Nuvole apparecchiate

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di Orso Tosco

Le montagne dalle cime arrotondate scendono verso il mare trasformandosi in una valle di pietra e sabbia coperta da pietre e sabbie di colore diverso. Intenso è il lavoro del terriccio e della ghiaia per indagare le tonalità dell’ocra. Nel centro esatto della valle, lungo i bordi del sentiero che dal nulla delle montagne conduce al nulla del mare, le pietre sono chiare e grigiastre, quasi color della cenere. Quasi, perché del giallo si fa strada, come a creare un impasto di cenere e grano sbiadito. Ma subito dopo, poco oltre, in un punto che si potrebbe raggiungere anche solo sputando, il grigio giallognolo lascia spazio a un’ocra virato al viola. Un tono morbido e cupo, da lavanda fuori stagione, un viola ampio e fragile che in qualche modo sa di muschio, e che in certi momenti della giornata, specie quando il sole si lascia portare altrove, fa credere che persino il deserto abbia dei rimpianti.

I boschi, appunto. E le ombre perenni. La neve, persino.

Ma ecco che continuando a scendere la sabbia e la pietra acquistano un tono più uniforme, da legna asciutta, un marrone pieno e stabile che è lì per smentire i rimpianti, come dopo una crisi, come si beve un sorso d’acqua dopo un brutto sogno per tentare di tornare a dormire senza paura.

Apparentemente disordinati e casuali appaiono i bassi, rari cespugli secchi, quasi verdi, quasi grigi.

Forse si tratta di costellazioni, ed è soltanto a causa della pigrizia e della sbadataggine di chi li osserva se il disegno complessivo rimane sconosciuto: incomprensibile partitura del deserto, melodia aliena che il vento confonde oppure protegge soffiando senza sosta, lasciandola sottotraccia.

Il vento è forte, teso, trasporta manciate di sabbia e con quelle flagella i corpi dei due uomini seduti sotto l’ombra dell’unico albero presente nel raggio di chilometri. I due uomini di tanto in tanto si puliscono la bocca e gli occhi, inutilmente. Dimostrano un’età sicuramente diversa da quella reale, ed è quindi superfluo citarla. Basti dire che i loro volti sono di cuoio vecchio, i vestiti che indossano sembrano essere stati dissotterrati da poco, e una patina grigiastra ricopre le loro camicie, forse verdi, e i pantaloni di tela, i sandali.

-Ho le labbra sempre rotte perché dico bugie.

-No. È colpa del sole, del troppo sole.

-Se tu hai ragione, allora, lo vedi, ho ragione anch’io.

I due uomini sono appoggiati contro il tronco scheletrico dell’albero, provano a ripararsi sotto l’ombra sottile e frammentaria offerta dai magri rami, così asciutti, così aguzzi da sembrare gigantesche fauci sbrecciate. L’uomo dalle labbra rotte è rivolto verso le montagne, l’altro verso il mare, dove sono diretti.

La valle che dirada verso la costa appare rossa e pulsante, con aree gialle e parti color ruggine, seguite da linee di vegetazione sbiadite, un grigio che tende al bianco, al bianco delle garze.

Di solito, chi riposa sotto quest’albero e ha gli occhi fissi verso la costa, è colui che non riuscirà a raggiungerla. Perché questo è un luogo che richiede tenacia, una tenacia feroce, ma che disprezza ogni volontà troppo chiara, troppo esibita. Questo è un luogo che esige la fatica, lo sforzo, ma soltanto quel tipo di sforzo che è proprio delle cime da ormeggio, quando sono costrette a trattenere il peso delle barche che la corrente e il vento e le onde vorrebbero strappare al molo e che, seppur impegnate in uno sforzo immane, non producono altro che uno stridulo, strozzato miagolio.

L’uomo che si pulisce la bocca dalla sabbia e prova a sputare senza riuscirvi e guarda verso la costa, ha voglia di arrivare. Ha bisogno.

Ed è proprio questa voglia, questo bisogno, che glielo impediranno.

O forse, forse l’uomo che non riesce a sputare ce la farà. Arriverà fino a noi, Dottore.

