L’incontro

di Paola Nasti

Siamo tutti pronti – con le braccia tese, le mani in fondo alle braccia, pronte per toccare, forse per afferrare. Dagli altoparlanti presto comincerà a diffondersi l’avviso di mettersi in cammino. Bisognerà, in ordine e senza urtarsi, raggiungere la linea che demarca la frontiera. E’ un limite sorvegliato e fortificato – ogni pochi metri una torretta di guardia, un paio di soldati con i mitra carichi e pronti a sparare. Ovunque militari con cani feroci alle catene. Quando gli altoparlanti cominceranno con gli avvisi, già tutti sappiamo cosa fare: scenderemo le scale delle case, ciascuno per proprio conto, e ci dirigeremo verso la linea che segna il confine. Gli ultimi metri li percorreremo con le braccia tese, ma l’ordine è di non lasciarsi prendere dall’emozione, soprattutto nella parte finale del tragitto, quando la tensione per l’incontro prossimo diventerà parossistica e potrebbe rovinare tutto. Già ci hanno avvertiti: nell’ultimo tratto cominceremo, irrefrenabilmente, a tendere le braccia in avanti, gli occhi saranno spalancati e come pronti ad uscire fuori dalle orbite, in uno sforzo spasmodico di riconoscimento. Non è detto che li riconosceremo. Da tanti anni non li abbiamo più rivisti. E negli anni i corpi e i volti possono diventare irriconoscibili. E poi ci saranno i cani, i cameramen, i fotografi, i soldati sulle torrette a sorvegliare ogni movimento, ogni deviazione dagli ordini impartiti con largo anticipo, da mesi. Da mesi è un bombardamento quotidiano. Le radio nelle piazze a intervalli periodici recitano il decalogo dei comportamenti da tenere in prossimità dell’incontro: non piangere; non mettere troppa forza nel contatto – ma non è chiaramente detto se si presenterà l’opportunità abbracciarsi; non alzare la voce; non urtare i propri vicini di gomito; non correre precipitosamente per un improvviso riconoscimento. La compostezza e la calma che ci hanno insegnato sin dalla più tenera infanzia non devono venire meno in nessun caso, neanche in un’occasione come questa. Per molti è un evento di cui non si poteva prevedere l’accadimento, ma segretamente sognato da decenni, da un’intera vita. Migliaia sono morti con questo desiderio inconfessabile e inconfessato di rivedere, anche solo per una volta, la realtà incarnata di un’immagine mentale, di un ricordo a fatica di devozione tenuto in piedi, con la più grande e spossante concentrazione perché non andasse in frantumi. Le tecniche per tenere in vita l’immagine sono state le più svariate per ciascuno. C’è chi ha legato la presenza nella mente ad un sapore facilmente esperibile nella stenta vita quotidiana di qui– il sapore di qualcuno di quei cibi semplici, di cui è da sempre costituita la nostra alimentazione. Qualcuno ha invece legato la conservazione del ricordo all’evocazione di un gesto, di uno di quei gesti che segnano inevitabilmente la giornata – aprire la porta di casa per uscire la mattina; chiudere la luce prima di dormire; svegliare i bambini per andare a scuola. Qualcuno invece ha scelto di costituire un piccolo altare immaginario, un altare portatile, da utilizzare ad ore fisse – o a giorni fissi; come nella piccola celebrazione – quotidiana, settimanale o mensile – di un culto. C’è anche chi ha scelto di dimenticare. Di fingere che non esistano differenze tra un prima e un poi, nessuna linea di demarcazione, né nella catena dei giorni né nella distesa degli spazi. Questi che hanno preferito la cancellazione sono poi stati più facilmente degli altri pescati in prossimità del muro di confine, pericolosamente vicini alla rete elettrificata, o alle torrette o alle zanne dei cani. Perdere l’immagine ha significato, per loro, perdere il segno, la misura – ogni orientamento possibile per sfuggire ai colpi di mitra. L’alba del giorno fissato per l’evento è stata per tutti tremebonda e gelida. Il desiderio si è mescolato alla paura in ogni attimo, sin dalla prima occhiata nella stanza disadorna del risveglio. Gli altoparlanti hanno anticipato i loro editti, inizialmente staccando i messaggi ad intervalli regolari. All’approssimarsi dell’ora stabilita le voci stentoree sono divenute più insistenti, il volume si è alzato e le pause sono diminuite tra messaggio e messaggio. Ci siamo vestiti con gli abiti della seconda stagione – prevedendo le sudorazioni per la fatica della marcia e per l’emozione dell’incontro. All’inizio abbiamo sentito l’aria umida del primo mattino incunearsi tra la stoffa di cotone grigio pesante e la superficie del corpo. Per quasi tutti, l’aria fredda ha trovato poi un altro passaggio nella distanza tra la carne e le ossa dello scheletro. Abbiamo sentito il freddo del mattino addentrarsi tra stoffa e carne, tra carne e ossa, insidioso, inesorabile; non era possibile difendersi da questa sottile perfidia dell’aria che penetra ogni qual volta ci si toglie la corazza pesante