Elogio di Franti

di Umberto Eco (1932-2016)

monumento viva Bresci
(da Diario Minimo, Mondadori 1963)
“E ha daccanto una faccia tosta e trista, uno che si chiama Franti, che fu già espulso da un’altra sezione.”
Così alla pagina di martedì 25 ottobre Enrico introduce ai lettori il personaggio di Franti. Di tutti gli altri è detto qualcosa di più, cosa facesse il padre, in che eccellessero a scuola, come portassero la giacca o si levassero i peluzzi dai panni: ma di Franti niente altro, egli non ha estrazione sociale, caratteristiche fisionomiche o passioni palesi. Tosto e tristo, tale il suo carattere, determinato al principio dell’azione, così che non si debba supporre che gli eventi e le catastrofi lo mutino o lo pongano in relazione dialettica con alcunché.
Franti da Franti non esce; e Franti morirà: “ma Franti dicono che non verrà più perché lo metteranno all’ergastolo”, si scrive il lunedì 6 marzo, e da quel punto, che è a metà del volume, non se ne farà più motto.
Chi sia codesto Enrico è sin troppo risaputo: di mediocre intelletto (non si sa che voti prenda né se riesca promosso a fine anno), oppresso sin dalla più tenera infanzia da un padre, da una madre e da una sorella che gli scrivono nottetempo, come sicari dell’OAS, lettere pressoché minatorie sul suo diario, egli vive continuamente immerso in umbratili complessi, un po’ diviso tra l’ammirazione prona per un Garrone che non perde occasione per far della bassa retorica elettorale (“Son io!” e il maestro, babbeo: “Tu sei un’anima nobile!”; e se qualcuno dà noia al supplente, subito Garrone dalla parte del potente e dell’ordine: “guai a chi lo fa inquietare, abusate perché è buono, il primo che gli fa ancora uno scherzo lo aspetto fuori e gli rompo i denti!”, così il supplente rientra e vede tutti zitti, lui, Garrone, con gli occhi che mandavan fiamme “un leoncello furioso, pareva” – e gli dice “come avrebbe detto a un fratello” ti ringrazio Garrone, e via, Garrone è a posto per tutto l’anno, ditemi se non era figlio di mignotta) e d’altro lato una sorta di attrazione omosessuale per il Derossi, che è “il più bello di tutti”, scuote i capelli biondi, prende il primo premio, si
fa baciare dal giovane calabrese e sembra insomma certi personaggi dei libri di Arbasino.

Tra questi poli è l’Enrico: di carattere impreciso, incostante nei suoi propositi etici, schiavo di ambigui culti della personalità, non poteva essere gran che diverso col padre che si ritrovava, torbido personaggio costui, incarnazione di quell’ambiguo socialismo umanitario che precedette il fascismo, e in cui l’ideologia dolciastra stava alla lotta di classe come il repubblicanesimo di Carducci alla rivoluzione francese (odi alla regina Margherita, nonne e cipressi che a bolgheri alti e stretti, ma repubblica, ciccia): questo padre che parla di rispetto per i mestieri e le professioni,
esalta la nobiltà degli umili, incita il figlio ad amare i muratori, ma si demistifica in
quella terribile pagina del 20 aprile (giovedì) in cui esorta il figlio a gettare le braccia al collo a Garrone quando tra quarant’anni lo ritroverà col viso nero nei panni di un macchinista, “ah non m’occorre che tu lo giuri, Enrico, sono sicuro, fossi tu anche un senatore del Regno” – e non lo sfiora neppure il sospetto di quel che potrebbe (dovrebbe) accadere, che cioè Enrico possa ritrovarsi nei panni di un macchinista ad incontrar l’amico Garrone senatore del Regno (conoscendo Garrone, arrivato alla camera alta per via Acli, va bene, ma ciononostante è il principio che conta, vero? ).
Che poi chi sia questo padre, questo Alberto Bottini dalla oscura professione (non la dice neppure quando va a visitare il vecchio maestro a Condove), viene fuori abbastanza bene pagina per pagina, e si esemplifica infine in quelle linee in cui questo squallido filisteo protofascista esplode nell’elogio dell’esercito:

“Tutti questi giovani pieni di forza e di speranze possono da un giorno all’altro
essere chiamati a difendere il nostro Paese, e in poche ore essere sfracellati tutti
dalle palle e dalla mitraglia. Ogni volta che senti gridare in una festa: Viva
l’Esercito, viva l’Italia, raffigurati, di là dai reggimenti che passano, una campagna
coperta di cadaveri e allagata di sangue, e allora l’evviva dell’Esercito ti escirà più
profondo dal cuore, e l’immagine dell’Italia ti apparirà più severa e più grande”.

