa fanciulla non cerco armature
non i trofei e nemmeno le spoglie, altre gesta a me lode
conferiranno; purché questa peste atroce s’abbatta
vinta a un mio colpo, alla patria città tornerò senza gloria.’

Febo l’udì, gli concesse in cuore che parte del voto
fosse esaudita, altra parte la perse alle brezze leggere:
sì, far cadere Camilla colpita da subita morte
diede all’orante; non fece che l’alta sua patria l’avesse
reduce, no, le procelle ne persero al vento la voce.
Come alle brezze urlò l’asta un ronzio, partendo dal braccio,
volsero gli animi ardenti i Volsci e levarono tutti
verso la loro regina gli sguardi. E rimase ella ignara
del rumorio nella brezza, del dardo dall’etere sceso,
fino a che sotto la nuda mammella la colse quell’asta
e penetrò spinta a fondo, di sangue virgineo si intrise.
Corrono a lei le compagne in pena e alla vinta regina
dànno sostegno. Fra tutti atterrito Arrunte fuggiva
fra l’esultanza frammista al timore, ormai più non osa
credere all’asta né esporsi alla lancia della fanciulla.
E come il lupo, ben prima che addosso abbia i dardi nemici,
inerpicandosi ai monti elevati in fretta si cela,
se ha trucidato un pastore o anche un enorme giovenco,
conscio com’è dell’impresa audace, e al di sotto del ventre
piega impaurito e nasconde la coda e raggiunge la selva:
Non altrimenti si toglie agli sguardi il torbido Arrunte
pago com’è della fuga in mezzo alle schiere si occulta.
Ella morendo estrae il dardo a mano, e però dentro l’osso
sta fra le coste la punta di ferro in un’ampia ferita.
Ecco che esangue si abbatte, si abbattono freddi di morte
gli occhi, già manca il colore che le imporporava le guance.
Dunque spirando così si rivolge ad Acca, a lei sola
fra le sue pari, a lei sola, più d’altre fidata a Camilla,
l’unica a cui rivelasse ogni pena, e a lei così dice:
‘Acca, sorella, fin qui ce l’ho fatta: ora aspra una piaga
mi ha consumato, e di tenebre è nera ogni cosa all’intorno.
tu fuggi via, tu riporta a Turno il mio estremo messaggio:
egli subentri alla lotta e svii dalla rocca i Troiani.
Questo il mio addio.’ E con tali parole lasciava le briglie
non di suo impulso crollando a terra. Oramai in tutto il corpo
fredda com’è poco a poco s’accascia e reclina il suo collo
stanco e il suo capo già in preda alla morte e le armi abbandona,
e in un lamento la vita va via desolata fra l’ombre.
Ecco un immenso clamore si alzò, ferì allora le stelle
auree: la lotta si fece più cruda, abbattuta Camilla;
e sopraggiungono fitti insieme ogni stuolo di Teucri
i condottieri Tirreni e le àrcadi schiere di Evandro.

Fra le montagne da tempo già Opi guardiana di Trivia
siede nell’alto e dai picchi impavida mira lo scontro.
Come lontano nel pieno clamore dei giovani in furia
vide però che Camilla da funebre morte era vinta,
ruppe in un gemito emise dal chiuso del petto la voce:
‘Troppo, sì, troppo crudele supplizio hai dovuto pagare,
vergine, che ti spingesti a sfidare i Teucri a battaglia!
E non a te abbandonata giovò che fra i boschi Diana
tu venerassi o portassi in spalla la nostra faretra.
la tua regina però non ti lascia certo ingloriosa
ora, qui in punto di morte, né senza notizia il tuo fato
mai rimarrà fra le genti o avrai fama d’invendicata.
Sì, chi con tale ferita ha recato oltraggio al tuo corpo,
con giusta morte espierà.’ Sotto un alto monte era il rogo
grande del sire Dercennio coperto qual era dal ciglio
d’un terrapieno e dal leccio ombroso del vecchio Laurente;
qui la bellissima dea con rapido balzo da prima
va ad appostarsi ed osserva dall’alto del tumulo Arrunte.
come lo vide brillare in armi nel vano suo vanto,
‘Come’ esclamò ‘ti allontani, ti svii? qui dirigi il tuo passo
qui, morituro, qui vieni, che avrai per Camilla il tuo degno
premio. Così per i dardi di Diana anche tu perirai?’
Sì, così disse la Tracia e prese dall’aurea faretra
una saetta leggera, impugnò feroce il suo arco
e lungamente lo trasse, fin quando gli estremi incurvati
non si accostarono: a mani egualmente tese toccava
punta di ferro da manca e seno col nerbo da destra.
all’improvviso il ronzio del dardo e le brezze sonore
ode in un attimo Arrunte e il ferro gli penetra il corpo.
Lui che spirava e gemeva il lamento estremo i compagni
lo abbandonarono immemori a polvere ignota fra il campo;
Opi se ne ritornò sull’etereo Olimpo di volo.

