L’esile sentiero dei lupi solitari: un altro dialogo sull’emergenza terrorismo

di Lorenzo Declich e Anatole Pierre Fuksas

Lorenzo. Avevamo detto che ci sarebbe sembrato il caso di approfondire la questione del complottismo ma l’allarme continuo sta determinando un prevalere della cronaca su qualunque spazio di ragionamento, quindi si tratta di reagire in modo rapidissimo ad un concatenarsi di eventi che rende impossibile seguire un filo non emergenziale. Si vorrebbe svolgere un pensiero approfondito, costruendo categorie che possano servire a demistificare l’idea che siano in corso un jihad e una crociata, ma sono all’opera forze che, più o meno consapevolmente e intenzionalmente, lavorano allo scopo di confermare questa idea su base quotidiana.

Anatole. Il problema che ponevamo, probabilmente in modo troppo implicito, è che il terrorismo polarizza in maniera drammatica. Da una parte si schierano quelli che danno ragione al terrorista, dicendo che è in corso uno scontro di civiltà, anche se in apparenza sembrerebbe che stiano dandogli contro, dicendo che l’Islam è cattivo e medievale e integralista. Dall’altra parte ci sono coloro i quali dicono che il terrorista ha torto a configurare il suo antagonismo contro l’occidente come uno scontro di civiltà, perché in realtà non è in corso nessuna guerra di religione, e per questa ragione vengono etichettati come quelli che sono dalla parte del terrorista.

Lorenzo. Se poi nel mezzo di una sparatoria, come a Monaco in queste ore, arrivi a sentire una vittima che urla all’attentatore «Kanake», un insulto razzista vecchio stile per gli immigrati del sud, sentendosi rispondere «Ich bin Deutscher!» con un accento marcatamente tedesco, il cortocircuito è totale. Se poi, l’attentatore ha davvero aggiunto di essere cresciuto nelle case popolari del quartiere dell’attentato, di esser stato vittima di bullismo per anni, concludendo con l’insulto «Scheisstürken!», cioè « turchi di merda», comincia a diventare abbastanza problematico venire a capo delle varie modalità di svalvolamento che si contendono la scena. L’unica costante parrebbe il fatto che il bersaglio sono sempre e comunque coloro i quali non vogliono essere implicati in questo conflitto, combattuto da improbabili figure che provano ad accreditarsi come jihadisti, sgommando in camion per la Promenade des Anglais il 14 di luglio a Nizza, e altre altrettanto improbabili, che si cuciono addosso ruoli ancor più enigmatici sparando per strada a Monaco.

Anatole. È un quadro flippato, in cui non si sa più chi imita chi, chi agisce perché. Il giorno dell’anniversario del massacro di Utoya un diciottenne tedesco nato a Monaco di origine iraniana emula il terrorismo jihadista, insultando pubblicamente i turchi, a pochi giorni dal fallito colpo di stato in Turchia. In uno scenario del genere, da romanzo di Ballard, che ne so, l’idea di Islam e di crociata alle quali i soi-disant soldatini dello stato islamico fanno riferimento appaiono con evidenza ancora maggiore come invenzioni basate su suggestioni rimasticaticce, prive di ogni fondamento storico e culturale in genere. Dall’attentato omofobo al Pulse la cosa è andata avanti in direzioni assurde, fuori controllo, non solo dal punto di vista dell’ordine pubblico, ma anche da quello dell’analisi. La situazione ha preso una piega paratattica, non più riconducibile ad una ragione rassicurante. Fino a Nizza si poteva osservare, come facevamo, che i terroristi cosiddetti islamici ripetano la loro cosa, poiché trovano continue conferme alla loro idea sbagliata, approssimativa, infondata che essi stiano davvero animando un vero jihad contro i “crociati”. Infatti, quella modalità di funzionamento terrorista ha innescato un meccanismo di risposta tale che coloro i quali si schierano contro i terroristi dicendo che l’islam è cattivo, danno loro ragione, confermando l’idea che sia in corso una guerra santa, finendo appunto per dimostrare l’argomento falso sostenuto dai terroristi, che appunto il loro sia un jihad contro i “crociati”. Ma nel momento in cui un diciottenne tedesco di origine iraniana ammazza la gente a caso in mezzo alla strada alla maniera dei soi-disant jiahadisti, il cortocircuito del terrore che si è prodotto va anche oltre queste categorie di analisi.