E la domenica 11 ottobre, e il martedì 14 costui scriverà ancora una lettera guerrafondaia al figlio, parlando di Roma meravigliosa e eterna, di Patria sacra, di sangue da donare e ultimo bacio alla bandiera benedetta; e sempre senza la minima chiarezza ideologica, sì che a distanza di pochi giorni intesse con il medesimo tono l’elogio di Cavour e di Garibaldi, dimostrando di non aver capito nulla delle forze profonde che divisero il nostro Risorgimento. E ti educava così questo figlio alla
violenza e alla retorica nazionale, all’interclassismo corporativista e all’umanitarismo
paternalista, sì che svolgendosi la vicenda nell’ottantadue, possiamo immaginarci Enrico interventista quarantenne (e quindi a casa, da tavolino), all’inizio della guerra, e professionista fiancheggiatore delle squadre d’azione nel ventidue, lieto infine che il Paese sia andato in mano a un uomo forte garante dell’ordine e della fratellanza.

Il Derossi a quell’epoca era già morto sicuramente in guerra, volontario, caduto
scagliando la sua medaglia di primo della classe in faccia al nemico, Votini era
passato spia dell’Ovra e Nobis, che doveva avere possedimenti in campagna, e già da
piccolo dava dello straccione ai figli di carbonai, agrario fiancheggiatore delle
squadre, sicuramente era già federale. C’è da sperare che il muratorino e il Precossi si
fossero almeno presi il loro olio di ricino e tramassero nell’ombra; e forse Stardi,
sgobbone com’era, si era letto tutto il Capitale, senonaltro per puntiglio, e quindi
qualcosa aveva capito; ma Garoffi di certo si era allineato e non faceva politica, e
Coretti, con quel padre che gli passava calda calda la carezza del Re, chissà che non
facesse la guardia d’onore all’Uomo della Provvidenza.
Questo il clima: ed Enrico ne era l’esponente medio, paro paro. Da un ragazzo di
quella fatta non possiamo aspettarci qualche lume su Franti: anzi doveva esistere tra i
due una sorta di incomprensione radicale per cui se Franti un giorno avesse raccolto
un passerotto da terra e gli avesse sminuzzato briciole di pane, Enrico non lo avrebbe
mai detto.
Logico che Franti, se raccoglieva passerotti, li portasse a casa per metterli in padella,
perché l’unica volta che Enrico si tradisce e ci mostra la madre di Franti che si
precipita in classe a implorare perdono per il figlio punito, affannata “coi capelli grigi
arruffati, tutta fradicia di neve”, avvolta da uno scialle, curva e tossicchiante, ci
lascia capire che Franti ha dietro di sé una condizione sociale, e una stamberga
malsana, e un padre sottoccupato, che spiegano molte cose.
Ma per Enrico tutto questo non esiste, egli non può capire il pudore di questo ragazzo
che di fronte all’impudicizia feudale della madre che si getta, davanti alla scolaresca,
ai piedi del Direttore e di fronte all’intervento melodrammatico di quest’ultimo
(“Franti, tu uccidi tua madre!”, eh via, dove siamo?), cerca un contegno nel sorriso,
per non soccombere nello strame: e lo interpreta da reazionario moralista qual è:
“E quell’infame sorrise”.
Ma se vogliamo giocare a questo gioco allora giochiamo. Franti non ha sostrato, non
si sa come nasca e come muoia, egli è l’incarnazione del male? Ebbene sia,
accettiamolo come tale e come tale vediamolo, elemento dialettico nel gran corso
della vita scolastica deamicisiana, momento negativo in tutta la sua evidenza
trionfante. Ma prendiamolo come tale, e non lasciamoci confondere dai piccoli
particolari di contorno: che se Franti non ha sfondo sociologico non devono averlo
neppure le persone di cui egli pare prendersi beffa, la mamma di Crossi che egli
scimmiotta nella sua condizione di erbivendola, e il muratore caduto sul lavoro al
passaggio del quale Franti sorride: se facciamo della demagogia sul muratore e
sull’erbivendola, allora facciamola anche su Franti e sulle determinazioni economiche