che abitualmente portiamo fuori dalle case, che copre ogni centimetro di corpo lasciando libero solo lo spazio di due feritoie per gli occhi e di una per la bocca. Ci hanno sempre detto che era necessario proteggerci in questo modo, noi e soprattutto i piccoli. Ma tutto è stato congegnato nel migliore dei modi; sempre sono stati disposti degli spazi di denudamento, dei recinti coperti in cui, specialmente i bambini, potessero muoversi per qualche ora liberi dal guscio di protezione. In questa occasione è stato disposto l’ordine di lasciare a casa gli involucri per procedere più speditamente nel cammino verso la frontiera. Ci sentiamo anche per questo in pericolo, smarriti. A qualcuno non è mai capitato di trascorrere tanto tempo all’aperto senza corazza di protezione. All’umido del mattino e all’emozione si è perciò aggiunto il gelo della paura per la condizione inusitata. Tutti camminiamo con passo veloce ma non frenetico, nella stessa direzione. I corpi e i volti sono bianchi e qualche volta flaccidi: l’obbligo di attività ginniche non ha potuto impedire al tempo di effettuare la sua opera sulle carni. Nessuno guarda l’altro – non siamo abituati a scambiarci sguardi; anche le occhiate furtive, in un tempo non molto remoto, erano proibite dai regolamenti e duramente punite. Procediamo con passo spedito e senza guardarci, il cammino già dura da alcune ore – da quando hanno aperto i cancelli delle mura urbane per farci uscire fuori, verso la frontiera. Il paesaggio è per molti sconosciuto e inimmaginato. Nella città è bandita ogni manifestazione di vita spontanea, ogni presenza del mondo naturale. Molti per la prima volta nella loro intera esistenza vedono le piante, o qualche animale che, terrorizzato, si dilegua nella boscaglia rada che attraversiamo come un esercito disarmato. Ciascuno cerca di contenere gli sguardi; di guardare solo ciò che è indispensabile per procedere – la strada, gli ostacoli vegetali che si presentano. Si concentrano sul camminare, per evitare di disperdere la tensione, di lasciarla defluire in comportamenti per i quali si aspetta, verdetto inesorabile, la più dura condanna. Procediamo concentrati verso la destinazione; ma ciò non riesce ad impedire del tutto che l’occhio incontri oggetti mai visti prima, e che si imprimono nello sguardo come impronte nell’argilla molle, come orme di vita – felci, piccoli insetti – scavate nella pietra senza alcun intervento intenzionale. Con l’avanzare del giorno avanza anche la stanchezza. I più anziani vorrebbero riposare un po’; qualcuno si appoggia con la schiena ad un albero, e rimane così turbato dal contatto con la corteccia, mai prima sentito, che deve riprendere la marcia per non stare peggio, per non avvertire ancora di più la stanchezza e lo stordimento. Finalmente ci giunge il segnale. I fischi distanziati che ci dicono di fermarci. Ognuno si lascia cadere sul posto, piegando le ginocchia, stendendosi semisdraiato sul terriccio o sul pietrisco; oppure rimane semplicemente accovacciato sui talloni. Gli occhi si chiudono e quasi tutti sprofondiamo nel sonno breve che ci hanno insegnato come utile alternativa quando non c’è tempo per dormire. Siamo così bene addestrati che nell’arco di trenta secondi regna la più completa calma, tutto rimane immobile, le piante solo continuano a non dormire, a muoversi piano e a respirare assorbendo i nostri fiati, il veleno che per loro è nutrimento. Siamo una distesa di corpi, senza protezione, con le palpebre abbassate e completamente immobili. Il sonno breve dura circa quindici minuti ed è interrotto da tre brevi fischi che indicano, inequivocabilmente, la ripresa. Con una energia affievolita rispetto a qualche ora prima ci alziamo, spolveriamo con un gesto meccanico gli abiti e riprendiamo a camminare. Ora dagli altoparlanti che hanno legato ai fusti degli alberi si diffonde una musica che serve a prepararci. Anche da questo comprendiamo che la frontiera non dev’essere lontana. E’ una musica struggente, che ci rimescola dentro cose mai avvertite prima. Dalle orecchie si insinua fin verso una profondità inesplorata, che si agita con una forza sempre più minacciosa. Mi ricordo di aver visto, una volta, in un libro di carta, una immagine terrificante: una immensa superficie di acqua con onde altissime. Adesso qualcosa di simile a quelle onde gigantesche viene messo in moto dalla musica che si diffonde a volume crescente. La musica procede come una spirale che si avvolge su se stessa, un cerchio che si stringe fino a diventare cuneo di suoni che dalle orecchie ci invadono il petto e provocano l’elevazione di onde, dapprima solo un’increspatura della superficie, poi grandi, immense colonne d’acqua che si levano e ricadono con fragore sulla superficie agitata sottostante. E più la musica procede, col suo andamento di cuneo, più il nostro volto si altera, si distorce, si trasforma, gli occhi