Lorenzo. Di fronte a fatti di questo tipo e alla quasi afasia che producono diventa davvero evidente al punto in cui si è arrivati ci si rende conto con sbigottimento che in realtà ognuno sta parlando per conto suo, diciamo che “parla ai suoi”, mentre chi ci rimette, sia in occidente che in oriente, sono gli inermi. È una guerra che ha come bersaglio chiunque non la combatta e non la senta propria, come si capiva dagli attentati al Bataclan, al Carillon, ma anche ad Utoya.

Anatole. Negli speciali di approfondimento ti ritrovi lo psichiatra che ti spiega la differenza tra il quadro dell’attentatore e la depressione, un’amico nostro scrittore che, siccome scrive bene di adolescenti flippati, allora chiediamogli come può succedere che uno a diciotto anni invita gli amici al Mc Donald per ammazzarli, la giornalista tedesca, alla quale domandano come ci si senta ad essere tedeschi oggi, uno tornato dall’Iran tre anni fa che non ha idea come spiegarti cosa significhi essere bullizzato in un ex quartiere operaio del centro di Monaco per un tedesco di 18 anni di origine Iraniana. Non si capisce che risultato dovrebbe venire fuori dalla somma di queste argomentazioni.

Lorenzo. Il problema è che questa emergenza funzionerebbe bene dal punto di vista dell’informazione se ogni fatto rispondesse ad una matrice logica di carattere gerarchico, cosa che, come s’è visto già al Pulse, non è. Lo schema del jihad contro i crociati viene male, non torna, e allora salta tutto, anche tra i cosiddetti “buonisti”. Cioè, non puoi dire che “NOI andiamo da LORO e li distruggiamo, gli rubiamo tutto, facciamo i nostri interessi senza meno, annientiamo la loro cultura, insomma abbiamo da sempre rotto il cazzo a LORO e quindi LORO ora rompono il cazzo a NOI”. Primo perché non è chiaro chi siano LORO e chi siamo NOI, secondo perché quelli a cui rompiamo il cazzo NOI non sono gli stessi LORO che ci vengono a rompere il cazzo.

Anatole. Il caso di Monaco è prototipico. Per quanto ci si voglia sforzare di ricondurre il fatto a categorie già precostruite, cioè i cattivi jihadisti che ammazzano gli occidentali inermi, non si riesce a situare le ragioni del gesto fuori dal contesto in cui maturano, cioè la Germania stessa, segnatamente il quartiere centrale un tempo operaio nel quale l’attentatore era cresciuto. Non è, per capirci, uno di quelli che NOI occidentali siamo andati a sfruttare a casa sua in oriente. Pare confermato che la strage non sia il gesto impulsivo di un pazzo, essendo stato pianificato, anche se in maniera molto approssimativa. L’attentatore aveva certamente intezione di commettere una strage e faceva ricerche su come fare, magari in una scuola, ma non deve aver trovato motivazioni sufficienti nel libro che stava leggendo, sulle ragioni dei mass killer di studenti. Piuttosto era venuto alla conclusione che un centro commerciale sarebbe stato preferibile. Pare anche confermato dall’investigatore Robert Heimberger che l’attentatore avesse inviato un post fasullo da un account Facebook hackerato per invitare i contatti ad una promozione di Mc Donald. Con tutta evidenza non aveva nessun collegamento con lo Stato Islamico, cosa d’altra parte abbastanza comprensibile, trattandosi di un tedesco nato a Monaco di origini iraniane, l’antitesi per eccellenza del jihadista “sunnita”. Si può dire che non avesse motivazioni di carattere politico in assoluto e fosse, piuttosto, aggravato da un punto di vista psichiatrico. È evidente che quando uno configura il discorso nei termini di un generico NOI e di un ancor più generico LORO viene fuori un argomento necessariamente banalizzante non solo di chi sono LORO, come si vede bene sulla base del caso di Monaco, ma anche di chi siamo NOI. Cioè, il diciottenne che ha sparato a Monaco non era né LORO, né NOI, chi era allora? Anche il collegamento diretto tra lo sfruttamento delle materie prime, del petrolio, della forza lavoro dislocata nel cosiddetto terzo mondo in generale e il benessere dello studente che si sta facendo un bicchiere al Carillon mentre viene crivellato di colpi di arma automatica è tutto da dimostrare. Cioè, i NOI che andrebbero a rompere il cazzo a LORO non sono gli stessi NOI che vengono messi sotto sulla Promenade des Anglais da un camion impazzito. Il semplice fatto di esser nata a Nizza piuttosto che a Aleppo non rende automaticamente una bambina di due anni responsabile del colonialismo, delle guerre o della sospensione delle libertà in Siria. L’argomento secondo il quale siamo l’occidente quindi siamo tutti colpevoli è evidentemente ideologico e rimanda ad una visione della storia che mescola in maniera sincretistica il peggio del meccanicismo idealista con il più becero storicismo tradizionalista, arrivando a conclusioni speculari rispetto a quelle consuete della modernità, cioè la colpevolizzazione a trecentosessanta gradi dell’imperialismo coloniale, invece della sua legittimazione celebrativa. Ma si vede alla fine la debolezza di questo post-colonialismo postmoderno, che si riduce ad argomenti terzomondisti dei ‘settanta, quando alla orrenda mensa della scuola ti dicevano che dovevi mangiare tutto perché eri fortunato che non morivi di fame in Africa.