della sua perfidia.
Se no accettiamolo come un principio senza fondo e senza storia, e affrontiamolo
pensando che di lui Enrico ci abbia parlato come gli storici romani dei cartaginesi:
che erano popolo industre e laborioso, gran mercanti e navigatori, ma siccome non
possedevano un’industria culturale non commissionavano elogi e libelli, mentre i
romani, meglio organizzati quanto a uffici studi, avevano buon gioco a affidare alla
storia terribili notizie sul conto dei nemici, dicendo che mettevano i bambini nel
ventre di una statua infuocata; che se poi loro, i conquistatori, distruggevano
Cartagine e spargevano sale sulle rovine, quello era ben fatto.
Ciò che Franti fa è vario e assai complesso: sale su un banco e provoca Crossi, e fa
male, ma quando Crossi gli tira un calamaio egli fa civetta, e il calamaio va a colpire
il maestro che entrava. Civetta meritoria quant’altre mai, dunque, perché questo
maestro è lo stesso ributtante leccapiedi che in un diverbio tra Coraci (il calabrese) e
Nobis, dà ragione a Coraci e torto a Nobis, ma a Nobis dà del voi mentre a Coraci
dà del tu. Dà del tu anche a Franti, naturalmente, perché costui non ha un padre
distinto con una gran barba nera.
Più avanti vediamo Franti che ride mentre passa un reggimento di fanteria; Enrico
tiene a precisare che Franti “fece una risata in faccia a un soldato che zoppicava”, ma
non si vede perché in una sfilata preceduta dalla banda (come Enrico ci dice), qualche
colonnello autolesionista avrebbe infilato un soldato che zoppicava. Dunque
verosimilmente il soldato non zoppicava, e Franti irrideva la sfilata tout court: e
vedete che la cosa cambia già aspetto.
Se poi si considera che, istigati dal direttore, i ragazzi salutano militarmente la
bandiera, che un ufficiale li guarda sorridendo e restituisce il saluto con la mano e un
tizio che aveva all’occhiello il nastrino delle campagne di Crimea, un “ufficiale
pensionato”, dice bravi ragazzi, allora ci accorgiamo che il riso di Franti non era poi
così gratuitamente malvagio ma assumeva un valore correttivo: costituiva l’ultimo
grido del buon senso ferito di fronte alla frenesia collettiva che stava prendendo i
ragazzi che già cantavano “battendo il tempo con le righe sugli zaini e sulle cartelle ‘
e con “cento grida allegre accompagnavano gli squilli delle trombe come un canto di
guerra”. E’ in circostanze del genere che Franti sorride e ride:
“Uno solo poteva ridere mentre Derossi diceva dei Funerali del Re; e Franti rise”.
Franti sorride di fronte a vecchie inferme, a operai feriti, a madri piangenti, a maestri
canuti, Franti lancia sassi contro i vetri della scuola serale e cerca di picchiare Stardi
che, poverino, gli ha fatto solo la spia.
Franti, se diamo ascolto ad Enrico, ride troppo: il suo ghigno non è normale, il suo
sorriso cinico è stereotipo, quasi deformante; chi ride così certo non è contento,
oppure ride perché ha una missione.
Franti nel cosmo del Cuore rappresenta la Negazione, ma – strano a dirsi – la
Negazione assume i modi del Riso.
Franti ride perché è cattivo – pensa Enrico – ma di fatto pare cattivo perché ride.
Quello che Enrico non si domanda è se la cattiveria di chi ride non sia una forma di
virtù, la cui grandezza egli non può capire poiché tutto ciò che è riso e cattiveria in
Franti altro non è che negazione di un mondo dominato dal cuore, o meglio ancora di
un cuore pensato a immagine del mondo in cui Enrico prospera e si ingrassa.
Per questo Enrico deve rifiutare Franti: perché se Franti appare un inadattato al
mondo in cui vive e lo coinvolge in un sogghigno epocale (Franti mette tra parentesi
qualsiasi fatto che invece coinvolga emotivamente gli altri) l’unico modo di
esorcizzare la scepsi negativa di Franti è quello di denunciare Franti come strega. E di
non accettarlo a priori.