E lei, pur conoscendo già la risposta, mi domanda il perché. Lei che è venuto via mare, con la bocca umida la testa all’ombra e le mani morbide da bambino, lei mi domanda: perché questi uomini e queste donne mettono a rischio le loro vite per arrivare fino a noi? La verità, come spesso accade Dottore, è poco più di un bicchiere vuoto osservato da lontano, troppo da lontano per sapere se qualcuno abbia bevuto ciò che il bicchiere conteneva, o se invece il bicchiere non sia mai stato riempito.

Dovrei tornare indietro nel tempo, per risponderle. Dovrei ricordare il motivo che mi spinse a fuggire. Ma anche il motivo è distante. Non bicchiere ma grumo, matassa di piante nemiche le cui radici affondano nel terreno e in altri casi sbucano dai muri in pietra, persino dall’acqua.

Difficile separarle tra loro, le ragioni della mia fuga, difficile persino giudicare, ormai, dove sia iniziata una decisione e dove un’altra sia terminata o cambiata.

Sono nato in un paesino bello per essere bambini o vecchi. Lo abbandonai a vent’anni e scelsi di vivere nelle città del Nord. Lo ricorda lei il Nord, Dottore? Forse è troppo giovane per ricordarlo. Era fatto di terra sempre bagnata e mattoni, di avena e cibi cresciuti nel fango. Spesso era composto di isole e coste abbaglianti contro cui s’infrangevano onde nere e grigie, sovrastate da cieli bassi e bui. Il verde dei prati bastava da solo a togliere la sete. Erano terre di banchieri e donne dalle splendide cosce bianchissime, liquori, migrazioni incessanti e difficili.

Vissi nelle città del Nord facendo lavori stupidi che giustamente nessuno ricorda più. Non ero abbastanza abile per ottenere quelle soddisfazioni che m’illudevo di meritare e nemmeno sufficientemente stupido o saggio per non dolermene. Scelsi allora di andare via.

Lavorai in una fabbrica di dolciumi in cui venivano prodotte caramelle gommose destinate agli orfani e ai mutilati. Realizzare caramelle è come scrivere poesie, credo. In entrambi i casi si lavora sugli scarti, o comunque su prodotti iniziali che vengono poi trasfigurati a risultato compiuto. Per fare caramelle si raccolgono assieme tendini, miscugli poco nobili di sostanze chimiche, avanzi di dolcificanti, midollo, coloranti, e tutto viene tritato assieme. Dunque si cerca di dare una forma e un colore gradevoli a questo impasto, modellandolo a forma di banana, orsacchiotto, oppure si lavora nella geometria, nell’astrazione, producendo cerchi, linee, persino linee attorcigliate e scure che sembrano la forma fossile del DNA umano. Non ha mai mangiato caramelle Dottore? Erano già finite? Poco male.

Io, comunque, venni licenziato nonostante quel lavoro mi piacesse: era meschino e futile, eppure mi dava l’impressione di partecipare a un processo alchemico, quasi magico. Era divertente osservare ciò che ribolliva nelle vasche, mi dava gioia essere vittima del senso di nausea causato dai fumi: a quei tempi, deve sapere, andava di moda credere che l’utilità personale di una persona povera, fosse direttamente proporzionale al disgusto provato nel compiere l’attività che le permetteva di restare povera. Svolgere mansioni detestate, e spesso inutili, a fronte di scarse retribuzioni, veniva considerata una condizione sacrosanta ed essenziale per far parte di quella che veniva allora definita società. Non le so dire esattamente da cosa nascesse questa moda o credenza popolare. Le posso dire però che era molto diffusa.

In ogni caso venni licenziato. Dopo il licenziamento decisi di spostarmi verso Sud. Procedevo in senso opposto rispetto alle carovane che tentavano di raggiungere e superare le barriere del Nord, sempre più massicce, aggressive, impenetrabili. Furono giorni di carestia e rappresaglie, le campagne erano devastate, le strade contenevano a malapena il flusso di corpi in marcia, i roghi lambivano gli accampamenti provvisori, con le baracche sorrette dai teli di nylon laceri e le tende. Forte era l’odore della febbre e quello delle erbe bollite. Poco distanti dagli accampamenti, le carcasse dei cani, precedentemente utilizzati nelle cucine di fortuna, venivano ammassate a formare gigantesche cattedrali sempre sul punto di crollare e mai del tutto crollate.