Lorenzo. Prendiamo il caso della Siria (e dei siriani). Per diversi anni un efferato dittatore, Bashar al-Asad, ha fatto un massacro, ha distrutto il suo paese per rimanere al potere. Gli si opponevano dapprima molti attivisti, quasi tutti ormai uccisi, incarcerati e torturati o fuggiti dal paese, poi uomini armati che, dapprima animati da propositi nobili, sempre di più – ricevendo soldi da paesi come Arabia Saudita e Qatar – viravano verso il jihadismo. Un jihadismo la cui agenda era però sempre “siriana”, cioè l’obiettivo era abbattere il tiranno. A un certo punto di questa macelleria ha approfittato l’ISIS, un’organizzazione di natura criminale-mafiosa a guida iraqena che ha messo in piedi la sua agenda in siria sfruttando, in termini di propaganda, i crimini del regime così come tutta la retorica anti-occidentale nel momento, molto tardivo, in cui l’Occidente è effettivamente sceso in campo. Ma l’’ISIS come prima cosa ha iniziato a sparare contro quegli uomini in armi, anche quelli che pure si erano jihadizzati un bel po’ (li chiamano “sahwa”, ma non mi metterò a spiegare il perché). Il suo primo obiettivo furono all’inizio tutti gli attivisti e tutti i combattenti che si opponevano ad Asad. Non a caso Asad li lasciava fare. Loro dovevano fare egemonia e ci riuscirono a Raqqa, la terza città della Siria, a suon di esecuzioni sulla pubblica piazza e “gestione della barbarie” ma non in altre aree, dove furono espulsi e dove tuttora non hanno grandi appigli (sebbene poi, dai e dai…). Ora, questi dell’ISIS, cioè quelli che rivendicano attentati in Occidente, sono quei LORO di cui parlano i semplicioni di cui sopra? Rappresentano davvero LORO? Cioè, sono LORO quelli da cui NOI andiamo e che NOI distruggiamo? Mi sembra di no. Quelli dell’ISIS che terrorizzano l’Occidente sono semplicemente degli infami rosiconi spesso imbevuti di una retorica che suona così: “VOI avete sempre rotto il cazzo a NOI e quindi NOI ora rompiamo il cazzo a VOI”. Molti ci cascano dentro come degli allocchi. Ricordo ancora tal Oussama Abu Musab, un operaio del varesotto simpatizzante dell’ISIS che si era messo a commentare sulla mia bacheca e poi, dopo essere stato espulso dall’Italia, essere andato prima dai nonni in Marocco e poi in Svizzera dalla moglie per essere infine espulso anche dalla Svizzera e finire in Siria dove sembra sia morto in circostanze che non conosco. Questo Oussama, quando postavo cose sulla Siria, mi seguiva fin se riportavo i crimini di Asad. Metteva proprio dei làic. Poi quando riportavo i crimini dell’ISIS partiva per la tangente, diventando cospirazionista e affermando esattamente ciò che la vulgata di cui sopra vuole. Il fatto è che lui non era minimamente uno di LORO, uno di quelli che moriva sotto le bombe. Al massimo empatizzava, ma attraverso il filtro sbagliato, il filtro dell’ISIS. L’ISIS gli aveva spiegato che quelli erano suoi fratelli, dei musulmani come lui vessati da un Occidente diabolico, e lui ci credeva, non capendo che quelli lì con l’ISIS non avevano niente a che fare, che l’ISIS stava usando quella carneficina, ci stava mettendo su il cappello. Quello dell’ISIS è un discorso speculare a quello fatto in principio. E continuare a farlo, quel discorso, significa dare ragione all’ISIS. Il problema insomma, ancora una volta, è sdoganare quelli dell’ISIS quando quelli dell’ISIS non sono affatto quelli che si pensano di essere né che qualcuno da queste parti pensa che siano: non sono dei vendicatori degli sconfitti, anche se si atteggiano come tali. Quelli dell’ISIS, parlo dei capi e di quelli che gli credono, non della soldataglia locale che segue tutto un altro treno, sono invece efferati e cinici pezzi di merda che con quei LORO non hanno niente in comune se non per il fatto che rubano a LORO la terra, la libertà, il pane e la speranza. Esattamente come i NOI della vulgata.

