Il cinese

di Stefano Zangrando

E va bene, stia a sentire: mio nonno paterno fu il figlio bastardo di un’avventura di guerra con un soldato austro-ungarico.
La notizia fu diffusa tra i parenti più stretti, poco dopo la morte del vecchio, da una cugina di mio padre, una distrofica di fede comunista. Era una tipa tosta, militante, sempre al corrente del peggio che si potesse affermare sulla classe governante di turno. Come abbia saputo lei di quella debolezza di guerra, rimane un mistero. Forse la confidenza di un parente ormai estinto, non so. Ma di lei, se mio padre non mente, ci si può fidare. E io mi fido innanzitutto di mio padre, quel povero saggio dilettante, tanto più che è politicamente molto diverso da quella cugina in trincea: non filisteo, non credulone, tuttavia inspiegabilmente esposto alle correnti dominanti. Del resto, la dimensione privata è sempre stata il solo ambito in cui il suo amor di verità potesse trovare conforto. Lei – si chiamava Tilde – la vidi soltanto due o tre volte intorno ai vent’anni, prima di andarmene di casa, quando ci fece visita assieme al compagno, un ex-seminarista calvo e placido, uno di quei tipi ascetici molto versati nell’informatica. La grande notizia mi giunse invece proprio da mio padre, che pochi giorni dopo il funerale del nonno a Bolzano aveva incontrato Tilde, assente alle onoranze funebri a causa di un’improvvisa infezione polmonare, nel corso di un tour parentale nel Cadore.
Tilde si spense poco tempo dopo quel gossip – pare che sulla cerchia dei Marinel quella notizia abbia avuto davvero l’effetto di uno sconveniente svelamento. In mio padre, tuttavia, a quell’altezza era già sbocciato il quantum d’ironia che l’iperuranio gli aveva concesso per aver intrapreso una minima cura dell’anima dopo troppi decenni di sottomissione alle verità precostituite. Quel giorno ero a pranzo dai miei, un sabato o una domenica. Mio padre raccontò la cosa durante il secondo. Martina, mia sorella, gridò allo scandalo. Mia madre rimase zitta e sparì in cucina con i piatti sporchi. Io assecondai incerto il sorriso intenerito di mio padre: quella notizia gettava di colpo una luce straniante sul ricordo che ciascuno di noi aveva del vecchio Astolfo. Voglio dire che la seriosità con cui mio nonno andava fiero del proprio cognome, e con cui aveva sempre indotto figli e nipoti a fare altrettanto, mi appariva all’improvviso non solo in tutta la sua fragilità, ma tanto più giustificata dalla natura meramente civile di quell’appartenenza – voglio dire non-biologica, generata unicamente dall’atto di responsabilità di quel primo Marinel che, prima ancora che mio nonno nascesse, scelse di riconoscerlo come figlio proprio. Provi a immaginare il grumo di amore, odio e ammirazione che dovette avere mio nonno per quell’uomo! Ma forse a questo punto è opportuno che le racconti un po’ più da vicino come andarono le cose.
Lina, così era chiamata quella mia bisnonna dai compaesani cadorini – doveva chiamarsi Carolina, o Adelina –, era stata una donna sfortunata. Il suo primo marito l’avevano trovato all’inizio del bosco con la gerla semivuota ancora in spalla, stecchito da un arresto cardiaco mentre raccoglieva rami secchi da farci fascine per la stagione fredda. Non aveva neppure trent’anni, ma era obeso, e in Cadore si beveva molto alcol. I maschi dei ceti più bassi invecchiavano presto. Rimasta vedova, Lina si divise tra l’economia domestica – orto, pollaio – e la chiesa, dove il parroco le dava qualche soldo per tenere puliti e in ordine banchi, altare e pavimenti. C’era anche una perpetua, ovviamente, ma quella il don se la teneva in casa; Lina, per così dire, era la responsabile del suo spazio d’intervento comunitario, la sua public manager. Solo quando il prete la raggiungeva tra i banchi deserti per soddisfare un appetito particolarmente invadente, solo allora, dopo aver accondisceso suo malgrado, Lina lasciava un ricordino in un angolo, vicino al confessionale o al seggio dietro l’altare – mai vicino al tabernacolo –, facendo credere all’uomo in nero che ci venissero a pisciare i ratti. Non lo faceva con rabbia, no, era solo una forma di sofferenza, una lacrimazione sui generis.
