Adieu au langage: Godard malgré soi

di Andrea Amoroso

Vedere il visibile
Come un volume gnostico, come una mistica, Adieu au langage è un tentativo verso l’impossibile. Non di raggiungere quell’impossibile, Godard non è così ingenuo, ma di indicarlo; è un film che lavora per indicazioni, anzi per indici, indici dell’indicibile. È un viaggio da fermo, privo di indicazioni, ma cosparso di segnali vuoti, vacanti, da sempre mancanti, che declinano in mille modi il nome di un dio invisibile e – probabilmente – inesistente.
Quello che potrebbe essere preso facilmente per il senile esercizio di stile di un regista che ha ormai detto tutto ed esaurito ogni dire straparlandone in mille modi, in realtà è una declinazione infinita di una possibilità; l’intrattenimento infinito al di là dell’immagine, di quanto dell’immagine passa oltre, verso l’immaginario, l’immaginifico o – semplicemente, ma poi mica tanto – verso un quid che dell’immagine trattiene soltanto la sua radice, l’immag-qualcosa.
L’addio al linguaggio sta proprio in questa rinuncia, nella consapevolezza che «il linguaggio trasferisce il veduto, non la visione» – per citare Ricoeur. Una rinuncia alla significazione, ma non al senso, anzi, un votarsi assolutistico e radicale al senso e alla logica della sensazione, al principio dell’esse est percipi che il linguaggio mille volte tradisce per costituzione e che la visione dovrebbe restituirci, se non fosse che la percezione è sempre percezione di un mostro che ci si mostra, il fantasma dell’immagine e non l’immagine stessa, l’oggetto piccolo (a) di Lacan, sul quale torneremo. Tornare sempre sui propri passi, è questo appunto, che fa Godard; e in uno spazio così breve non si può affrontare il discorso se non distorcendolo, scimmiottando una lingua che sfugge, parafrasando Lacan e lasciando spazio a lalangue, come un languido riproporsi della stesso suono, una lallazione infinita che ci intra(ttiene), che ci tiene dentro.
«Là dove si parla, si gode e si sa niente», scrive Lacan; e niente si sa perché il godimento avviene sempre in un luogo troppo vicino, troppo attaccato al nostro corpo, coestensivo addirittura al nostro corpo, al nostro parlarci che è sempre un parlarci addosso.
Solo così il mostro dell’immagine filmica potrà parlare la sua alingua, mentre chi scrive rinuncia a catturare la rinuncia, rinuncia al tentativo di afferrarla e si lascia afferrare dal niente che circonda l’immagine e che la rende tale. Immagine come tale che tutto le sfugge, ma niente le resta interdetto. Tutto inter-detto, nel passaggio da un’immagine all’altra, nell’istante spaziale di un montaggio che sfugge alla regolarità, che è capriccio e distanza infinita dallo spettacolo. Contro le immagini, che nel film vengono definite come «l’omicidio del presente», Godard dà allo spettatore il presente dell’omicidio, l’uccisione di ogni entità raccontante, la capitolazione dell’essere vivente e narrante come unica modalità di sopravvivenza di un altrove possibile. «Il cinema appartiene al visuale, il visuale a cui (…) non è stato permesso di trovare la propria parola» dichiara Godard.

Il suo [di Godard, NdR] cinema capta istanti spaziali, anche quando appare nervoso e contorto e straparlante sta semplicemente registrando per noi il dispiegarsi istantaneo della fissione/immagine.

Tornare sui nostri passi di scriventi così come Adieu au langage non smette di se tourner verso il proprio sradicamento, radicalizzando una non-narrazione fatta di falsi raccordi, ripetizioni, variazioni su cliché (i topoi del cinema, che siano tratti dal noir, dalla videoarte, dal film di montaggio, dai film d’avanguardia – ma sopra ogni cosa dai precedenti film dello stesso Godard, dalla sua continua rimasticazione del cinema) che non parlano d’altro se non della possibilità di fare ancora del cinema.
“La lingua rientra dentro, la bocca si richiude. Devo fare una linea retta adesso. È fatta. Ho fatto l’immagine” viene detto nel film; è la scomparsa della parola, della lingua, ma assieme alla lingua è la scomparsa del viso, visagéité refusée continuamente, per tutta la durata del film, a favore di una saturazione che niente dice, se non che un fiore è un fiore è un fiore… E un battello un battello, emblema del viaggio senza viaggio, e un cappello un cappello, cappello senza intellettuale, una coppia adultera una coppia adultera, adulterio senza marito, trama da film senza il film. Continuo slittamento di una semantica ridotta ai minimi termini, una semantica terminale, da morte della lingua: “cerco la povertà del linguaggio” – dice a un certo punto il protagonista maschile. O meglio, la voce senza viso del protagonista maschile, una specie di Gainsbourg senza fascino, così come la donna-amante è una Birkin senza malizia, gelida, senz’anima. Ma la donna è proprio colei che âme, che alma, scrive ancora Lacan, che con un rapidissimo gioco di parole estenua il concetto di anima in quanto prerogativa della donna amante (almante).

