Il saltozoppo: uomini e donne tra l’Aspromonte e la Cina

di Domenico Talia

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La prima pagina inizia narrando di due uomini, Alfonso e Silvestro, nemici fino alla morte e l’ultima pagina finisce raccontando di altri due Alfonso e Silvestro. Stessi nomi ma uomini diversi dai primi e soprattutto uomini con un diverso destino. I primi Alfonso e Silvestro sono nemici acerrimi, fino al midollo, mentre quelli che terminano il romanzo, sono due fratelli nati dal grembo di tutte le donne delle famiglie Therrime e Dominici. Tra le vicende di queste due coppie di uomini c’è tutta la storia di due popoli, di due famiglie e di due persone che nascono nemici e sembrano destinati a morire tali, fino a che qualcuno «con il miele e con la spada» non riesce a cambiare il corso delle cose, le loro vite e le vite delle generazioni future.

Il saltozoppo è un semplice gioco di ragazzini che si sfidano a correre su una sola gamba e lo fanno anche per dimostrare di valere più degli altri. Gioacchino Criaco con Il saltozoppo (Feltrinelli, 2015) costruisce una storia che trova i suoi luoghi in Aspromonte, a Milano e in Cina, seguendo i destini di Julien Dominici e dei gemelli Agnese e Alberto Therrime. Prima bambini e poi adulti, s’incontrano in Calabria e si legano fra loro, mentre le loro famiglie da secoli si accaniscono in una lotta di rancore e sangue. A Milano, Julien e Agnese si amano, e i loro destini, insieme a quello di Alberto, si incrociano con quelli del cinese Tin. Le vite di Agnese, Julien, Alberto e Tin, guidano il romanzo nella narrazione di una faida con radici antichissime tra storia e mito, scavando nei paralleli tra l’amore e la ferocia dell’Aspromonte e i sentimenti non dissimili radicati nella società cinese, non meno dura e violenta. Nel romanzo, la lontana Cina si lega alla Calabria per il tramite di Milano. Gli affari sporchi uniscono tradizioni lontane e disvalori comuni. La provincia del Fujian e quella di Reggio Calabria sono accomunate dai traffici di droga e soprattutto dal doppio significato della parola fuchou, vendetta e lealtà.

Criaco ritorna in Aspromonte, nelle valli intorno ad Africo e ci racconta le cose e le persone di quel mondo. Più propriamente, racconta a se stesso i suoi luoghi e la sua gente e raccontandoli li mastica e li comprende meglio. Raccontando ci mostra un chiaro esempio di come narrare non sia divertimento, ma un utile modo di pensare con la penna. Gioacchino Criaco ad Africo è nato nel 1965 e lì è tornato a vivere alcuni anni fa, dopo essersi laureato in legge a Bologna e aver lavorato per anni in uno studio legale a Milano. Ad Africo Criaco è diventato scrittore con il suo primo romanzo Anime Nere (Rubbettino, 2008), dal quale è stato tratto il film omonimo, diretto da Francesco Munzi. Dopo quell’esordio, Criaco ha pubblicato i romanzi Zefira (2009) e American Taste (2011). Anche queste opere, come la prima, hanno radici in Aspromonte e raccontano senza giustificazioni e con l’occhio di chi è figlio di quei luoghi, di storie di sangue e violenze, di scontri tra bene e male con forme aspre e con esiti mai scontati.

Il prologo de Il Saltozoppo è costruito mischiando storia e mito di due etnie destinate a combattersi. Un passato di odio che si risveglia sotto l’acqua che precipita abbondante dal cielo e che il fiume raccoglie e porta violentemente al mare. Come l’acqua che riempie il fiume, anche la gente della montagna scende improvvisamente al mare, fino alle rive dello Jonio. Gli strumenti della difesa e dell’odio tornano a farsi sentire come nei precedenti romanzi di Criaco. Il fucile personale che non tradisce è un retaggio e insieme una maledizione. Un sentirsi sicuri in un mondo di lupi che quasi obbliga a diventare lupi. I padri mettono le pistole nelle mani dei figli e rimangono delusi se non sanno sparare. Anche questi sono i protagonisti, impastati nella loro terra, che Criaco ci presenta. Persone che si credono vincitori ma che la loro stessa violenza trasforma in vinti. La Calabria sa impastare anche grandi uomini e grandi donne, ma la storia di Julien e Agnese sembra ci voglia dire che non serve a nulla chiudere gli occhi davanti alla realtà aspra e difficile, bisogna soltanto trovare il coraggio di viverla in modo nuovo.

La peste che colpisce la valle dell’Allaro non l’ha portata un terribile virus, ma è arrivata con il denaro e la bramosia di accumularlo ad ogni costo. La frenesia del guadagno appesta tutti e, in un mondo avvezzo alla morte, lascia sulla sua strada corpi straziati e grumi di sangue e di inimicizia. La morte ritorna nei racconti di Gioacchino Criaco come una presenza che è difficile allontanare. La sua scrittura appare come obbligata da cause profonde e sembra non riesca a liberarsi da Thánatos e dal sangue che imbratta tutto e tutti. In questo cupo scenario, tuttavia, il positivo emerge ed è una novità per i romanzi di Criaco. È il coraggio e la saggezza delle donne che non si fanno inghiottire dal gorgo di odio. Sono le donne ad aiutare l’autore nel suo bisogno di cacciare il male dal corpo della sua terra e della sua gente, come fa Julien, che libera il geco dal corpo morto delle bestioline nere che aveva schiacciato. Donne che non si nutrono dello stesso astio degli uomini, non si accontentano di vincere battaglie macchiate di sangue. E questa è la speranza del romanzo, che bisogna accogliere a braccia aperte.

