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Contropiano dalle cucine. Vite precarie

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di Deborah Ardili

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Seguendo le traiettorie contemporanee che esplicitamente si richiamano all’esperienza iniziata quarant’anni fa, è facile arrivare alla conclusione che la questione della «cura» rappresenti l’eredità viva del patrimonio di idee che le femministe del salario rubricavano, per le ragioni sopra indicate, alla voce più ruvida di «lavoro domestico». Smorzata la carica antagonista degli anni Settanta e caduta la richiesta di salario senza contropartita, intorno alla «cura» si annodano oggi fili di ragionamento portati a sottolineare il «doppio carattere» del lavoro riproduttivo, individuandovi potenzialità di autovalorizzazione alternative alla logica di mercato. Anziché seguire questa linea, ed entrare nel merito delle analisi e proposte che vi si associano, vorrei tentare una deviazione. La prima tappa del percorso che propongo prevede un salto di vent’anni rispetto al periodo considerato finora e porta ad Amherst, Massachussets. È qui che, nel dicembre del 1996, nel corso di un colloquio sponsorizzato dalla rivista Rethinking Marxism, un’«esponente tardiva della seconda ondata» pronuncia un discorso dato alle stampe, l’anno successivo, con il titolo di Merely Cultural [Butler 1997].

«Meramente culturali»: il titolo dell’intervento riproduceva — citandolo ironicamente ― il capo d’accusa fatto pendere dalla sinistra ortodossa (si suppone ben rappresentata nella sala della conferenza) su movimenti che, nel frattempo, avevano visto ampliarsi lo spettro dei soggetti impegnati nella politica sessuale fino a includervi, oltre alle femministe, lesbiche, gay, transgender e intersessuali. Gli effetti di ingiustizia sociale riferibili all’incidenza del privilegio eterosessuale, evidentemente, non bastavano a indurre gli ortodossi a rivedere il pregiudizio portato a identificare nella new gender politics l’arma di distrazione di massa capace di distogliere l’attenzione dalle condizioni materiali di vita dei gruppi subalterni. Il pregiudizio in questione, come si è visto, aveva una storia alle spalle a cui poter attingere per aggiornare il proprio repertorio argomentativo. La teoria chiamata a sorreggerlo si basava, a propria volta, sul ricorso a una distinzione tra struttura economica e sovrastruttura ideologica talmente rigida da non poter far altro che alimentare i processi di scomposizione imputati al settarismo dei nuovi attori sociali.

A prendere la parola per chiedere ai puristi della lotta di classe se avessero mai seriamente esaminato le ragioni storiche che hanno determinato la nascita dei movimenti sociali così duramente criticati era — chiaramente è di lei che sto parlando — Judith Butler. Al suo attivo si contavano, in quel momento, i saggi che hanno gettato le basi della concezione performativa del genere come componente attiva della teoria queer e, a questi complanare, una partecipazione al dibattito femminista motivata dalla necessità di problematizzare la presunta evidenza ontologica della categoria «donna» in un contesto di critica alla politica della rappresentanza. La partita si giocava contemporaneamente, in questo modo, su due tavoli: da una parte, contro una frazione della sinistra ancora incapace di accorgersi che la regolazione sociale del sesso è sistematicamente legata al modo di produzione che fa funzionare l’economia politica. Dall’altra, contro aree del femminismo pervase da assunti eteronormativi portati non solo a istituire nuove forme di esclusione e gerarchizzazione, ma a precludersi completamente la comprensione del significato sociale della new gender politics.

Mi sembra importante soffermarsi su questo contributo, tardivamente tradotto in italiano, almeno per due ragioni. La prima: è significativo che una filosofa nota per aver mutuato una parte consistente della propria strumentazione concettuale dal post-strutturalismo francese, e spesso accusata di aver disertato il campo della materialità corporea precisamente per effetto di quell’apporto teorico, attinga in maniera tanto vistosa alla lezione femminista dei decenni precedenti per replicare ai fustigatori del «meramente culturale». È in effetti questo lo scritto che, in maniera più esplicita di altri, sembra dar compiutamente ragione dell’intenzione programmatica affidata alla prefazione di Gender Trouble:

Questioni di genere è stato anche un lavoro di traduzione culturale. Ho applicato la teoria strutturalista alle teorie statunitensi relative al genere e alle implicazioni politiche del femminismo. Se, in alcune versioni, il post-strutturalismo sembra essere un formalismo, lontano da questioni relative al contesto sociale e da finalità politiche, non così è stato per le recenti rielaborazioni nordamericane. In effetti quello che mi stava a cuore non era «applicare» il post-strutturalismo al femminismo, ma sottoporre quelle teorie a una specifica rielaborazione femminista [Butler 1990: VII].