si stringono, un liquido ne fuoriesce dagli angoli interni, il fiato nella gola si strozza, produciamo noi stessi suoni da cui siamo atterriti, perché mai prima sapevamo di poter produrre qualcosa del genere. I volti sono deformati e bagnati, i toraci sobbalzano per scosse sonore ritmiche, ossessive. Qualcuno, senza sapere cosa sta facendo, stende una mano e tocca la mano di chi gli cammina a fianco, sente il calore di una parte del corpo altrui, lo tocca, e stringe, comincia a stringere e ad aggrapparsi a quella periferica come se non potesse più allentare la presa delle dita. Si diffonde come un moto questo comportamento irriflesso e adesso siamo tutti come incatenati per le mani che si tengono. Si sono formati gruppi, alcuni piccoli, altri grandi, che procedono nella stessa direzione, ma ora aggregati dalla presa, dal contatto. E ciò sembra calmare quella tempesta di singhiozzi suscitata dalla musica degli altoparlanti. I corpi hanno assunto nuove posture; i passi sono rallentati, quasi come se non fosse più importante raggiungere il confine. Qualcuno, tra i gruppi più avanzati, comincia a sussultare. In lontananza, appena percepibili dallo sguardo, cominciano a stagliarsi alcune figure dal significato inequivocabile: pezzi di rete e di muro grigio, la continuità delle immagini che si stagliano contro l’orizzonte interrotta solo per l’irregolarità del suolo. Tutti comprendiamo, da questi semplici elementi, che siamo quasi arrivati a destinazione. Avanziamo di nuovo composti, gli occhi si sono asciugati, le scosse del petto sono cessate dopo il contatto con gli altri corpi. Ci teniamo, a gruppi, per le mani, o con le braccia che avvolgono le spalle o la vita di un altro. La luce è meno intensa, ora, e gli occhi ne sono meno feriti. Proprio per questo possono meglio distinguere quello che si presenta allo sguardo. Oltre la rete, a cui per l’occasione è stata tolta l’elettrificazione, centinaia di sagome – le dita aggrappate negli occhielli di metallo, i volti, bagnati e con gli occhi bene aperti, appoggiati e quasi schiacciati contro i fili. Tutti hanno i capelli bianchi o grigi, indossano, come noi, gli abiti di cotone grigio della seconda stagione. E’ il momento del riconoscimento. Adesso ciascuno deve tirare fuori l’immagine che da tempo immemorabile ha custodito nei recessi della propria vita; tirarla fuori, guardarla bene e percorrere con lo sguardo il tragitto tra l’immagine e questi volti apparsi oltre la rete. Il moto cambia direzione; non è più possibile procedere, andare avanti. Tutti ora si spostano trasversalmente, si muovono lungo la barriera oltre la quale ci sono le sagome. Qualcuno prova ad effettuare il riconoscimento toccando, con la punta delle mani, quelle dita aggrappate; qualcuno prova a riconoscere annusando; qualcuno, addirittura, lecca quelle mani e quei volti perché ha da riconoscere un sapore. Alcuni appoggiano la propria guancia alla guancia oltre la rete, facendo combaciare il proprio corpo all’altro separato. In molti toccano solo le mani, coi palmi aperti e le dita distese, e, lentamente, con un movimento del volto che si solleva a partire dal basso, incontrano gli occhi che stanno dall’altra parte. Rimangono come agganciati negli sguardi – non sembra neanche più possibile un distacco, un girarsi altrove, un muovere il capo. Gli sguardi incatenati sembrano pieni di un’unica domanda, che lentamente svanisce, e resta solo il contatto tra due immagini che si compenetrano senza rispecchiarsi. Alcuni si sono inginocchiati; altri seduti con le spalle alla rete, in contatto di schiena due a due. Il silenzio è compatto; anche le piante rade hanno smesso di respirare intorno; il cielo è immobile. Tutti siamo come paralizzati nella posizione assunta, come statue, due schiere di statue separate da una reta non elettrificata, due masse quasi infinite di sagome che hanno trovato un punto di contatto da una parte e dall’altra della divisione. Nessuno si preoccupa più. Non c’è più il momento successivo da prevedere; non bisogna più preparare e disporre alcun gesto, alcun comportamento. Le ore passano lentissime, la luce degrada e l’immobilità più completa regna sulla scena immensa dell’incontro. Nessuno aspetta nulla – come se per sempre fossero finiti i comandi, i segnali, le voci dagli altoparlanti. Come se persino quella rete che ostacola il pieno contatto non esistesse più. L’addestramento dell’intera vita a questo serviva, del resto. A non sentire la separazione costituita dai corpi. E una rete, non elettrificata, è molto meno di un corpo.

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daniele ventre
daniele ventre
Daniele Ventre (Napoli, 19 maggio 1974) insegna lingue classiche nei licei ed è autore di una traduzione isometra dell'Iliade, pubblicata nel 2010 per i tipi della casa editrice Mesogea (Messina).
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