Anatole. Anche secondo certa “sinistra” ancora oggi qualsiasi forza si contrapponga all’occidente cattivo diventa in qualche misura spiegabile e tutto sommato accettabile in base al paradigma della vendetta degli sconfitti della storia, che ha come esempio caratteristico il tifo per gli indiani contro i caubbòy. E le categorie devono essere quanto più possibile inclusive, cioè tutti gli indiani da una parte, tutti i caubbòi dall’altra, perché da bambini quando giocavi a acchiapparella era così che funzionava.

Lorenzo. Certo. E intanto quei LORO che NOI abbiamo sfruttato davvero continuano a prendersi le bombe di Asad in testa, a farsi sgozzare per motivi futili, a morire di fame, di stenti e di guerra. E, quando smettono di vessarli, ci hanno anche il coraggio di uscire di nuovo in piazza coi cartelli per chiedere libertà e dignità. Quelli a cui chiudiamo la porta in faccia quando arrivano dai Balcani o che lasciamo morire in qualche barcone.

Anatole. Sì, l’unica costante è il fatto che le vittime vere di questa follia sono tutti quelli che per ovvie e comprensibili ragioni vorrebbero vivere la loro vita a modo loro, senza farsi coinvolgere in una guerra anacronistica. Ma questo lo diciamo ormai da anni invano.

Lorenzo. Fausto, non so se ti ricordi chi è, ha definito le persone che fanno quei discorsi riportati sopra dei “giustificazionisti”. Io non so bene come definirli. Secondo me lui non coglie il punto della trasversalità. Invece il problema è questa suddivisione farlocca fra noi e loro, a mio modo di vedere esiziale, che prende nel mucchio. Ciò che cambia è la reazione psicologica a quel pensiero. Da un lato abbiamo chi dice: “E’ naturale, ce lo dovevamo aspettare, ora ce la becchiamo in pieno e basta”. Dall’altro ci hanno invece per esempio una paura smodata dei profughi siriani, fanno muri, chiudono le frontiere o intensificano i controlli, pensando questa cosa: “ora LORO verranno a distruggerci perché è colpa nostra”. Ma LORO chi? Venire a distruggerci? I siriani sono per un terzo profughi, si parla di milioni e milioni di persone. I morti civili (centinaia di migliaia) nella guerra siriana sono 10 volte tanto (decine di migliaia) dei morti in combattimento. Quanti siriani si sono fatti esplodere in Europa? Quanti hanno eseguito attacchi terroristici? Zero. Forse uno. A Parigi hanno ritrovato un passaporto siriano allo stadio. Era falso. Una testimonianza del business dei passaporti falsi.