E infatti nel gran mare di languorosa melassa che pervade tutto il diario di Enrico, in
quell’orgia di perdoni fraterni, di baci appiccicaticci, di abbracci interclassisti, di
galeotti redenti e gaudenti in maschera che regalano smeraldi a bambine smarrite tra
la folla, tra madri che si sostengono a vicenda, maestrine dalla penna rossa, signori
che abbracciano carbonai e muratori che biascicano lagrime di riconoscenza sulla
spalla di ricchi possidenti, là dove tutti si amano, si comprendono, si perdonano, si
accarezzano, baciano le mani a voscienza, leccano il cuore a tamburini sardi,
cospargono di fiori vedette lombarde e coprono d’oro patrioti padovani, una sola volta
appare una parola di odio, di odio senza riserve, senza pentimenti e senza rimorsi: ed
è quando Enrico ci traccia il ritratto morale di Franti:
“Io detesto costui. È malvagio. Quando viene un padre nella scuola a fare una
partaccia al figlio, egli ne gode; quando uno piange, egli ride. Trema davanti a
Garrone e picchia il muratorino perché è piccolo; tormenta Crossi perché ha il
braccio morto; schernisce Precossi che tutti rispettano; burla persino Robetti, quello
della seconda, che cammina con le stampelle per aver salvato un bambino. Provoca
tutti i più deboli di lui, e quando fa a pugni, s’inferocisce e tira a far male. Ci ha
qualcosa che mette ribrezzo su quella fronte bassa, in quegli occhi torbidi, che tien
quasi nascosti sotto la visiera del suo berrettino con una faccia invetriata, è sempre
in lite con qualcheduno, si porta a scuola degli spilloni per punzecchiare i vicini, si
strappa i bottoni della giacchetta e ne strappa agli altri, e li gioca, e ha cartella,
quaderni, libri, tutto sgualcito, stracciato, sporco, ha la riga dentellata, la penna
mangiata, le unghie rose, i vestiti pieni di frittelle e di strappi che si fa nelle risse.
Dicono che sua madre è malata dagli affanni che egli le dà, e che suo padre lo
cacciò di casa tre volte: sua madre viene ogni tanto a chiedere informazioni e se ne
va sempre piangendo. Egli odia la scuola, odia i compagni, odia il maestro. II
maestro finge ogni tanto di non vedere le sue birbonate, ed egli fa peggio. Provò a
pigliarlo con le buone, ed egli se ne fece beffa. Gli disse delle parole terribili, ed egli
si coprì il viso con le mani, come se piangesse, e rideva. Fu sospeso dalla scuola per
tre giorni ed egli tornò più tristo e insolente di prima. Derossi gli disse un giorno:
– Ma finiscila, vedi che il maestro ci soffre troppo, – ed egli lo minacciò di piantargli
un chiodo nel ventre”.
È naturale che in questo crescendo di accuse e di infamie la nostra simpatia vada
tutta a Franti (pensate, “si copri il viso con le mani, come se piangesse, e rideva!”.
Anche De Amicis non rimane indifferente di fronte a tanta grandezza, e mai la sua
scrittura è stata più tacitiana, nobilitata dalla materia): ma è vero del pari che tanto
accumularsi di nefandezza è troppo wagneriano per essere normale, sfiora il titanico,
deve avere un valore emblematico e riecheggiare un momento di civiltà; una figura
della coscienza universale, lo voglia o no l’autore; e se la nostra dotta memoria cerca
solo per un poco ecco che questo ritratto finisce per evocarne un altro, quasi
parallelo: ed è il ritratto di Panurge.
“Altre volte poi disponeva, in qualche bella piazza per dove la detta ronda doveva
passare, una striscia di polvere da sparo, e al momento giusto ci dava fuoco,
divertendosi poi a vedere i gesti eleganti di quei poveretti che scappavano, credendo
di avere ai polpacci il fuoco di Sant’Antonio. In quanto poi ai rettori dell’università e
teologi, li perseguitava in altri modi; quando ne incontrava qualcuno per la via, non
mancava mai di far loro qualche brutto scherzo: ora mettendogli uno stronzo nelle
pieghe del berretto, o attaccandogli delle code di carta e strisce di cenci dietro la
schiena, o qualche altro fastidio… E soleva portare un frustino sotto il vestito, col
quale frustava senza remissione i paggi che erano in giro per qualche commissione,
