Ferragosto a Milano

in fila per il pranzo di ferragosto

di Gianni Biondillo

Una piazza del Duomo piena di gente il 15 di agosto non l’avevo mai vista. File interminabili di gente che aspetta paziente di entrare nella cattedrale. La Milano estiva della mia infanzia è vuota, spettrale, tutt’altra dalla Swinging Milano che mi appare sotto gli occhi. Turisti, sopratutto. Stranieri. Moltissimi gli arabi, curiosi di conoscere il nostro stile di vita, le nostre bellezze artistiche. I loro vestiti, i veli che coprono il capo delle donne, non li fanno sembrare pericolosi. Appaiono come principi di favole esotiche. Non fanno paura. Sono altri quelli che spaventano il popolo rabbioso della rete, quello che urla proclami contro l’invasione in atto. Non i turisti, ma i profughi, quelli che fuggono da fame, guerra, disperazione. I poveri, sono loro che ci fanno paura. Decido allora di inforcare la bicicletta e di muovermi verso la stazione Centrale. Lì, il popolo rabbioso dei social nei sui commenti lividi e grevi, mi assicura che è pieno di terroristi, mangia pane a tradimento, furbi approfittatori della nostra ricchezza e del nostro buonismo.

Il sole è alto. Li vedo dormire su fazzoletti di prato alla ricerca dell’ombra delle chiome frondose. Sono maschi, in maggioranza, soprattutto africani. Alcuni fanno capannello seduti sui muretti, vicino a turisti che fanno selfie a ripetizione. Noto una famiglia magrebina al completo, più appartata un’altra famiglia, ad occhio e croce direi siriana. Poi ragazzi. Ragazzi ovunque. Eritrei, etiopi, sudanesi. All’imbocco con via Vittor Pisani c’è un bivacco di uomini, raggruppati sotto un albero. Almeno cinque seduti, un paio dormono ancora, appoggiato al tronco c’è una catasta di valigie. Questi hanno un aspetto più trasandato, macilento, straccione. Pochi passi più avanti una ragazza bionda prende il sole. In piazza, nel frattempo gli operatori dell’Amsa stanno passando l’idrante per ripulire i rifiuti. Spazzano via bottiglie, bicchieri di plastica, lattine di birra. I migranti (profughi, clandestini, come devo chiamarli?) si muovono assieme verso un altro cono d’ombra. Alcuni stazionano sotto la scultura di Michelangelo Pistoletto, l’enorme “mela reintegrata” pensata per Expo e ora installata qui. Si spostano lenti con il girare del sole, come lancette di un orologio. Passo di fronte al padiglione posto di fronte all’ingresso della stazione. Un tanfo d’orina mi pervade le narici. Ovunque macchine della polizia locale e dei carabinieri. C’è pure una camionetta. Tutto sembra sospeso. Sembra di vivere dentro un’infinita attesa. Di cosa?

Prendo la bicicletta, costeggio tutta via Sammartini tenendomi lo spiccato ferroviario sulla destra, in prossimità di Greco vedo un nugolo di persone. Qui forse avrò la risposta. “Aspettano di partire” mi spiega Alice, del Progetto Arca, una realtà che lavora da un ventennio sul tema dell’accoglienza. Senza tetto, anziani, migranti. Senza distinzioni. “È un flusso continuo” mi spiega. “Arrivano a Milano, cercano di superare le frontiere, raggiungere i parenti in Germania o in Svezia. Fosse per loro non si fermerebbero”. Ma le frontiere sono chiuse. A Como, a Ventimiglia. Quindi tornano indietro, si fermano qui, per qualche giorno. Cercano un posto dove dormire, un pasto caldo, degli abiti. Poi tornano verso la stazione, instancabili, verso il loro destino. Nei tre anni che l’Hub d’accoglienza è operativo, non s’è visto un aumento del flusso migratorio. I numeri sono gli stessi degli scorsi anni. Sono quelli che tornano, rimandati indietro, che sono aumentati. L’Italia è ormai un grande cul de sac, la convenzione di Dublino ha garantito le frontiere interne dell’Europa addossando agli stati più esterni il compito di gestire l’emergenza. Avete firmato l’accordo? Arrangiatevi, insomma. E la Germania con i siriani allora?, chiedo. “Si sono mossi bene e in fretta” è stata la risposta di Hani.