Cosa, la Cosa
Donna senza donna, allora, indice vuoto, ancora una volta. Che coincide, quindi, con la definizione della Cosa lacaniana, in quanto essa viene definita come «Altro assoluto (…) che mi è estraneo pur essendo al centro di me», «interno escluso che […] si trova così escluso all’interno».
È quindi il più prossimo e il più lontano, il centro invisibile, ciò di cui non si può parlare se non attraverso un di più di discorso, di ricerca del senso al di là della significazione. Luogo di détournement, di rotazione, perno inconoscibile che fa ruotare i fantasmi, le a piccole, effetti di desiderio che non coincidono con il desiderio stesso.

«Il godimento, se prendiamo le cose in modo semplice, come luogo ha il proprio corpo, mentre il desiderio è in relazione con l’Altro».

Il desiderio ci parla da un luogo che è sempre Altro, che è fuori dalla realtà costituendosi come reale; il reale come surplus di realtà… “Coloro i quali mancano d’immaginazione si rifugiano nella realtà. Resta da sapere se la non-idea contamina l’idea” – queste sono le parole con le quali si apre il film. La donna è una donna, il cinema è il cinema, Adieu au langage è la tautologia estrema di un mimo del cinema, di un Pierrot le fou, è la Cosa-cinema, è la Cosa-donna che è il magnete del film, polo attrattore intorno al quale girano (tournement come détournement, ancora una volta) i piccoli-grandi oggetti di desiderio del film, i piccoli-grandi feticci della foresta-mondo, del sesso, del corpo, delle deiezioni, degli umori, del pericolo mortale, della salvezza, di dio, dell’animale. Tutto intrappolato in questa giostra nella quale la cosa è dappertutto e in nessun luogo, dove tutto ciò che si mostra si vela allo stesso tempo, dove si mostra in 3D perché si vuole essere il 3D, la terza dimensione che non c’è e non ci sarà mai, se non come effetto.
Essere il cinema deve per forza passare per la pratica di fare il cinema? Il film si pone la domanda e l’archivia come una sciocchezza, l’être non essendo altro che êtrange, appunto: Das ding, il vuoto della brocca di Heidegger che si incide però fatalmente nel soggetto.
Soggetto che sarà così estraneo a sé stesso, portatore di un’incertezza, segnato da una distanza che lo separa inesorabilmente da quel luogo Altro dal quale – tuttavia – gli arrivano tracce.

Quando il sole si fa penetrante il fiume dorme ancora, nei sogni della nebbia noi non lo vediamo più di quanto esso stesso si veda. Qui è già il fiume ma là lo sguardo è interrotto, si vede solo il nulla, una bruma che impedisce di guardare più lontano.

È ancora la voce fuori campo che ci parla dall’ennesima mise en abîme di questo lungo addio che è il film di Godard; e ci parla del sogno di una cosa, quella cosa che viene da lontano e che non sappiamo cosa sia, che ci fa fuori pur contemplandoci, ci fa fuori dal di dentro, da qual nulla che noi – enfin – siamo.
Cinema incosciente come un inconscio (inconscient), che non teme la discontinuità, che non cerca l’immagine giusta, ma giusto un’immagine, come un negativo in attesa di (ulteriore) sviluppo, un’immagine che non cessa di fare il vuoto e di strapparci a noi stessi, di tirarci fuori. Da sempre il cinema di Godard gioca il gioco dell’impermanenza, ma qui al massimo grado le inquadrature si accumulano fino a far svanire l’oggetto, diluendosi attraverso la saturazione, annullandosi per sovrapposizione. Il linguaggio (del cinema e non solo) straripa dilaniandosi, facendosi guaito, ululato animale, andando al di là della significazione. D’un tratto resta solo il tratteggio della macchina da presa, libera da ogni patema psicologistico, fuori squadro e fuori rotta. Ecco che le riprese con la go-pro, gli stacchi quasi amatoriali, il rumore di fondo da filmino di famiglia diventano ancora una volta indici senza referente, macchinazione vera e propria del cinema lasciato andare, consegnato al proprio disfacimento.

