La vita del caso

di Pino Tripodi

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Do qui un’anticipazione del romanzo Per sempre partigiano di Pino Tripodi, ed Derive e Approdi, 2016, euro 16,g.m.)

la storia inizia per caso. tutto comincia quando decido di fare una vacanza collinosa sul belbo in quel tratto di fiume incastonato tra le province di cuneo asti e alessandria prima che le sue acque ancora giovani si perdano nel tanaro.

il belbo anche lui muore giovane come tutte le vite – suicide o meno – inghiottite da fiumi più grandi di loro.

la politica e i partigiani contano un fico secco in quella decisione. c’entrano invece l’ottimo vino la viranda del mio amico claudio solito e l’idea di rivedere i luoghi pavesiani.

prenoto un albergo e smacchino pigramente da quelle parti. giunto in hotel ho giusto il tempo di sistemare le cosettuole che mi seguono e di chiedere un caffé in camera.

la vita cambia direzione appena mi metto a sfogliare i racconti di cortazar.

quell’11 aprile 1998  il primo tocco – solitario subito soffocato – delle campane a morto mi desta un’immediata curiosità. il suono   a bicchiere quello riservato per le celebrazioni solenni annuncia la fine di una persona particolare.

smetto subito di leggere. mi alzo di scatto. dispongo istintivamente l’orecchio sinistro verso la finestra da cui arriva la musica. sette  secondi distante il secondo tocco mi indubbia. poi qualcosa prendo a intuire.

dalla memoria inatteso affiora un ricordo che spenso di aver mai registrato. l’annuncio dell’agonia di mio padre con i tre tocchi delle campane a distesa ripetuti più volte tanti anni prima.

dalla musica delle campane s’intuisce che il morto è del posto. si tratta di un uomo di 77 anni. appartiene a qualche confraternita. ma qualcosa rimane oscuro. perché le campane finito il concerto ricominciano a suonare senza attendere le pause canoniche che precedono il rito funebre? a chi vogliono far sapere che qualcuno qualcuno di certo importante se ne anda? quei suoni sembrano smaniosi di infiltrarsi nei padiglioni auricolari di chi non vuole ascoltarli.

dopo quarantacinque minuti con gli orecchi incollati alle campane decido di verificare  di persona di che morto si deve vivere quel giorno.

abbandono l’albergo. percorro quel centinaio di metri che mi separa dalle campane. davanti alla chiesa non c’è nessuno. niente parenti niente catafalco. anche le panche e i confessionali dell’interno sono vuoti. guardo nella cantoria oltre l’altare e in sacrestia. nessuno. non rimane che chiedere informazioni al campanile sonante. inizio correndo la scalata ma devo presto accorgermi che le gambe mi diventano lignee. passo passo freno l’ascesa non contando gli scalini. nell’ansia di raggiungere la sommità mi sembrano più dei quattrocento del campanile di giotto.

finalmente arrivo alle campane. si ostinano ad annunciare  il transito ben oltre il tempo concesso normalmente ai morti. mi aspetto di incontrare il sacrestano. vedo invece un vegliardissimo sacerdote solennemente vestito con cotta e stola bianca sopra l’abito talare ricoperto dal velo omerale. gli faccio segno più volte. passano più minuti poi finalmente non so se per le mie insistenze o perché quel sistema di concerti funebri termina le campane si tacciono. chiedo al parroco a che  ora inizia la funzione.

oggi non c’è alcuna funzione funebre dice con mia enorme sorpresa.

se non oggi quando si svolge in chiesa il funerale della persona di queste campane?

mai.

mai? perché è morto altrove?

  1. è morto a cento metri da qui.

forse non si trova il corpo?

no.

è  morto suicida?

cosa c’entra.

c’entra che mi piacerebbe conoscere la ragione di un concerto funebre senza fine per un funerale che non  ha luogo.

il funerale sta per iniziare non in chiesa.

dove?

direttamente al cimitero.