Allo scoppio della guerra, la vita si fece più dura. Il fronte italo-austriaco era a due passi, non era raro dover accogliere e confortare, in molti sensi, soldati stremati dalla guerra di posizione. E fu ancora nell’estate del ’17, ben prima di Caporetto, che un fante ramingo dell’esercito imperial-regio sbucò dallo stesso bosco dove due anni prima era crollato il marito di Lina e cercò rifugio nella baracca che ospitava la legnaia e il pollaio. Ma la cosa più strana, come notò Lina appena ci entrò per raccogliere le uova fresche, era che quel soldato aveva gli occhi leggermente a mandorla e la pelle brunastra. Era un chirghiso, capisce? Va bene che l’Impero austro-ungarico era un pot-pourri di lingue e nazionalità, ma un muso del genere in uniforme blu scura era tra le rarità più esotiche che un contadino veneto di cento anni fa potesse aspettarsi di trovare tra le proprie galline.
Ora, mi crede se le dico che quel soldato straniero fu il primo, tra tutti i militari che Lina aveva incontrato, a degnarla di un vero corteggiamento? E poiché il disertore non poteva certo uscire allo scoperto, tutto si svolse nella penombra di quella baracca. All’inizio bastava poco: quando Lina gli portava qualcosa da mangiare, una zuppa di patate o un pezzo di polenta con un po’ di vino, il soldato fingeva di contraccambiarla porgendole con goffa cortesia un uovo che aveva sottratto poco prima alle galline – non c’è bisogno che le ricordi quale significato simbolico abbia l’uovo, non solo nella nostra cultura. Così Lina e il soldato iniziarono subito a sorridersi. Poi si sforzarono di comunicare un po’ di più – la seduzione, si sa, è tutto un gioco di segni, e il chirghiso, cosa insolita ma non impossibile per un soldato in quelle condizioni, pareva incline al temporeggiamento, a un gentile rinvio. Masticava un discreto tedesco, Lina però se la cavava male, così cominciarono a darsi lezioni l’un l’altro tra l’impettito chiocciare delle galline e i canti sempre più rassegnati e pro forma del gallo, il quale dopo una certa aggressività iniziale per la violazione della sua zona di copula si era presto sottomesso alle pedate della padrona. Da “uovo, Ei” e “vino, Wein” – polenta è intraducibile – si passò presto ad “acqua”, “lavarsi”, “dormire” e poi, un giorno, “sogno” e, pensi un po’, “vestito bianco”, quando il soldato cercò di raccontarle che la notte precedente lei gli era apparsa in una veste chiarissima e si era addormentata accanto a lui, sul pagliericcio. Lina arrossì incredula, inspirando confusa il puzzo acre degli indumenti dell’uomo mescolato all’olezzo naturale degli uccelli domestici.
Cose come questa accadevano tra l’alba e il tramonto, quando la luce penetrava almeno un poco in quella baracca senza finestre. Nei primi giorni Lina non entrò mai lì dentro nelle ore buie. Solo una sera, nella prima oscurità, quando udì dei gemiti prolungati provenire dal pollaio, Lina osò uscire con cautela e attraversare l’orto verso la baracca, se non altro per intimare a quel bizzarro traditore imperial-regio di tacere o di fare più piano, qualunque cosa stesse combinando. Non era ingenua, sapeva che il soldato era un uomo anche lui, e il fatto che fino a quel momento non avesse osato allungare le mani, preferendo indugiare in quel flirt da giovinetti, più che indispettirla l’aveva incuriosita.
