Da Radice d’ombra – Poesie scelte

di

Roberta Ioli

(ed. Italic & Pequod, Ancona, 2016, pref. di Fabio Pusterla)

Mamma Boté

per Gregorio
Lei non sa rispondere
e guarda la fragile stella che ora attraversa la casa.
Come ti saresti chiamato
e chi eri, prima di essere un pensiero
di battermi nel sangue e nel respiro?
Mi chiedi dove stavi
prima di calciare regole e orari
prima di soffrire per chi non ti vede
o ti abbandona, prima di nascondere
il timido sonno dentro il libro della magia
e del bene possibile sempre.
Strana creatura, conosci
il volo degli uccelli
e più di noi sai leggere segni
per la gioia di chi ami.
Ma ti muovi in un regno inaccessibile
e ancora non so se lì vuoi essere raggiunto
o senza alleati ti appresti alla lotta
contro gli dei della solitudine antica,
tu che nel nome porti il risveglio
e la paziente preghiera.

* * *

Quale geografia

Nelle strade che da sempre calpesto
non trovo altro che fiori educati
a giardini gentili, sorrisi solleciti al nulla
tra i relitti della storia.
Mi pare ancora
di non avere mutato geografia
osato nuove mappe, inversioni,
frazioni di passi su cui ricalcare l’impronta.
Mi chiedo se sia questo
il destino che ho scelto – osservare dai bordi –
o non sia il caso ad avermi dimenticato
tra gli scarti del tempo
in un porto qualunque dove rara
è la tempesta, se non del cuore.
Nella cella della conservazione, nel silenzio
che ho scelto obbediente,
talvolta accelera rovina e rinascita
l’onda purissima di antiche ragioni:
il mio singolo stare nel mondo.

* * *

Non possiamo accarezzare

L’uomo è legno storto
io il legno storto
a cui appendo fragile
parvenza di corpo
le membra sono stecchi con tosco
ogni albero un occhio, ogni pena
una stilla di linfa e sangue.
Non è solo la malattia del tempo
è la peste che abbiamo unto
è la ruggine dei nostri mali pensieri
che mutila la selva solitaria.
Le nostre mani sono rami affilati –
perduta la tenerezza del palmo
le piccole rughe del dorso –
immobili nel bosco dei trafitti
siamo i violenti che ogni giorno
scacciano luce e amore
per un’antica colpa mai commessa.

* * *


Oltre le colonne

Mentre il buio è al suo principio,
nella terra boreale l’alba
schiarisce la notte
i galli puntellano il giorno
nell’aia azzurra, lungamente
la mula ragliando il suo roco lamento.
Tu dormi
tra l’angustia del cortile
e la solenne croce del sud.
Ha fatto ombra al tuo viaggio
la montagna del Purgatorio
nessuna ferita dai grandi serpenti marini
nessuna offesa dalla terra
senza uomini e senza ritorno.
Attraversi gli abissi con legno leggero.
E ancora mi chiedo
se solo a te si celino i mostri di Finisterre
o se semplicemente
con il pudore di un timido pifferaio
tu li abbia mutati in onde.

* * *

Come pietra senza voce

1.

In alto è la stanza in cui ti vedo
finestre grandi accolgono il cielo
e due camini accesi.
Sono il cuore e l’invenzione
i tuoi due fuochi, vivi
anche nel niente di parole.
Ritrovo i tappeti srotolati
il caffè caldo sul vassoio
e mi chiedo come puoi
muoverti con tanta cura tra gli oggetti
ora che non vedi.
Per un attimo
attraverso quest’ordine sacro
tu parli. Ma l’immobile presenza delle cose
ha il suono freddo dei cristalli
e subito si fa definitiva
sigillata nel corpo di una pietra.

2.

Come figlia mi hai curata
per tutto il tempo che ho vissuto nella casa
e anche dopo, quando una casa l’avevo
ma lo ignoravo.
Ti sono madre nell’ultima cena
tu passero che la tempesta caccia dal nido
il becco spalancato verso il cielo, gli occhi velati
senza memoria, neppure un pigolio
strozzato dalla gola.
Ma non è fame
questa tua muta preghiera
è grido di altro smisurato
che la bocca non può dire.

3.

Te ne sei andata senza peso
con voce piccola
per sottrazione di corpo.
Sul cuscino l’orma dei sogni:
così poco resta
di questo antico amore.
La morte si misura nel tempo
il dolore non da subito conosce, solo dopo,
quando si fa lago senz’onda
e nell’impossibile ritorno
allontana la prima riva.

* * *

Trilogia dell’acqua

per Gianluca

1.

Il sonno non si spezza
non si interrompe, si ammala invece di vertigini
nel martello della veglia.
Lì vedo il tuo volto
mi parla la tua lingua senza suono.
Sai sillabare in quella curva della notte
i tranelli di marinaio
gli apologhi di mitico viaggiatore
ma non puoi fermarti sulla soglia
né danzare, pallido contro il buio del tempo
dove altri sorridono forse delle tue acrobazie.

2.

Mi chiedo dove sei
ora che vorrei seguire il contorno delle tue dita
le grandi mani di indiano
dove sei nell’istante in cui mi affido al buio
e non so più se ti nascondi.
Finisterre mi avevi battezzato
tanto ero lontana e a picco sul precipizio
in cui natura d’acqua si impenna
e mai riposa. Lì forse tremò Arianna
davanti all’orca nera degli abissi.
Tu più irraggiungibile di me
ti sei nascosto sulla schiuma dell’onda
nell’insonnia del sale
e tra i gabbiani ti semini come un frutto.
Sei un solco, una terra ora
di fertile sonno, con le mani
aperte come due conchiglie
per il riposo del mare.

3.

Si fa così oggi
si sta come Giuseppe il fante
che accoccola gli stracci
nell’acqua dell’Isonzo. Ogni giorno rinnoviamo
quel battesimo di caduta, fino a quando
curvi come un fuscello sotto vento
ci ritroviamo guerrieri in disarmo.
Oggi non crediamo di meritare il cielo
ma il pascolo muto delle pene
la sincope del cuore nella sua colpa d’origine:
non si traccia resistenza
se il moto è senza posa,
senza felice compimento –
un destino d’uccello senza volo.

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daniele ventre
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Daniele Ventre (Napoli, 19 maggio 1974) insegna lingue classiche nei licei ed è autore di una traduzione isometra dell'Iliade, pubblicata nel 2010 per i tipi della casa editrice Mesogea (Messina).
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