Persa Camilla, così fugge via la sua ala sinistra,
fuggono i Rutuli preda del caos, fugge il fiero Atinate,
i condottieri dispersi con i desolati squadroni
cercan riparo e alle mura si lanciano sviati sui carri
e più nessuno quei Teucri che incalzano e portano morte
vale a fermarli coi dardi e non sanno opporvisi contro,
ma sulle torpide spalle riportano gli archi allentati,
batte in quadrupede corsa lo zoccolo al morbido campo.
Polvere fino alle mura con nera caligine sorge
torbida, dalle vedette le madri percuotono i petti
e femminile clamore innalzano agli astri del cielo.
Quelli che irruppero in corsa per primi alle porte dischiuse,
ecco tra schiere frammiste li opprime una torma nemica,
misera morte non sanno evitare, fin sulla soglia,
dentro le mura dei padri, fin dentro le mura di casa,
spirano l’anima ormai trafitti. Altri a chiudere porte,
e non più osano aprire le vie ai compagni e accettarli
dentro la rocca imploranti, ne nasce miserrimo eccidio
fra chi con le armi difende e chi in armi rompe i battenti.
Chiusi ormai fuori, alla vista e agli occhi dei padri piangenti
gli uni, all’urgenza di tanta rovina, alle fosse profonde
sono travolti, altri perso ogni freno, d’impeto, ciechi,
urtano contro i portali e i battenti saldi di sbarre.
Ma dalle mura perfino le madri in quel sommo cimento
(schietto l’amore di patria le spinge, al vedere Camilla)
trepide scagliano dardi col braccio e con rovere saldo
stipiti e pali induriti al fuoco anche fingono il ferro,
precipitandosi, tese per prime a morire alle mura.

Ma nel frattempo tra i boschi a Turno il tristissimo annuncio
piomba e a quel giovane è Acca a narrare il fiero tumulto:
gli schieramenti dei Volsci distrutti e caduta Camilla,
e l’irruzione di infesti nemici a razziare ogni cosa
con il favore di Marte, l’orrore già asceso alle mura.
Egli furioso (l’impongono i truci voleri di Giove)
parte dai colli assediati, abbandona le aspre boscaglie.
Fuori di vista era uscito da poco e teneva già il campo,
quand’ecco che il padre Enea passò fra le aperte radure
e superò la giogaia e venne alla selva ombreggiata.
Ambi alle mura così s’avventano insieme alla schiera
tutta e non distano più molti passi l’uno dall’altro;
e mentre Enea da lontano vedeva già i campi fumanti
nel polverio e scorgeva ormai gli squadroni Laurenti,
Turno anche lui riconobbe Enea formidabile in armi
e percepì avvicinarsi i passi, ansimare i cavalli.
E scenderebbero subito in lizza e verrebbero all’urto,
se non bagnasse nel mare d’Iberia i cavalli spossati
Febo ormai roseo, recando la notte al fuggire del giorno.
Pongono il campo davanti alla rocca, accerchiano il muro.

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Daniele Ventre (Napoli, 19 maggio 1974) insegna lingue classiche nei licei ed è autore di una traduzione isometra dell'Iliade, pubblicata nel 2010 per i tipi della casa editrice Mesogea (Messina).
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