per farli andare più svelti. E nel mantello aveva più di ventisei taschette e ripostigli
sempre pieni: l’una di un piccolo dado di piombo e di un coltellino affilato come il
trincetto di un calzolaio, che gli serviva per tagliar le borse; l’altra, di aceto, che
gettava negli occhi a quanti incontrava; l’altra di lappole, con attaccato piumetti d’oca
o di cappone, che gettava sulle vesti e sui berretti dei pacifici cittadini; e spesso
attaccava anche lor dietro due belle corna, che quelli si portavan per tutta la città, e
qualche volta per tutta la vita. E ne metteva anche alle donne, sui loro cappucci, di
dietro, ma fatti a forma di membro virile; e in un’altra, teneva una quantità di cornetti,
tutti pieni di pulci e pidocchi, che trovava dai poveri di Sant’Innocenzo, e con delle
cannucce, e piume per scrivere, li gettava sui colletti delle più azzimate giovinette che
trovava per la via, e così in chiesa…” (e via di questo passo, nella bella traduzione di
Bonfantini; e poi basti pensare alla beffa dei montoni per vedere in Panurge un Franti
ante litteram, o in Franti un Panurge post, che è poi lo stesso).
Ora Panurge non nasce e non arriva a caso: non è gigante né Dipsodo, e non entra
nella regale società pantagruelica con l’aria di chi voglia sovvertire un ordine dalle
radici; la società in cui vive l’accetta e vi si integra – ci beve e ci si ciba, chiedendo
anzi ristoro in molte lingue – vive la vita di corte e segue il sovrano nei suoi viaggi,
accetta dispute con dottori d’oltremanica e frequenta la borghesia dei dintorni. Ma si
integra à rebours, ogni suo gesto appare sfasato rispetto alla norma, accetta le
convenzioni (la messa) per sovvertirle dall’interno (occasione per distribuir pidocchi),
intraprende discorsi ma per turlupinare l’interlocutore, veste come gli altri ma fa delle
sue vesti nascondiglio per i suoi trucchi, nessuno dei quali mira specificatamente a un
utile particolare, ma tutti nell’insieme a una deformazione degli umani rapporti.
Proprio per questo, se Gargantua et Pantagruel è il libro che chiude un’epoca e ne
apre una nuova, esso lo è proprio per la centralità che vi ha Panurge, poiché il
Gargantua è, rispetto alla cultura tardomedievale che si sfa, proprio quel che Panurge
è per la corte di Pantagruel, qualcosa che si installa dentro a un ordine e lo mina
dall’interno deformandone la fisionomia con atti di gratuita iconoclastia. Compagno
di Panurge in questa impresa, è il Riso. Anche Panurge, l’infame, rideva.
Ecco dunque profilarsi l’idea di un Franti come motivo metafisico nella sociologia
fasulla del Cuore.
Il riso di Franti è qualcosa che distrugge, ed è considerato malvagità solo perché
Enrico identifica il Bene all’ordine esistente e in cui si ingrassa. Ma se il Bene è solo
ciò che una società riconosce come favorevole, il Male sarà soltanto ciò che si
oppone a quanto una società identifica con il Bene, ed il Riso, lo strumento con cui il
novatore occulto mette in dubbio ciò che una società considera come Bene, apparirà
col volto del Male, mentre in realtà il ridente – o il sogghignante – altro non è che il
maieuta di una diversa società possibile.
Per cui bene aveva fatto Baudelaire a identificare il Riso con il Diabolico ed a vedervi
il principio del Male. Agli occhi di Colui che tutto sa, il riso non esiste, e scompare
dal punto di vista della scienza e delle potenze assolute: è chiaro: dal momento che di
un ordine esistente si ha certezza e corresponsabilità, dal momento che vi si assente
dogmaticamente o vi si aderisce consustanzialmente, quest’ordine non può essere
messo in dubbio, e il primo modo per credervi è di non riderne.
Il riso, dice Baudelaire, è proprio dei pazzi: di coloro che non si integrano all’ordine,
dunque. Per colpa loro, nel caso dei pazzi; ma nel caso sia colpa dell’Ordine? Chi sarà
allora il Ridente? Colui che ha avuto coscienza della caduta, e quindi della
provvisorietà dell’ordine dato. Il cattivo dunque, colui che ha colpevolmente
mangiato all’albero del bene e del male? Ma questa è l’interpretazione del Ridente
