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Divenire pietra

PIETRE-VIVEdi Antonio Russo de Vivo

È tutto finzione,
non Ci credete.

Un tempo conoscevo solo stanchezze da temere1dice Peter Handke, UN TEMPO-CONOSCEVO-SOLO-STANCHEZZE DA TEMERE, e indugiamo inebetiti su queste parole – le prime! – che iniziano una confessione/elogio della ‘stanchezza’, il Saggio sulla stanchezza (1989), e riscopriamo, nel fluire lento delle parole, che al di là delle diverse stanchezze ce n’è una, la Stanchezza, cui è lecito tendere con tutta la forza del disimpegno, un momento di pace e di comunione con il mondo:

il mondo, in silenzio, assolutamente senza parole, si racconta da sé […]; tutto il pacifico accadere era al contempo già racconto, e questo, a differenza delle azioni militari e delle guerre, che avevano bisogno di un cantore o di un cronista, nei miei occhi stanchi si strutturava da sé a epos, per di più – come mi parve lampante – a epos ideale: le immagini del mondo fugace inerivano di scatto, una via l’altra, e prendevano forma.2

Siamo da poco svegli, la vita ci si apre lenta e noi sentiamo ancora il peso rassicurante dell’immortalità, poiché il sonno è morte e da quella morte, ancora una volta, siamo tornati vivi, e tutto intorno si dipanano gli elementi, e noi godiamo ancora un po’, come stretti alle caviglie, tentati a tornare lì da dove siamo venuti, e invochiamo le nostre forze, ci risolleviamo, scacciamo i fumi della notte e ci sforziamo di riflettere, inebetiti, sulle parole di Handke affrontate al principio di tutto ciò che da quel momento accade.

Handke si volge indietro, SOLO, e poi ripercorre la sua vita e alla fine capisce. Lo sapevamo già, NOI, che ci sono stanchezze e c’è Stanchezza, l’abbiamo capito prima, quando eravamo giovani e aggiornati e lucidi e sapevamo parlare di tutto con nervosa intelligenza e con chiarezza e senza far tanti retorici preamboli come facciamo ora3, tante volte, allora, incontrammo il Mondo tutto e lo abbracciammo e ne ridemmo e ne piangemmo felici ma di quella felicità che non conosce causa, e così restammo sospesi, più e più volte, in estasi, perché la giovinezza ce lo permetteva, perché non urgeva volgere lo sguardo troppo avanti, oltre la punta dei piedi di mister Burroughs, perché NOI eravamo TUTTO, TUTTO, TUTTO.

Conoscete la malinconia? È quando non vi bastate più, e sentite di avere una ferita aperta da qualche parte, chissà dove, che non procura nessuna fitta, nessun bruciore, eppure sapete che c’è e sapete che resterà lì per sempre perché voi, da soli, non vi bastate, vi manca qualcosa, VI MANCA, VI MANCA, e sostituite, e vi affannate, e ricercate, ma NULLA.

Noi abbiamo perso la Stanchezza e siamo divenuti esseri malinconici, d’un tratto, senza preavviso alcuno. Non c’è speranza a tutto ciò, NON C’È SPERANZA, abbiamo capito come ci gira intorno il mondo, non volevamo farlo, è capitato, capire è una cosa che capita, la comprensione ti si scaglia addosso e tu non sai che farci, ti illudi un attimo che ciò è giusto e bello e importante, e poi scopri che nulla è peggio di capire, fai i conti con ciò che hai capito, di continuo. La maturità, quando viene, ha i connotati diabolici di Silvio, l’antagonista de La pistolettata di Puškin, colui che interruppe un duello quando sopraggiunse il suo turno, irritato dall’indifferenza alla morte dell’avversario, per poi riprenderlo dopo anni, al momento opportuno, quando l’avversario aveva abbastanza vissuto da temere, finalmente, di perdere tutto. Da giovani, al cospetto della morte, si mangiano le ciliegie e sdegnosi si sputano i nòccioli, eppure la maturità è lì, a pochi passi/pochi anni, e vi dice, irritata, “pare che adesso non abbiate il capo a morire” […] “fate colazione; non voglio disturbarvi”4. Noi non l’aspettavamo, essa è arrivata. Noi abbiamo avuto paura, essa ci ha risparmiati, purché, una volta giunta, essa sia per sempre impressa nella nostra testa. Non c’è speranza, non siamo più giovani, anzi una speranza c’è: è la demenza. Ma anche la demenza, ahinoi, giunge senza preavviso, e quando c’è non ci è più utile, non la riconosciamo, non ci riconosciamo, NON SIAMO PIÙ NOI.