Fu un sollievo raggiungere le città del Sud. Le deserte, calme, pestilenziali città del Sud. Lei non può sapere quanto piacere provai nell’osservare quegli edifici morbidi, bianchi come meringhe. Dopo così tante lamiere, dopo così tante urla e barricate, mi sembrò di aver raggiunto luoghi mortali ma dissetanti, mi pareva di poterle bere, le città del Sud, con le loro piazze vuote e alberate e l’odore di fiori marci nell’aria, i cortili interni, Dottore, i cortili interni e le ossa dei gatti, le fredde scale di pietra e le piastrelle lucide dei bagni pubblici.

Fu allora che la incontrai. Di notte. Mentre dormivo sdraiato in terra, stordito dalla fame, lei mi venne vicino. Si sedette vicino a me e mi raccolse come si raccolgono gli oggetti preziosi e quasi perduti, con mano generosa, con dita riconoscenti. E io mi sentii fortunato Dottore, perché sapevo di non essere prezioso, ma avevo così tanta voglia di non ricordarlo più, d’illudermi di essere altro, un altro, qualcosa di nuovo e inaspettato. Ed è ciò che lei mi fece provare, risvegliandomi con una breve pressione della mano sulla spalla e offrendomi un frutto lungo e storto, sbucciato soltanto a metà, fresco, quasi ghiacciato. Era una donna dall’aspetto sgradevole, sgradevole e necessario. Non parlammo di nulla. Camminammo attraverso il centro storico della Città del Sud, un labirinto di pietra e terrazze malandate senza punto d’ingresso e senza possibilità d’uscita, silenzioso, mollo, distorto appena da alcuni rantolii provenienti da cantine sotterranee. Non m’innamorai di lei, Dottore, se è questo che vuole sapere. Nessuno s’innamora di lei. Noi tutti, noi tutti che l’abbiamo incontrata, abbiamo bisogno di lei, ma non l’amiamo affatto. Abbiamo bisogno di lei perché averla vicina significa interrompere una malattia, significa provare una sensazione stupenda, che soltanto colui che si è salvato appena in tempo da una dissenteria mortale può comprendere. Lei, la donna dall’aspetto sgradevole e necessario, controlla le ghiandole e il respiro, il sudore e il flusso sanguineo, in lei si dimentica la sete, e dimenticando la sete si riposano le ossa e si riposano le tempie: è tutto in ombra, con lei e in lei, un’ombra salvifica che salva fingendo di non saperlo, quando tutto il resto è sole immenso e duro, parco giochi abbandonato che si chiude in se stesso e crolla come un gigantesco fiore secco e croccante.

Ma lei si addormenta Dottore. La faccio addormentare. Sicuramente è colpa mia, no, non mi contraddica; la colpa è mia, è spesso mia. Ho esagerato nel parlare di lei. Ma l’ho fatto cercando di rispondere alla sua domanda, alla sua curiosità. La donna dall’aspetto sgradevole e necessario è il motivo per cui sono giunto sino a qui. La sola notte trascorsa assieme nel centro storico della Città del Sud è bastata a farmi capire che avrei seguito i suoi consigli, i suoi suggerimenti; i suoi ordini.

Attraversai il deserto, come stanno provando a fare quei due sotto l’albero, perché lei mi diede appuntamento qui, in questo paese costruito tra le rocce, in questo paese dalle case senza spigoli, in questo paese senza ombre, esposto al mare e al sole e al cielo stellato.

Rischiai di morire, nel deserto, come tutti, come tutte. E come tutti e tutte pensai che forse, forse la donna dall’aspetto sgradevole e necessario mi aveva teso un tranello, invitandomi a raggiungerla nell’unico villaggio della costa, che forse lei, durante quella notte di passeggiate e pressioni della mano, non aveva fatto altro che ingannarmi e che, mentre io rantolavo sulla terra scura e sulla sabbia, lei fosse appostata da qualche parte, e mi guardasse, e ridesse di me e dei miei sforzi. Un pensiero di questo tipo avrebbe dovuto gettarmi nella sconforto, avrebbe dovuto farmi infuriare, e invece io provai una calma improvvisa. Quasi che qualcheduno, o qualcosa, mi avesse appena sussurrato all’orecchio una risposta a lungo cercata e a lungo, troppo a lungo mai trovata. Mi misi immediatamente a scavare, in un punto poco distante dall’albero sotto il quale quei due uomini riposano oppure si spengono. Scavai con le unghie, e finite le unghie scavai con la carne. Non sapevo cosa avrei trovato, ma sapevo che avrei trovato qualcosa. Mi bastava. Mi diede la forza necessaria per andare in profondità, oltre i colori della sabbia e le tonalità della terra. Raggiunsi il letto del deserto, un banco d’argilla nera e umida. Dentro l’argilla trovai piccole radici, poco più grandi di un mignolo, trasparenti, con un punto scuro al centro del corpo simile a una vescica. Le mangiai, me le feci esplodere in bocca come fossero gocce di pioggia. Avevano un gusto leggermente salato. Mi rannicchiai nella buca, schiacciai il viso ustionato contro l’argilla nera, provai la necessità di piangere e vomitare e pisciare e masturbarmi e cacare, e al tempo stesso il bisogno di aspettare, di non fare nulla, di vivere quel conflitto interno, di navigarlo, di lasciare che il conflitto stesso, quel contorto grumo di bisogni, si esprimesse per conto proprio, intatto, senza nessun mio intervento che non fosse l’attesa.