Anatole. Se ci pensi è un problema di carattere identitario, che ci rimanda alla polarizzazione del discorso sulla crociata: si bipartisce il mondo in noi e loro, senza tenere conto delle infinite articolazioni, anche contraddittorie, di questi due concetti. Perché, in fondo, dietro tutto questo discorso di estremismo buonista si nasconde lo stesso spettro che campeggia sui vessilli dei sostenitori della Fallaci, la madonna sanguinante del nuovo crociato. Cioè il fatto che loro sono loro e noi siamo noi, siamo due “civiltà” diverse, configuriamo proprio due campi antropologici non contaminabili. Questa è la cosa che ho sempre trovato irritante del modo in cui il ragionamento si polarizza, che anche i buonisti “di sinistra” alla fine sono in imbarazzo rispetto al velo, alle usanze alimentari diverse, alle mosche che ti ronzano intorno tutto il giorno in Marocco o in Turchia, a tutta quella polvere, al fatto che a una certa, insomma, non è come da noi.

Lorenzo. Esatto. Al netto della buonistizzazione della sinistra ad opera della destra – su questo punto assolutamente vincente – di cui parlava Luigi Manconi qualche tempo fa, i buonisti – che si dichiarino di sinistra o meno – sono così: li si rintraccia proprio nel momento in cui tracciano questa linea noi-loro. Che poi questa cosa avviene a una certa, a partire dai ‘90 e molto di più ovviamente dall’11 settembre in poi. E’ figlia del rimosso “internazionalista”, forse. Cioè: per essere di sinistra non era proprio assolutamente fondamentale essere internazionalisti? E se poi il mondo è cambiato e quindi parliamo di Europa cambia qualcosa? Non credo. Mi ricordo che a metà degli anni ‘90 andai come inviato per un piccolo e benemerito giornale, Confronti, a un incontro a Strasburgo fra le realtà antirazziste europee giovanili, organizzato dall’UE. Fui molto orgoglioso di partecipare a una specie di ribellione: gli organizzatori volevano parlare di razzismo all’interno delle frontiere europee, noi volevamo aprire le frontiere contro ogni razzismo. Stiamo ancora messi così, forse peggio.

Anatole. Io mi ricordo di una volta che stavamo noi due in Tunisia, a Tozeur, ed è venuto a piovere. C’era un’umidità allucinante e non si riusciva a stare. Ci siamo rifugiati all’Hotel des Palmes, evidente baluardo del colonialismo francese, l’unico posto all’epoca dotato di aria condizionata. Si stava una bomba, una cifra meglio che fuori. Il fallacismo mi fa sempre l’effetto di quando senti il bisogno di rintanarti nella tua conforzòn, tipo quella volta, ma devi spiegarlo per forza, cioè giustificarti, sentendoti un po’ in colpa perché te lo puoi permettere e quelli fuori no. Soprattutto non si capisce perché dovresti giustificare il fatto che stai agonizzando di caldo e ti rifugi in un posto condizionato dicendo che LORO, quelli fuori, sono incivili e pregano per la pioggia e riescono a campare con quel clima solo perché sono tribbali. Quindi configuri la tua ricerca di benessere come l’effetto di un inevitabile scontro di civiltà e ti fai pure un negroni alla faccia loro, che sono incivili perché non bevono, ma poi quando vengono da NOI diventano tutti alcolisti e violentano le nostre donne perché sono repressi dalla religgione. In finale la verità è solo che senti caldo e non si capisce perché te la dovresti pigliare con chissà chi perché non sei all’altezza del clima. È allucinante. Si poteva dire “vattene al Club Mèd”, un tempo. Oggi no, perché se vai al Club Mèd LORO ti sparano, perché c’è la crociata e lo scontro di civiltà, eccetera.

Lorenzo. Assolutamente. E anzi per tracciare una linea di discrimine su questo tema ricordo altri due eventi di quell’estate tunisina. Quella volta che ci facemmo a piedi tutta la spiaggia di Mahdia: ci fermavamo nei resort e atteggiandoci da ospiti ci mettevamo sulle sdraio o scroccavamo un caffè – un atteggiamento che ancora oggi giudico molto sano. E quella volta che ci prendemmo uno pseudo-bungalow (leggi cubo di cemento surriscaldato senza finestre ricolmo di scarafaggi) a Kerkenna e la mattina dopo ci svegliammo al suono di “Talking about the revolution” di Tracy Chapman circondati da burrosi tedeschi che sorseggiavano bevande colorate. Cioè: si poteva parlare di rivoluzione con questa bevanda colorata in mano e qualcuno – laffuori – chiaramente rosicava, avendone anche un motivo. Era evidente il fatto che qualcuno rosicasse, mi chiedevo quando mai uno di LORO avrebbe aggredito il burroso tedesco o anche – per somma sfiga – anche me. Sono passati vent’anni e qualcuno ha pensato bene di dare un mitragliatore al rosicone, mentre quelli che sta cosa l’avevano capita, cioè i giovani rivoluzionari tunisini, dei resort si disinteressarono vieppiù perché il problema era il dittatore tunisino, non il burroso tedesco.