Difficile non accorgersi, avendo Merely Cultural sotto gli occhi, che la «specificità femminista» di questo lavoro di traduzione va riferita allo sforzo di collocarlo al livello strategico della riproduzione sociale. Chiedersi per quale motivo «un movimento impegnato a criticare e a trasformare i modi in cui la sessualità è regolata socialmente non debba essere considerato centrale per il funzionamento dell’economia politica» e, contestualmente, ribadire che la produzione del genere deve essere intesa come parte del modo di produzione dell’umanità stessa secondo le norme che riproducono la famiglia eterosessuale, equivale a intercettare un aspetto importante del discorso che ho provato a ricostruire nei paragrafi precedenti. Significa assegnare un fondamento materiale alla genealogia che indaga la posta politica in gioco quando vengono designate come origine e causa quelle categorie identitarie che in realtà sono effetti di istituzioni, pratiche, discorsi. È in questo modo che la filosofa può ricordare tanto ai fustigatori del «meramente culturale» quanto ai cultori del «puramente identitario» che le lotte per trasformare il campo sociale della sessualità acquistano importanza economico-politica non soltanto perché possono essere direttamente collegate alla questione dello sfruttamento e del lavoro non pagato, ma anche perché non si lasciano nemmeno decifrare senza includere nella comprensione della sfera economica tanto la riproduzione di merci quanto la riproduzione sociale di persone. Ne discende che la marginalizzazione o il disciplinamento di sessualità non conformi rispetto alla norma egemone non possono essere trattate soltanto come questioni di mancanza di riconoscimento culturale, affrontabili tramite un risarcimento simbolico. Il fatto ― sottolinea Butler — è che la mancanza di riconoscimento culturale non può essere concepita, nemmeno analiticamente, senza tener conto dei suoi effetti di oppressione materiale.

Si potrà certo obiettare che non sono poi moltissimi, nell’opera di Judith Butler, i luoghi espressamente dedicati alla questione del lavoro riproduttivo gratuito. Eppure non è possibile minimizzare il rilievo teorico e politico di questi passaggi. Un’osservazione importante si trova per esempio in Che fine ha fatto lo Stato-nazione?, nel contesto di un ragionamento che prende polemicamente di mira la sopracitata Hannah Arendt per avere avvallato una nozione di politica pregiudicata, a giudizio di Butler, dall’oblio della sfera economica riproduttiva. Con quali conseguenze?

Questi umani spettrali privati di peso ontologico ― che non superano la prova di intelligibilità sociale richiesta per un riconoscimento minimo ― includono coloro che per età, gender, razza, nazionalità e status non solo sono squalificati per la cittadinanza ma sono attivamente “qualificati” per essere senza-stato. Quest’ultima nozione può ben essere significante, dal momento che coloro che sono senza-stato non sono semplicemente spogliati di status; è stato accordato loro uno status e sono preparati per il proprio spossessamento e dislocamento; diventano senza-stato proprio perché soddisfano certe categorie normative. In quanto tali, costoro vengono prodotti come senza-stato nello stesso momento in cui vengono gettati a mare dalle modalità giuridiche dell’appartenenza. Questo è un modo per capire come sia possibile essere senza-stato all’interno dello stato, come appare chiaro per coloro che vengono incarcerati, resi schiavi o che risiedono e lavorano illegalmente. In maniere differenti sono contenuti, significativamente, all’interno della polis come il suo esterno interiorizzato. La descrizione di Arendt ne La condizione umana lascia senza critica questa particolare economia in cui il pubblico (e la sfera propria della politica) dipende essenzialmente dal non-politico o, piuttosto, da ciò che è esplicitamente depoliticizzato; suggerisce che solo attraverso il ricorso a un’altra struttura di potere noi possiamo sperare di descrivere l’ingiustizia economica e gli spossessamenti dai quali dipende il sistema ufficiale della politica, che riproduce di continuo come parte dei suoi sforzi di autodefinizione nazionale [Butler, Spivak 2007: 38-39].

Non è difficile riconoscere nei «senza stato» di Judith Butler un’eco dei «senza potere» e dei «senza salario» di cui parlavano negli anni Settanta le femministe. Tanto più che sono proprio considerazioni come queste — e vengo alla seconda ragione per cui è importante tener conto delle precisazioni contenute in Merely Cultural — che hanno permesso alla femminista statunitense di collegare in maniera originale la questione di genere a quella, più ampia, della vita precaria e indegna di lutto, trattenuta nella penombra della vita pubblica e ai margini dell’intelligibilità sociale. «Il motivo per cui qualcuno non sarà pianto o è già stato giudicato indegno di lutto» scrive Butler «sta nel fatto che non esiste una struttura di supporto per quella vita. Questo implica che essa, secondo gli schemi dominanti di valore, è svalutata e non considerata degna di sostegno e protezione» [Butler 2012: 21-22]. Muove da qui l’esigenza butleriana di ripensare il politico a partire dalle condizioni precontrattuali, mai espressamente stipulate, della relazione sociale: che cosa c’è dietro la svalorizzazione e la distribuzione differenziale della precarietà? Quali operazioni consentono di cancellare il retroscena della politica e quali invece consentono di convertirlo nel suo oggetto esplicito? Che cosa espone allo sfruttamento la condizione di vulnerabilità e di dipendenza da cui è impossibile evadere una volta per tutte? Come controllare i fattori sociali che consentono di condurre una vita che possa essere vissuta? Sono queste le domande poste con maggiore urgenza dalla filosofa statunitense [Butler 2004b; 2009; 2013]. Dopo quarant’anni, per le femministe forse è arrivato il momento di ripensarci: tenendo a mente di avere una storia alle spalle.

vendemmia

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Jamila M.H. Mascat vive a Parigi e insegna presso il dipartimento di Cultural Studies dell'Università di Utrecht, in Olanda. Si occupa di filosofia politica e teoretica, marxismo contemporaneo, critica postcoloniale e teorie femministe. Nel 2011 ha pubblicato Hegel a Jena. La critica dell'astrazione. Ha co-curato Femministe a parole (2012); G.W.F. Hegel, Il bisogno di filosofia. 1801-1804 (2014); M. Tronti, Il demone della politica (2017); Hegel & Sons. Filosofie del riconoscimento (2019); The Object of Comedy. Philosophies and Performances (2020); A. Kuliscioff, The Monopoly of Man (2021).
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