Il vento crebbe in intensità, impose alle nuvole di lanciare ombre sulla terra, ombre veloci e scure, simile al manto di un felino. E le nuvole trascinarono via il sole, lasciarono la notte a prendersi cura di me e del deserto silenzioso.

Il giorno successivo raggiunsi il villaggio. Gli abitanti mi avevano visto camminare nel deserto e si dissero felici di sapere che il deserto non mi aveva spento. Ci vollero mesi, forse anni, per scoprire che tutti gli abitanti del villaggio erano ugualmente in attesa della stessa persona che mi aveva spinto a andare laggiù. La donna dall’aspetto sgradevole e necessario era la ragione per cui ci trovammo, e ancora ci troviamo, a vivere assieme. I più sensibili e i più permalosi col passare del tempo hanno iniziato a rinnegare le loro motivazioni, certi dicono di essere nati e cresciuti in questo posto, e che nessuna donna ha detto loro di fare alcunché: si spacciano come pescatori figli di pescatori, oppure avventurieri, ricercati dalla polizia in fuga. Io ascolto le loro bugie e do loro ragione. Che senso avrebbe costringerli a dire la verità davanti a me? Quando io stesso, e tutti gli altri, li ascoltiamo piangere e pregare di notte, affinché lei rispetti la parola data e venga a noi.

È questa la storia del nostro villaggio, una storia di promesse e attese, nel deserto, davanti al mare.

E lei giustamente penserà che siamo degli sciocchi, non è forse vero? Ma cosa c’è, mi dica, cosa c’è di più dolce che essere degli sciocchi in penombra? Lei, lei sa proporre di meglio che far finta di essere stati amati, e restare così, come gomitoli di lana sulla pietra, così, come nuvole apparecchiate per una cena eternamente rimandata? Sa far di meglio, lei, nascosto dietro i suoi occhiali da sole che riflettono un’adolescenza infinita e guasta?
Oh, Dottore, ci fosse meno correttezza nelle diagnosi e maggiore precisione nella compassione, non sarebbe forse bello? Sapessimo dire le cose giuste, poche cose, simili al silenzio, ma a un silenzio che non è restrizione, un silenzio naturale, che sgorga come acqua da una sorgente, come fiato, Dottore, come l’ultimo o il penultimo respiro prima di annegare.

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Vivo e lavoro a Roma. Libri: Lettere a una fanciulla che non risponde (romanzo, Bompiani, 2024), Qualcosa sulla terra (racconto, Industria&Letteratura, 2022), Storia aperta (romanzo, Bompiani, 2021), L'isola di Kalief (con Mara Cerri, Orecchio Acerbo 2021), Il regno dei fossili (romanzo, il Saggiatore 2019), Mio padre la rivoluzione (racconti, minimum fax 2017. Premio Campiello-Selezione giuria dei Letterati 2018), Stati di grazia (romanzo, il Saggiatore 2014), Città distrutte. Sei biografie infedeli (racconti, Gaffi 2012. Nuova edizione: il Saggiatore 2018. Premio SuperMondello e Mondello Opera Italiana 2012). Provo a leggere i testi inviati, e se mi piacciono li pubblico, ma non sono in grado di rispondere a tutti. Perciò, mi raccomando, non offendetevi. Del resto il mio giudizio, positivo o negativo che sia, è strettamente personale e assolutamente non professionale. d.orecchio.nazioneindiana@gmail.com Questo è il mio sito.
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