Noi, da quando l’abbiamo conosciuta, aneliamo sempre alla Stanchezza, e lo sappiamo che il problema è tutto lì, nell’averla conosciuta, perché una volta conosciuta non può esserci più, eppure, sempre, la desideriamo, e il nostro desiderio, inevitabilmente, è una perpetua nostalgia. Noi lo ammettiamo, vogliamo essere divinità, ma non divinità tutta, bensì divinità del settimo giorno, “il giorno del non-fare, un giorno in cui sarebbe possibile l’utilizzo dell’inutilizzabile5 come dice bene Byung-Chul Han e aggiunge:

Handke abbozza una religione immanente della stanchezza. La “stanchezza fondamentale” annulla l’isolamento egologico e fonda una comunità che non ha bisogno di parentele. In essa si risveglia un particolare ritmo che conduce a un’armonia, a una prossimità, a una vicinanza priva di ogni vincolo famigliare, funzionale.6

Questa società della Stanchezza noi vorremmo essere invano, NOI, ebbri di comunità, ma fra voi qualcuno ci ha scoperti, e ci ha detto, una volta per tutte, che “da sempre, quando manca qualsiasi forma narrativa, subentrano le fantasie più sfrenate a riempire il vuoto”7. Siamo in tempi di denarrazione e Douglas Coupland lo sa:

Qualcuno sostiene che noi, in quanto animali, ci differenziamo da tutti gli altri animali per un particolare, e cioè che abbiamo bisogno di rendere la nostra vita racconto, narrazione, ed è quando sentiamo svanire il nostro racconto di vita che ci sentiamo sperduti e diventiamo pericolosi, perdiamo il controllo e ci ritroviamo soggetti alle forze del caso. È questo il processo a causa del quale si perde il senso della propria vita come racconto: è la «denarrazione».8

La causa di questi tempi è la “supersaturazione informativa”9, un processo in continua espansione di cui noi, vittime passive, siamo sempre più protagonisti in massa. Tutti dicono qualcosa, TUTTI, e tutto può arrivare a chiunque. Noi non vogliamo, NOI non vi vogliamo, non CI vogliamo, noi siamo stanchi, STANCHI, e ogni giorno aneliamo alla Stanchezza e ogni giorno non la troviamo e ogni giorno moriamo un po’ di più.

Noi, alla fine, vogliamo divenire pietra, e non vi appaia bizzarro, ciò, quanto quell’uomo che vuole rinascere animale e non sa scegliere e ne nomina qualcuno o perché vola, o perché è forte, o perché è bellissimo. Noi non vogliamo nulla di tutto questo, siamo stanchi, STANCHI, e l’ultima cosa che vogliamo, l’unica, è divenire pietra, perché la pietra ci restituisce a una storia lunga e oscura, anteriore all’uomo, una storia che non lo riguarda per nulla e da cui noi siamo nati alla fine di un percorso tra innumerevoli germogli altrettanto effimeri e vani. Non ci spiace di ritrovarci soli, senza enciclopedia, né documenti né codice di fronte a un enigma probabilmente insignificante, la cui soluzione, in ogni caso, non potrebbe interessare un organismo sensibile, sessuato, mortale.10

Questo, tutto QUESTO, è il nostro testamento. Non è il primo, ogni giorno ne scriviamo uno, ogni giorno, tutti i giorni, da quando siamo morti per la prima volta, un giorno, imprevedibile, imprevisto, cui siamo sopravvissuti; ne scriveremo altri, ogni giorno, tutti i giorni, NOI, prima di dormire, prima di morire.