Anatole. Che poi il serio problema del mare a Kerkenna è che non ti puoi fare il bagno. Cammini tra i sassi con l’acqua alle caviglie per chilometri. Neanche se ti sdrai lungo fai veramente il bagno. Ma quanto è meglio Lido dei Pini?

Lorenzo. Vabbene, ora basta co sti ricordi. Riprendendo il filo, una variante del tema “rompere il cazzo” è: “noi abbiamo delle responsabilità e non facciamo niente”. Ma non è vero che non facciamo niente. Abbiamo delle responsabilità e diamo ragione a quelli sbagliati. E’ deprimente.

Anatole. Certo, non è che se invece fai il fricchettone restandotene a sudare nella branda di quell’albergo allucinante a tremila lire a notte dove dormivamo noi, allora devi tifare che qualcuno faccia esplodere l’Hotel des Palmes con tutti gli occidentali dentro, perché è colpa loro che fa caldo. E nessuna teoria del complotto potrà mai traformare un qualunque ospite dell’Hotel des Palmes in un responsabile del fatto che hai caldo.

Lorenzo. Io direi, inoltre, che ti poni il problema di sudare (il meno possibile) in branda quando è evidente che all’Hotel des Palmes non ci potrai stare tre mesi di fila. Ad esempio quando vai a fare un lavoro o a studiare, a fare una ricerca. Ci ho questo esempio paradossale. A Zanzibar conobbi un giovane antropologo americano che veniva ogni giorno all’Archivio Nazionale perché era l’unico posto, al tempo, in cui poter godere dell’aria condizionata senza sembrare un colonialista stronzo. Studiava “l’identità araba in Africa Orientale”. Faceva ricerca sul campo, lui.

Anatole. Ti faccio notare che l’antropologo americano è un ricordo.

Lorenzo. Ci hai ragione. Ma l’antropologo può servire come esempio per partire su un altro tema collegato. Urge un qualche ragionamento sul far politica in questo contesto.

Anatole. I tempi della politica non stanno appresso all’emergenza, quindi ogni iniziativa politica sembra segnare il passo. Solo il volontariato sembrerebbe funzionare come reazione automatica all’allarme costante, ad esempio nel caso dei rifugiati o delle guerre che si combattono davvero, quelle che di santo hanno davvero pochissimo, da una parte e dall’altra.

Lorenzo. La cronaca ti piglia sul presente e non lascia spazio all’approfondimento, che sarebbe sostanza dell’agire politico finalizzato a trovare soluzioni durature ai problemi. Invece i problemi coi quale ci confrontiamo, guerre, rigugiati, terrorismo, investono una dimensione di protagonismo emergenziale. Molto volontariato si spiega così, come una risposta all’emergenza. La politica ha i tempi lunghi e morti della militanza, quindi non acchiappa più, mentre il volontariato è rapido, adrenalinico, molto diretto, va sul bisogno concreto, dà soddisfazione immediata, come una botta di qualcosa di buono. È antidepressivo, mentre la politica è depressiva, troppa autocritica, troppe chiacchiere, poca azione, poca concretezza. Ma solo la politica basata sull’elaborazione critica di profondità può contribuire a demistificare i collegamenti abusivi tra i vari problemi, che risultano da sintesi di carattere ideologico.

Anatole. In effetti, la visione egemonica al momento condivide molti aspetti del complottismo tradizionale, proprio nel senso che vuole collegare a tutti i costi cose che non hanno un collegamento tra loro, o ne hanno uno davvero labilissimo.