è perché mai?

perché il morto pensa di non credere.

mi sta dicendo che lei suona le campane così solennemente per un uomo che non è cattolico.

per un uomo che pensa di non esserlo.

perché lo fa.

anche se un uomo è incapace di riconoscere i meriti di dio dio sa riconoscere i meriti dell’uomo.

ma non si suonano le campane per un miscredente.

dio non suona a comando perché così si usa fare.

 

il mio interesse per il morto cresce.

 

dove si trova il cimitero?

a cinquecento metri dalla chiesa.

allora andiamoci.

lo dico a me stesso ma il sacerdote lo accoglie come un incoraggiamento a fare quello che la testa sua fino a quel momento non gli ordina. affronto la discesa  con gli occhi incollati ai piedi. quei gradini che in salita sembrano solo numerosi ora mi appaiono anche dislivellati smussati bucherellati. l’ideale per capitombolare. giunto in piano mi metto  lesto a camminare. la testa ora può occuparsi del mondo senza limitarsi al pensiero piccino di salvare se stessa. dietro di me a passo molto più vecchio il prelato.

il cimitero arriva coi dodici gradini dell’ingresso. oltre a sinistra si presenta subito la camera mortuaria. dentro appoggiata sul marmo una bara già sigillata e tre persone due anziane e una giovane a onorare il defunto. arrivano i becchini uno in più dei congiunti del morto. fanno scivolare il feretro su un carrello. seguiti dai tre da me e dal sacerdote lo conducono presso un loculo. lacrimoso il più anziano improvvisa una brevissima orazione leggendo male da un foglio manoscritto non bene. poi la bara si infila nella sua angusta dimora. presto un manovale cementa l’ingresso del loculo. in attesa del marmo sul cemento ancora fresco uno dei tre il più giovane illacrimabile con un temperino scrive 1921-1998. per sempre partigiano.

 

mi appunto nome anno di nascita e di morte. è lo stesso nome pronunciato spesso in casa. un partigiano leggendario. ma qualcosa non torna. credo faccia parte del pantheon dei vincitori ma a vederlo ridotto così solingo non capisco.

prima che quel mancato corteo funebre si sciolga provo a chiedere come mai un partigiano tanto importante muore in una solitudine così estrema. di solito gli eroi si accompagnano al viaggio ignoto con  bande fanfare gagliardetti e discorsi oceanici.

la storia ha l’altalena mi risponde il sacerdote.

 

la solitudine e la vita di quel partigiano da allora mi  diventano un’ossessione. comincio a chiedermi perché la storia è così capricciosa. perché lascia che alcuni facitori di mondo muoiano tanto soli. perché li usa come schiavetti decidendo alla fine di cancellarli dalla sua vita.

perché gli uomini possono fare a meno della loro storia.

non so dare spiegazioni logiche. amico d’infanzia dell’uomo solo il vegliardissimo sacerdote che da quel giorno accompagno alla morte prima di sparire me ne  bisbiglia una.

quel partigiano non possiede il dono della viltà della vita.

da quando la viltà è diventata un dono.

giovanotto forse non ha senso intendere il mio parlare e certo è ancora più vano che io tenti di spiegarlo. non si fermi alla realtà addomesticata delle parole.

mi dia un appiglio.

l’esistenza è fatta di piccole viltà. senza è impossibile vivere. l’esistenza che sfida le viltà della vita è insopportabile agli uomini normali. meglio che venga seppellita fino a quando un mito non le restituisce un briciolo di ghignante beffarda verità.

la vita vera evapora. si salva solo il fumo.

 

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Giorgio Mascitelli
Giorgio Mascitelli ha pubblicato due romanzi Nel silenzio delle merci (1996) e L’arte della capriola (1999), e le raccolte di racconti Catastrofi d’assestamento (2011) e Notturno buffo ( 2017) oltre a numerosi articoli e racconti su varie riviste letterarie e culturali. Un racconto è apparso su volume autonomo con il titolo Piove sempre sul bagnato (2008). Nel 2006 ha vinto al Napoli Comicon il premio Micheluzzi per la migliore sceneggiatura per il libro a fumetti Una lacrima sul viso con disegni di Lorenzo Sartori. E’ stato redattore di alfapiù, supplemento in rete di Alfabeta2, e attualmente del blog letterario nazioneindiana.
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