data da chi non ride, e accetta l’Ordine. Per lo scolastico messo alla berlina da
Panurge, nel dialogo con Thaumaste fatto a gesti e a sberleffi, il gioco di Panurge è
un attentato diabolico. Per noi, nati da Rabelais, il gioco di Panurge è allegra profezia
di una nuova dialogica, e comunque messa a punto della vecchia, resa dei conti.
Chi ride è malvagio solo per chi crede in ciò di cui si ride. Ma chi ride, per ridere,
e per dare al suo riso tutta la sua forza, deve accettare e credere, sia pure tra parentesi,
ciò di cui ride, e ridere dal di dentro, se così si vuol dire, se no il riso non ha valore.
Ridere del piegabaffi, oggi, è un gioco da ragazzi; ridete dell’usanza di radersi, e poi
discuteremo.
Chi ride deve dunque essere figlio di una situazione, accettarla in toto, quasi amarla, e
quindi, da figlio infame, farle uno sberleffo. (Franti a parte, solo di fronte al riso la
situazione misura la sua forza: quello che esce indenne dal riso è valido, quello che
crolla doveva morire. E quindi il riso, l’ironia, la beffa, il marameo, il fare il verso, il
prendere a gabbo, è alla fine un servizio reso alla cosa derisa, come per salvare quello
che resiste nonostante tutto alla critica interna. Il resto poteva e doveva cadere.)
Tale è Franti. Dall’interno idilliaco della terza classe in cui alligna Enrico Bottini, egli
irraggia il suo riso distruttore; e chi si aggrappa a ciò che egli distrugge, lo chiama
infame. Fatto nascere dall’immaginazione di De Amicis e dalla visione astiosa di
Enrico come principio dialettico, Franti viene troppo presto eliminato di scena perché
si possa intravvedere quale reale funzione avrebbe egli svolto in questo quadro: se il
comico è l’Ordine che, accettato ed esasperato a bella posta, esplode e si fa Altro,
Franti non ha neppure abbozzato il suo compito.
Tenuto a freno dalla visione sospettosa di Enrico, non ha saputo espandersi come
dialettica voleva: e solo noi possiamo ora intravvederne e svilupparne i germi
liberatori e correttivi. Troncato sul nascere, il “Principio Franti” non si è risolto, come
avrebbe dovuto, nella forma compiuta del Comico: e “comica” rimane solo la
dialettica Franti-Enrico vista da noi, ora, e come tale messa in rilievo. Bloccato nella
situazione Cuore nella misura in cui Enrico lo aveva immobilizzato – escludendo
dogmaticamente che Franti potesse avere coscienza del significato dei suoi gesti –
l’Infame, anziché sacerdote dell’epoché ironica, rimane soltanto un non-integrato e
uno schizoide.
Ma di lui – e da lui – ci rimane un monito, acché la sua infamia sia la nostra virtù.
Saremo capaci di ridere, a ciglio asciutto, di nostra madre? Eliminato dal contesto
fantastico in cui viveva, Franti è accantonato dal cronista dell’Ordine e della Bontà:
ed è supposto finire all’ergastolo, dove appunto si raccolgono i non-integrati.
Franti è così rimasto come un abbozzo di Comico possibile: per riuscire egli avrebbe
dovuto assumere – ostentando buona fede – i panni di Enrico e scrivere lui stesso il
Cuore. Col sogghigno – invece che col singhiozzo – facile. Siccome non ha
raccontato, ma è stato raccontato, non ha assunto la funzione di giustiziere comico,
ma è rimasto come un’ombra, una tabe, una falla nel cosmo di Enrico, una presenza
inspiegabile e non risolta.
Noi sappiamo però che, al di fuori del libro, gli è stata lasciata un’altra possibilità (di
cui Enrico non aveva avuto mai sentore): perché l’Ordine o lo si ride dal di dentro o lo
si bestemmia dal di fuori; o si finge di accettarlo per farlo esplodere, o si finge di
rifiutarlo per farlo rifiorire in altre forme; o si è Rabelais o si è Cartesio; o si è, come
Franti ha tentato, uno scolaro che ride in scuola, o un analfabeta di avanguardia. E
forse Franti, con la memoria accesa del gesto di papà Coretti che dava al figlio, con la
mano ancor calda, la carezza del Re (impeditogli da Enrico di sorridere ancora una
volta, cancellato con un tratto di penna), si apprestava in una lunga ascesi a esercitare,
all’alba del nuovo secolo, sotto il nome d’arte di Gaetano Bresci.