NOI, però, pur essendo mortali, siamo immortali, e questo, soprattutto, è il paradosso che ci scuote, ci angoscia, ci irretisce. NOI siamo umani, NOI siamo divini. NOI. “IO è un altro”.11 “Se esisto, non sono un altro”.12 IO. Dieci. Triangolo. Addio.

 

1 Handke P., Saggio sulla stanchezza (1989), trad. it. di Emilio Picco, Garzanti, Milano, 1991, p. 7.

2 Ivi, pp. 38-9.

3 Kerouac J., I sotterranei (1958), trad. it. di Anonimo, Feltrinelli, Milano, 1999, p. 29: «Ero una volta giovane e aggiornato e lucido e sapevo parlare di tutto e senza far tanti retorici preamboli come faccio ora; […].»

4 Puškin A. S. La pistolettata, trad. it. di Leone Ginzburg e Alfredo Polledro, in Opere, a cura di Eridano Bazzarelli e Giovanna Spendel, Mondadori, Milano, 1990, p. 699.

5 Byung-Chun Han, La società della stanchezza (2010), trad. it. di Federica Buongiorno, Nottetempo, Roma, 2012, p. 73.

6 Ivi, pp. 73-4.

7 Coupland D., Taccuino di Brentwood (1994), in Memoria Polaroid (1996), trad. it. di Marco Pensante, Marco Tropea, Milano, 1997, p. 188.

8 Ivi, p. 183.

9 Ivi, p. 184.

10 Caillois R., Tre lezioni delle tenebre (1978), a cura di Tomaso Cavallo, Zona, Lavagna (GE), p. 76: «La pietra mi restituisce a una storia lunga e oscura, anteriore all’uomo, una storia che non lo riguarda per nulla e da cui io sono nato alla fine di un percorso tra innumerevoli germogli altrettanto effimeri e vani. Sono sconcertato da questo cippo stemmato. Esso mi fa conoscere meglio la mia condizione di essere frazionato e caduco, ma d’una origine così lontana e preparato da un numero così sterminato di casi. Non mi spiace di ritrovarmi solo, senza enciclopedia, né documenti né codice di fronte a un enigma probabilmente insignificante, la cui soluzione, in ogni caso, non potrebbe interessare un organismo sensibile, sessuato, mortale (mi sorprende improvvisa l’idea che ogni essere sessuato, vale a dire destinato alla riproduzione, è necessariamente mortale)».

11 Rimbaud A., Rimbaud a Georges Izambard – 13 maggio 1871, in Opere, a cura di Diana Grange Fiori, Mondadori, Milano, 1997 (I edizione, 1975), p. 450.

12 Lautréamont I. D. comte de, I canti di Maldoror (1869), introduzione, traduzione e note di Lanfranco Binni, V, 3, p. 307.

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1 commento

  1. Essere immortale è cosa da poco: tranne l’uomo, tutte le creature lo sono, giacché ignorano la morte; la cosa divina, terribile, incomprensibile, è sapersi immortali. Ho osservato che, nonostante le religioni, tale convinzione è rarissima. Israeliti, cristiani e musulmani professano l’immortalità, ma la venerazione che tributano al primo dei due secoli prova ch’essi credono solo in esso, e infatti destinano tutti gli altri, in numero infinito, a premiarlo o a punirlo. Più ragionevole mi sembra la ruota di certe religioni dell’Indostan; in tale ruota, che non ha principio né fine, ogni vita è effetto dell’anteriore e genera la seguente, ma nessuna determina l’insieme… [J. L. Borges, L’immortale, in L’Aleph, traduz. di F. Tentori Montalto, Milano, UEF, 2015, pp. 18-19]

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