L’inconscient, comme figure de l’Autre, en nous, est inatteignable et irrépresentable… il émerge sous forme de représentant de répresentant, ces obscurs signifiants bien amarrés qui ne viennent jamais au jour mais font proliférer des réseaux de signifiant et de significations. On touche ici aussi au Réel, à la Chose et à l’horreur du monstre invisible. (…) C’est l’Autre surgissant sous la forme de la discontinuité, de l’évanescence, du discret et de l’acte enfin, qui signe la restitution du désir à son désir d’autre, qui dépasse toute satisfaction et tout objet. «L’homme n’est qu’un roseau, les plus faible de la nature, mais c’est un roseau»… desiderant .

La canna (le “roseau”) che l’uomo è un vuoto desiderante; l’immagine suscita il nostro desiderio di vedere, come direbbe Lacan, esattamente ciò che essa non può mostrare. E tuttavia nulla manca, se è vero che il desiderio è deleuzianamente al di là di ogni manque. L’immagine sarà allora il non c’è del desiderio, la traccia di ciò che non può – alfine – mancare.
E quale non c’è meglio della donna? «Non c’è la donna, la donna n’est pas toute», è solo il suo resto che si condensa in qualcosa, in quelque chose (la scritta che compare all’inizio del film) che non è un oggetto – che non è che una deviazione, un passo al di là – per usare un’espressione di Blanchot (l’ennesimo autore fra i mille delle citazioni godardiane di Godard, insieme con Kafka, Céline, Nietzsche, Monet, Clastres, Van Gogh).
L’eterno femminino, eterno in quanto iconico e già-da-sempre oggetto di simbolizzazione (eternelle) è l’immagine della sparizione dell’immagine, dello scacco del senso («il senso indica la direzione verso cui fallisce» – scrive ancora Lacan), dello scacco di ogni cinema desiderato che si dimentica fatalmente di mostrarsi e al quale non resta che l’evidenza – che prescinde da ogni intenzionalità, abbandono e sfinimento ultimo.
Cinema dell’ultimo istante, così com’era stato quello del Lynch di Inland Empire (non è un caso se entrambi spesso fanno a meno del materiale della pellicola a favore di un’immagine-pixel) che – esattamente come la femme «non cessa di non scriversi». Fame di sparizione, femme di sparizione, la donna e l’immagine in relazione di coalescenza. Una coalescenza che illumina il filmico senza delimitarlo, sdefinendolo, scatturandolo, liberando la potenza dell’altrove: “Una donna non può farti del male. Può darti fastidio, può ucciderti ma null’altro”.
«Io volevo vedere il rovescio dell’immagine, volevo vederla da dietro, come se ci si trovasse dietro lo schermo e non davanti» – dice Godard; in Adieu l’immagine-Cosa e la morte ricostruiscono in absentia l’unità impossibile di Io e Mondo, il calco vuoto quando la realtà è fuggita ed è irrecuperabile.
Unità istantanea e destinata a scomparire per diventare fantasma, traccia mnestica probabile ma mai veramente esperita.

***

  • Paul Ricoeur, Finitudine e colpa, Il Mulino, Bologna, 1970, p. 99.
  • Jacques Lacan, Il seminario. Libro XX. Ancora (1972-1973), Einaudi, 1983, p. 104.
  • Jean-Luc Godard, Due o tre cose che so di me. Scritti e conversazioni sul cinema, Minimum fax, Roma, 2007, p. 206.
  • Enrico Ghezzi, Introduzione a Jean-Luc Godard, Due o tre cose che so di me, cit. p. 7.
  •  Jacques Lacan, Il seminario. Libro VIII. L’etica della psicoanalisi (1959-1960), Einaudi, Torino, 2008, p. 84. + p.119
  • Jacques-Alain Miller, L’angoscia.Introduzione al Seminario X di Jacques Lacan, pres. di A. Di Ciaccia, Quodlibet, Macerata, 2006, p. 79.
  • Marie-France Alsina, Figures de l’a/Autre à l’école et sur le divan, in Les figures de l’autre, Presse Universitaires du Mirail, Toulouse, 1991, p. 93.
  • Jacques Lacan, Il seminario. Libro XX. Ancora (1972-1973), cit., p. 8. + p. 76 + p. 93
  • Jean-Luc Godard, Due o tre cose che so di me, cit., p. 132.
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