Lorenzo. Certo, la visione egemonica, come i deliri complottisti, mira ad identificare una ipotassi dove in apparenza si registra una paratassi. È il bisogno di trovare un collegamento gerarchico tra i fatti, una ragione che spieghi tutto in maniera coerente, piuttosto che sforzarsi di immaginare uno meccanismo lineare di sviluppo in grado di far emergere il significato. Se l’attentatore omofobo di origini afgane del Pulse, quello tunisino di Nizza, quello tedesco di origini iraniane di Monaco che ce l’ha coi turchi e il golpe turco istesso fossero soltanto le pedine di un complotto mirato ad un qualsiasi fine, ecco che la spiegazione suonerebbe rassicurante. C’è una regia, non preoccupiamoci. Cioè, non è che può davvero accadere di tutto ovunque in qualsiasi momento, ecco.

Anatole. Abbiamo anche gettato delle basi per affrontare la questione del complottismo, che non siamo riusciti a discutere. Speriamo davvero che prima della prossima puntata nessun altro inerme debba rimetterci la pelle in mezzo alla strada mentre prova a vivere la propria vita. Né in Europa, né in Medio Oriente, né altrove nel mondo.

Lorenzo. Hai detto bene: altrove nel mondo. 80 morti a Kabul. E raccontarne il senso significherebbe aprire il file Afghanistan. Per oggi è troppo. Faccio solo notare che i giornali non aprivano con l’Afghanistan da almeno tre ziliardi di click.

Anatole. Magari salta fuori anche chi ti collega l’attentore del Pulse di origine afgana al fatto che un gruppo di poveri cristi manifestava a Kabul per avere l’energia elettrica. Magari intervistano il levriero afgano di un ex marine, che ne sai. Roba che alla fine è meglio il sano complottismo.

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2 Commenti

  1. Vorrei sottolineare particolarmente questo punto, tra gli altri, del pezzo di Declich e Fuksas:

    “L’argomento secondo il quale siamo l’occidente quindi siamo tutti colpevoli è evidentemente ideologico e rimanda ad una visione della storia che mescola in maniera sincretistica il peggio del meccanicismo idealista con il più becero storicismo tradizionalista, arrivando a conclusioni speculari rispetto a quelle consuete della modernità, cioè la colpevolizzazione a trecentosessanta gradi dell’imperialismo coloniale, invece della sua legittimazione celebrativa. Ma si vede alla fine la debolezza di questo post-colonialismo postmoderno, che si riduce ad argomenti terzomondisti dei ‘settanta, quando alla orrenda mensa della scuola ti dicevano che dovevi mangiare tutto perché eri fortunato che non morivi di fame in Africa.”

    Puo’ sembrare per certi versi periferico, visto che si riferisce a analisi che sono realizzate da una minoranza, e che appartengono a posture proprie di certa sinistra radicale. Una simile posizione è stata espressa pochi giorni fa da Ignacio Ramonet in un articolo pubblicato su “il manifesto”.
    Aggiungo un’osservazione a quanto ben detto dai due autori a questo proposito. Il considerare questa forma di terrorismo come una diretta conseguenza delle politiche occidentali (coloniali e neo-coloniali), significa estrarre dalla scena, per poi cancellarla, una soggettività NON-OCCIDENTALE e particolarmente attiva, ossia la popolazione araba (e non solo) che è, in diverso modo e in diversi contesti e paesi, protagonista di una rivoluzione violentemente combattuta, repressa, perseguitata fin dai suoi più timidi germi.
    In altri termini, e non è solo una mia personale opinione, ma la tesi jean-pierre Filiu, professore di storia del medio oriente a Scienze Politiche a Parigi (per i francofoni, molto consigliato http://www.editionsladecouverte.fr/catalogue/index-Les_Arabes__leur_destin_et_le_notre-9782707188236.html). Questo signore sostiene innanzitutto che si deve parlare propriamente di “rivoluzioni arabe” (e mettiamoci dentro una parte della popolazione turca e iraniana), e che si tratta di un fenomeno di media durata, in atto almeno da un decennio, rispetto al quale sia DAESH che Assad rappresentano, come i generali in Egitto, fenomeni di controrivoluzione estremamente violenta.

    Naturalmente, ricordo come molti compagni estremamente “attenti”, ridussero già nel 2011 le rivoluzioni arabe a dei complotti della CIA e di altri stati occidentali, per ribadire bene, magari in stile althusseriano, che le soggettività nel mondo arabo esistono ancora meno che nel mondo occidentale, dove è la struttura immane del sistema capitalista che tiene tutto e gioca tutto.

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