Hani parla con un cadenza che è più milanese della mia. È di origini egiziane, il suo ruolo è fondamentale. Non solo perché parla arabo, che è come il latino era per noi nel medioevo, una lingua franca che gli permette di comunicare con chi non conosce inglese o francese; non solo perché si occupa di identificare e registrare tutti le persone di passaggio per poi distribuirle nei vari centri d’accoglienza; non solo per il suo lavoro insomma. Ma anche perché ha un sorriso talmente accattivante che sembra impossibile non fidarsi di lui. Mentre mi parla ci passa vicino un gruppetto di ragazzine eritree. Una di queste lo saluta e poi corre avanti vergognosa. Hai fatto colpo, gli dico. Lui quasi arrossisce. Alice lo prende in giro: “Piace molto alle ragazze”, lui, forse per cambiare argomento, riprende il suo discorso. “La Merkel ha colto al balzo l’occasione. I siriani sono i profughi più ricchi e più colti. Anche quando arrivano qui si distinguono. Stanno fra loro, raramente interagiscono con gli altri. Una volta ho visto una famiglia prendere un taxi per andare al centro accoglienza di via Mambretti.” Ma di siriani, comunque, se ne vedono sempre meno. Non c’è una logica d’arrivo, mi dice Alice. Certe volte arrivano ondate di donne con bambini, altre di vecchi. “Noi qui potremmo ospitare solo 75 persone a notte, ma in situazioni d’emergenza siamo arrivati fino a 400 in una notte. C’erano così tante brande che di notte non si riusciva ad alzarsi per andare in bagno senza camminare sui letti.”

Ci viene a salutare Ahmed. È un ragazzino egiziano. Un minore non accompagnato, per essere fiscali. È in Italia da quattro mesi, mi racconta. Da due è stanziale qui, è diventato un po’ la mascotte del centro. Ha una faccia vispa, uno sguardo vivido. “Spesso va da solo davanti alla stazione, recupera un po’ di migranti e li accompagna qui al centro”, mi dice Alice. Ahmed afferma di avere quattordici anni ma non gli credo, ne dimostra un paio di meno. Di certo ha le idee chiare. “Voglio fare qualcosa di importante, qui in Italia” ci dice. “Quando sarò grande studierò medicina, oppure ingegneria.” Abbiamo un ottimo Politecnico, gli rispondo, augurandogli di realizzare i suoi sogni.

Mi guardo attorno. La maggior parte degli ospiti bivacca seduto sui bordi del marciapiede, come li vedevo nei miei viaggi in Ciad, Uganda, Etiopia. Aspettano. Hanno raccolto tutti i loro averi, pagato fino a 6000 dollari per il viaggio, attraversato il deserto. La maggior parte delle donne, raggiunta la Libia, hanno conosciuto l’umiliazione e la violenza brutale dello stupro, si sono imbarcati su gommoni precari, hanno visto morire annegati o disidratati i loro compagni di viaggio. Aspettare non è certo un problema. “In tre anni che lavoro qui” mi dice Hani “Non ho mai assistito ad una rissa. Sanno di essere tutti sulla stessa barca.” Quella che li ha traghettati qui. Si avvicina una signora, sembra mia zia. “Mi chiamo Graziella” ci dice “Vorrei dare una mano”. La Milano che urla livorosa sembra esistere solo sui social o nei commenti degli articoli on line. Quella silente si presenta per dare una mano. “Almeno 30 persone al giorno” mi dice Alice. “Vengono e portano vestiti, generi alimentari, giochi per i bambini. Noi cerchiamo di indirizzarli sulle nostre pagine Facebook o sul nostro sito, chiedendo di volta in volta le cose di cui abbiamo bisogno.” La Milano silente si muove. E s’organizza. Questo Hub è già un modello, vengono da molte parti d’Europa per studiarlo. Qui differenti realtà del terzo settore si sono messe in rete. Non c’è solo il Progetto Arca, ma anche Save the children, l’Albero della Vita, il Banco Alimentare, oltre al Comune di Milano.

Forse il governo centrale è distratto ma Milano c’è. Al di là delle logiche di bassa cucina politica. L’Assessore Majorino è una presenza fissa, mobile, attiva. Così come non è raro che vengano esponenti dell’opposizione e, non ostante i rituali distinguo, finiscano per donare il loro tempo e il loro denaro a questo miracolo d’accoglienza. Alberto Sinigallia, il Presidente di Progetto Arca, stima una spesa di 5000 euro al giorno per far muovere l’intera macchina. I pasti, oltre 600 al giorno, i posti letto, l’assistenza sanitaria, la logistica. Per tutti, ben inteso. Non solo i migranti, anche per i senza tetto italiani. Che nessuno resti indietro.