Nelle pagine de Il saltozoppo si legge un Aspromonte che pasce la sua gente a sentimenti forti e opposti, a odio e amore. L’amore della gente della montagna, presente soprattutto nel cuore delle sue donne, non fa rumore come gli alberi di quella montagna nel loro lento crescere. Soltanto l’odio fa rumore e ogni colpo sparato scuote quei luoghi come il tonfo secco di un albero abbattuto. In uno scenario che sembra non mostrare vie d’uscita, Criaco porta per mano il lettore e gli mostra come le donne possano salvare l’Aspromonte e la sua gente, come possono cambiare la testa di un assassino che crede che il favore più grande che lui possa fare a un suo amico sia uccidere per lui.

Il saltozoppo narra di un uomo che diventa lupo perso dietro una lunga storia di odio e di come un angelo possa salvare i lupi dall’inferno. Quell’angelo è una donna e qui è la chiave del libro. Inferni secolari resistono e sembra non vogliano finire, spegnersi. Eppure una donna con il cuore di angelo può. Può salvare un diavolo che viene da un mondo che conserva in sé il silenzio della morte per lungo tempo e poi esplode e la sua vita diventa un inferno. Anche lì, dove molti pensano vivano solo diavoli, esistono tanti angeli che possono riportare la pace e la vita. In questo l’autore affida una grande responsabilità e una grande speranza alle donne, figlie di una terra dove gli uomini spesso conoscono soltanto il linguaggio del sangue e della violenza.

Più volte nella narrazione ritorna un tema di Anime nere, quello degli uomini che non sono ‘ndranghetisti, ma sanno farsi valere o farsi giustizia usando gli stessi modi e gli stessi mezzi della ‘ndrangheta: violenza, armi, morte. Una forma di sedicente giustizia basata sul sangue che non risolve nulla, anzi costruisce tragedie aspromontane. Su questa questione cruciale la narrazione è tormentata ma non giustifica. Il morbo della violenza trascina Julien che è convinto di aver seguito il male non soltanto per necessità ma per diritto. Riflette su di sé senza arrivare a condannarsi. Venti anni di prigione non sono sufficienti per farlo uscire dalla galera della vita dei lupi, ma in lui qualcosa accade e il finale sembra sciogliere questa domanda che evidentemente è decisiva.

Dicevamo, le donne hanno un nuovo ruolo rispetto alla precedente narrazione letteraria di Criaco. La ninfa è più forte degli uomini che sanno uccidere. Nonna Vittoria e nonna Caterina sono più forti dell’odio che divide gli uomini delle loro due famiglie e sottobraccio camminano insieme alla ricerca di un futuro di convivenza pacifica che rifiuta i grumi di sangue secolari. Le donne spezzano l’odio, costruiscono speranze e sanno vedere il futuro.

La scrittura di Criaco viene fuori dalle viscere di un uomo, figlio di una terra viscerale, che sviluppa una forma narrativa poco costruita e molto sentita. La letteratura di Gioacchino Criaco è un atto di disubbidienza verso il mondo che l’ha generato. Una disubbidienza a fin di bene che guarda in faccia il suo mondo per aiutarlo a crescere. Una disubbidienza che ancora narra di sangue che scorre, ma che pian piano abbandona la morte e si avvicina alla vita, al suo vero senso che si costruisce imparando a fare a meno della violenza, del bisogno di sangue. Una narrazione che elabora ed elimina il dubbio di quella necessità arcaica, della sua giustificazione, per consegnare una speranza reale a quella terra e ai suoi figli che animano le storie di Criaco. Storie innervate profondamente in quella terra e tra quella gente.

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Helena Janeczek è nata na Monaco di Baviera in una famiglia ebreo-polacca, vive in Italia da trentacinque anni. Dopo aver esordito con un libro di poesie edito da Suhrkamp, ha scelto l’italiano come lingua letteraria per opere di narrativa che spesso indagano il rapporto con la memoria storica del secolo passato. È autrice di Lezioni di tenebra (Mondadori, 1997, Guanda, 2011), Cibo (Mondadori, 2002), Le rondini di Montecassino (Guanda, 2010), che hanno vinto numerosi premi come il Premio Bagutta Opera Prima e il Premio Napoli. Co-organizza il festival letterario “SI-Scrittrici Insieme” a Somma Lombardo (VA). Il suo ultimo romanzo, La ragazza con la Leica (2017, Guanda) è stato finalista al Premio Campiello e ha vinto il Premio Bagutta e il Premio Strega 2018. Sin dalla nascita del blog, fa parte di Nazione Indiana.
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