Red west

redford
Il buon vecchio Robert

di Gianni Biondillo

Da bambino me ne andavo in giro per il cortile del palazzone di periferia dove vivevo tutto orgoglioso della mia colt 45 nella fondina, della stella appuntata sul petto e dei baffi arricciati all’insù, disegnati con la penna bic da mia madre. Facevo lo sceriffo e portavo la legge nel selvaggio west. Fu il mio periodo repubblicano, quando sentivo il fardello della civiltà occidentale sulle spalle e i sacri valori della democrazia occidentale da inculcare ai villici a colpi di piombo fumante. Non durò molto. Venne molto presto la mia deriva libertaria. Presi coscienza dei diritti delle minoranze e compresi il dovere della loro salvaguardia. Avevo sei anni, più o meno. Ero nel mezzo di una temperie culturale che stava cambiando la Weltanschauung. Al cinema l’eroe non aveva più le sembianze scultoree del tetragono John Wayne ma quelle inquiete di un Robert Redford che cercava la pace interiore fra le montagne abitate dai nativi americani. Andavo scoprendo il quartiere popolare dove vivevo indossando un copricapo di piume e due strisciate di colore sulle guancie. C’è da dire, ad essere sinceri, che dello “spirito dei tempi”, della controcultura e di tutto quell’armamentario retorico degli anni ’70 mica ci capivo molto. A conti fatti a me semplicemente piaceva andare in giro a fare l’indiano. Vita libera e selvaggia. Alla ricerca di tracce di animali o pronto ad accendere un fuoco fra i rovi dei campi abbandonati con gli amici del cortile.

Potenza dell’immaginario collettivo. Ero figlio di due sottoproletari meridionali emigrati a Milano, ma delle loro svariate leggende di contadini, nobiluomini o briganti non sapevo nulla. Il mio mondo immaginifico era stato invaso dalle narrazioni che venivano da oltreoceano. Pasolini, proprio mentre ero quel bambino che giocava a fare il capo indiano, manifestava sulle pagine del Corrierone la sua antipatia nei confronti dei capelli lunghi. Dapprima visti come segno di rivolta giovanile, poi come prodotto omologante della sottocultura dominante. Chissà la sua reazione se sapesse, povero poeta, come oggi i suoi stessi versi vengano manipolati a sproposito dalla nuova sottocultura, che non sa più distinguere destra da sinistra, alto da basso. Proprio come gli indiani d’America, dapprima simbolo della cultura alternativa e oggi usati come icone del più vieto localismo razzista. Potenza dell’immaginario, dicevo, che crea una cornice, un contesto, dentro il quale, per quanto ci si muova, diventa imprescindibile.

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Winnetou e Old Shatterhand

Io, per dire, della serie di romanzi western scritti all’inizio del secolo scorso da Karl May nulla sapevo. Un intero universo di personaggi inventati da un tedesco che non aveva mai visitato gli Stati Uniti, se non in vecchiaia. E della infinita filmografia, che dagli anni Venti è giunta sino alla fine del secolo breve, meno che meno. Per me Winnetou, l’apache protagonista della sua saga, e il suo sodale Old Shatterhand, erano due perfetti sconosciuti. Eppure allo stesso tempo, senza aver mai letto una riga o visto un solo fotogramma, li sento familiari. In fondo leggevo Tex da bambino. E Gianluigi Bonelli e Aurelio Galeppini mica c’erano stati nelle praterie del nord America quando lo inventarono.

Ma che ancora oggi qualcuno, in nome di quelle avventure immaginate da un signore nato in Sassonia, decida di vivere come un nativo americano, fra tepee, squaw e trapper, be’, diciamocelo, mi toglie il fiato. Ché tutto ti aspetti, ma non di vedere questi europei dagli occhi cerulei e le chiome bionde fare gli indiani. E non da oggi. Molti dei luoghi dove, con la bella stagione, si fermano a bivaccare sono i set cinematografici proprio di quei film che hanno costruito il loro immaginario infantile, quando la cortina di ferro separava nettamente l’Europa, fra miti capitalistici da una parte e socialismo reale dall’altra.

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foto di Jen Osborne

Questi polacchi, russi, cechi, si travesto da indiani fin dai tempi in cui svettavano bronzei i monumenti dedicati a Lenin nelle piazze delle loro città. Forse così, all’epoca, parteggiando per i nativi americani credevano di criticare la società nata dai cow boy bianchi, sterminatori di quel popolo tanto ammirato. Ma alla fine restavano, e i loro successori ancora restano, dentro la potente cornice di un mito. Prima ancora che il muro crollasse, insomma, l’immaginario americano li aveva già definitivamente conquistati. Dei navajo o degli apache, delle loro autentiche tradizioni o dei loro valori, sapevano, e sappiamo, poco e niente. Ce li siamo costruiti come un abito prêt-à-porter – buoni, saggi, liberi, legati al ciclo della natura – facili da indossare o imitare. Fare l’indiano a Berkeley o a Budapest alla fine cambia poco. La sottocultura vince sempre.

O forse più semplicemente, senza star qui a tirare fuori a sporposito Pasolini, la verità è che li guardo e li invidio. Come quel bambino avventuroso che si appostava vicino ai binari delle ferrovie Nord Milano in attesa di assalire il treno con la sua crew, vorrei ora, lo confesso, stare lì, con loro, col corpo seminudo e dipinto, a cavalcioni del mio mustang, capelli al vento, nella prateria. Magiara.

foto di Jen Osborne
foto di Jen Osborne

(pubblicato su Io Donna del 6 febbraio 2016, vedi il servizio fotografico di Jen Osborne, che ha ispirato il pezzo, qui)

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gianni biondillo
gianni biondillo
GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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