I miei ospiti mi mostrano le strutture. Si stanno apparecchiando i tavoli, è quasi ora di pranzo. Guardo lo spazio dedicato ai bambini, i loro disegni appesi ai muri, come in un qualunque asilo infantile. Fra questi ce n’è uno. Una bandiera somala circondata da un cuore, affiancata da una bandiera italiana. “Thanks to Italy” c’è scritto, con mano incerta. Fuori si sta organizzando la fila per la distribuzione del pasto. Alcuni volontari separano gli uomini dalle donne e i bambini. Il più attivo è Gianluca, un uomo dalla parlata spiccia, capelli bianchi raccolti in una coda. “Sono un leghista” mi dice, cercando di provocarmi. “Sono per il territorio e contro il buonismo. Ma la prima accoglienza deve essere per tutti, non pigliamoci in giro” poi mi sciorina un discorso di meravigliosa incoerenza, che fonde ordine, razionalità, sentimento e rabbia. “Pensa che oggi c’era l’inaugurazione del bar di mio figlio, a Omegna. Solo che qui stanotte c’è stato un allarme antincendio e allora sono rimasto a dare una mano”. Conosco anche Bianca. Viene dalla Toscana. Non sapeva come passare l’estate, non era interessata a mangiare l’anguria sotto il solleone di Rimini. Ha prenotato un albergo a Milano e da due settimane fa la volontaria. “Mi sento arricchita”, mi dice. Che paese incredibile siamo.

Nessuno, qui, ha la bacchetta magica. E, a dirla tutta, non tocca a loro trovare la soluzione ad un cambiamento di tale fattura nel nostro tessuto sociale. Loro, però, che stanno in prima linea sono quelli che hanno più chiaro il problema. Ne hanno una visione più lucida. “Ci vorrebbe una accoglienza diffusa” mi dice Gianluca, per quanto i suoi amici sindaci della Lega non vogliano ospitare nessuno. “Piccoli gruppi da distribuire nel territorio. Si creerebbero meno tensioni.” La soluzione prospettata, invece, è quella di aprire un grande centro d’accoglienza in una caserma. “Meglio quella” mi dice Alice “Che nulla”. Qui si sta andando avanti con le donazioni e la buona volontà. Non basta. Da Roma non si ha una visione progettuale su che fare in Italia dopo la prima accoglienza. I profughi aumenteranno, lo sappiamo tutti, la politica dello struzzo non basta più.

Oggi Sirte è stata liberata, dico. “La sai una cosa?” mi dice Gianluca. “Prima o poi arriveranno anche i profughi libici.” Quelli che magari s’arricchivano con la tratta dei profughi, fustigavano gli uomini e stupravano le donne. “Io non so cosa succederà quando questi ragazzi eritrei o sudanesi li riconosceranno.” Hani annuisce e, per la prima volta da quando sono qui, non lo vedo sorridere.

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(pubblicato in una versione più breve su Panorama dello scorso 24 agosto 2016, corredato dalle belle fotografie di Luca Rotondo)

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3 Commenti

  1. Bello. Mi piace lo sguardo e il tono della narrazione. Riesce e far calare il lettore dentro la realtà della ‘solidarietà’, senza pietismo e ‘drammatismo’. Mi piace pure il fatto che venga menzionata la bicicletta come mezzo di spostamento (e punto di osservazione). Spesso ci si dimentica che il modo in cui ci spostiamo nello nostre esplorazioni della società influisce sulla prospettiva, e sul tipo di conoscenza che riusciamo a creare. L’unico dubbio: perché Panorama? C’è una risposta ovvia, che al fondo potrei comprendere, ma dopo aver visionato una copia di Panorama dal mio ex dentista, un paio d’anni fa’, mi chiedo se un giornale simile meriti un contributo come questo. Mi è parso un giornale imbarazzante (pure al netto delle impresentabili posizioni politiche).

    • Perché me l’ha chiesto. E pagato.
      (e, aggiungo, quest’estate ho pubblicato anche per un noto quotidiano “liberal”. Che poi ho scoperto non mi pagherà la pagina che gli ho riempito e che loro hanno venduto)
      ;-)

      • Lo immaginavo, ma mi dispiace avere conferma del fatto che i giornali di destra pagano, mentre altri, più ‘rispettabili’, fanno i furbi. Ciò non cambia il mio giudizio sull’articolo. Che tempi.

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gianni biondillo
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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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