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9 Commenti

  1. Stavo giusto pensando a questo elogio qualche giorno fa, anche se non mi immaginavo che l’avrei visto pubblicato su nazione indiana in in questa triste circostanza.
    Grazie Antonello

  2. Umberto Eco è uno scrittore Romantico. Un gigante come Victor Hugo.
    Il mio romanzo preferito è La mystérieuse flamme de la reine Loana.

    Grazie per l’articolo. Non conosco questo testo.

  3. L’ascesi di Franti non si e’ conclusa all’alba del nuovo secolo: e’ andata ben oltre, almeno fino al 16 marzo 1978, sotto il nome d’arte di Borghi.

    • Non capisco se questo commento sia simpatetico nei confronti di Franti (come è simpatetico il testo di Eco) oppure no.
      La figura del brigatista Mario Moretti (“Borghi” è lui) infatti mi sembra lontanissima da quella di Franti, a cominciare proprio dal tratto più caratteristico del personaggio, e cioè la sua inclinazione alla risata dissacrante.
      Ricordo il volume di Sergio Flamigni “La sfinge delle BR”.
      Sottolineando fin dal titolo il tratto più caratteristico del personaggio, e cioè la sua ambiguità, Flamigni racconta bene la vicenda oscura di Moretti: dai trascorsi da studente e sindacalista cattolico e filofascista ai vertici delle BR nella fase del famigerato “attacco al cuore dello stato” che, come si sa, tanto giovò alla strategia della tensione.
      Allora sarebbe più corretto (moralmente, più che “filologicamente”) individuare le successive incarnazioni di Franti in un Pinelli, o in un Valpreda, dal momento che quello descritto da Eco è appunto un anarchico, un ribelle.
      Credo che se Franti “il cattivo” si fosse reincarnato in un suo omologo del 1978, con ogni probabilità invece sarebbe morto con un ago nel braccio. Una fine che del resto mi pare abbia una portata simbolica pari a quella di uccidere il re.

  4. Bellissima idea pubblicare questo elogio. Cominciai i miei studi di comunicazione sul suo Trattato di Semiotica Generale e da li ho proseguito ad apprezzarne le capacità critiche e la illuminata visione delle cose.

  5. I testi di Umberto Eco, dai grandi tomi tipo SCRITTI SUL MEDIOEVO alle STORIA DELLA BELLEZZA/BRUTTEZZA, ai tomi più contenuti e/o alle BUSTINE DI MINERVA, si prestano a letture le più aperte e labirintiche, stimolano (e non poco) il senso critico del lettore-studioso, mai con saccenteria e pedanteria semmai con ironia profonda da grande vero Cosmopolita delle Idee e scusate se è poco, mancherà e molto.
    r.m.

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antonio sparzani
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Antonio Sparzani, vicentino di nascita, nato durante la guerra, dopo un ottimo liceo classico, una laurea in fisica a Pavia e successivo diploma di perfezionamento in fisica teorica, ha insegnato fisica per decenni all’Università di Milano. Negli ultimi anni il suo corso si chiamava Fondamenti della fisica e gli piaceva molto propinarlo agli studenti. Convintosi definitivamente che i saperi dell’uomo non vadano divisi, cerca da anni di riunire alcuni dei numerosi pezzetti nei quali tali saperi sono stati negli ultimi secoli orribilmente divisi. Soprattutto fisica e letteratura. Con questo fine in testa ha scritto Relatività, quante storie – un percorso scientifico-letterario tra relativo e assoluto (Bollati Boringhieri 2003) e ha poi curato, raggiunta l’età della pensione, con Giuliano Boccali, il volume Le virtù dell’inerzia (Bollati Boringhieri 2006). Ha curato due volumi del fisico Wolfgang Pauli, sempre per Bollati Boringhieri e ha poi tradotto e curato un saggio di Paul K. Feyerabend, Contro l’autonomia (Mimesis 2012). Ha quindi curato il voluminoso carteggio tra Wolfgang Pauli e Carl Gustav Jung (Moretti & Vitali 2016). È anche redattore del blog La poesia e lo spirito. Scrive poesie e raccontini quando non ne può fare a meno.
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