Lina si sbagliava di poco: trovò il soldato con le mani tra le cosce, ma non intento nell’atto che lei si aspettava. Era vestito e lamentava dolori. Dovette mostrarle i genitali. Lina inorridì. Il chirghiso, ammutolito dalla vergogna, le lasciò intendere con pochi sguardi quel che era successo. Anziché arrangiarsi, si era sfogato con le galline e si era preso un’infezione.
Quando Lina girò i tacchi per correre in casa a preparare un impacco curativo, a metà orto udì chiamare il suo nome dalla strada. Il parroco, di ritorno dalla visita a un morente, la pregò di ospitarla brevemente per un bicchiere di vino. Lina ne fu spaventata, fino a quel momento il pretaccio non aveva mai osato disturbarla in casa. Lina cercò di sottrarsi con una scusa, disse che il gallo stava male, molto male, che doveva occuparsi del gallo, ma il prete non si lasciò dissuadere e avanzò oltre il cancelletto aperto.
Così quella sera, per la prima volta, Lina dovette sottostare all’incontinenza ansimante del parroco nella stessa alcova dove aveva dormito il suo compianto marito, sperando fino all’ultimo che il religioso, troppo preso dalle proprie voglie, non scambiasse i gemiti del gallo per quel che erano veramente.
Tutto andò liscio, per fortuna, e già quella notte, smammato l’uomo in nero, Lina poté prendersi cura del soldato. Ma a quel punto lui non poteva stare lì ancora a lungo, perché se il prete avesse iniziato a bussare più spesso alla porta di Lina, come lei temeva, il rischio che lo scoprisse diventava una minaccia per entrambi. Lui sarebbe finito prigioniero, lei svergognata di fronte all’intero paese – a letto con il nemico! Così, appena il soldato iniziò a star meglio, dovettero separarsi. Una mattina, alle prime luci dell’alba, il chirghiso le disse “A presto”, le baciò le mani e sparì nel bosco dal quale era sbucato qualche settimana prima.
Lina tornò, non senza qualche sospiro, alla vita di prima, certa che non avrebbe mai più rivisto quello strano disertore che forse, chissà, era già morto sotto i colpi di fucile di un alpino. Poi ci fu la disfatta di Caporetto e fu occupato anche il Cadore. Gli austriaci non andavano per il sottile, sequestravano bestiame, foraggi e ogni bene possibile, e anche Lina, benché fosse sola, dovette subire il destino comune. Finché, un giorno della primavera del ’18, mentre spolverava i banchi in chiesa, udì aprirsi la porta della sagrestia. Si rabbuiò in volto, già quasi sentendo le mani del prete girarle sui seni e presagendo il bisogno impellente che l’avrebbe colta dopo, ma nessuno la chiamò per nome, come faceva sempre lui prima di arrivare a toccarla. La presenza silenziosa le si avvicinò da dietro e Lina, prima ancora di voltarsi, sentì il puzzo di soldato, poi una voce nota le sussurrò all’orecchio: “Vestito bianco…”
Ecco, mio nonno fu concepito così, tra i banchi di una chiesa in piena guerra mondiale, nell’unione di una vedova cadorina e un fante austro-ungarico di origine chirghisa. Il soldato – Dio solo sa come avesse fatto a ritornare indenne nelle file dell’esercito che aveva abbandonato – si era intrufolato in quel luogo sacro, come scoprì Lina alla fine di quel miracoloso incontro, dopo aver legato il prete a una sedia e averlo costretto, sotto gli occhi atterriti della perpetua, a bere un uovo crudo dietro l’altro finché non aveva vomitato tutto per terra, dritto dritto sulla chiazza di orina ed escrementi che già aveva rilasciato per la paura. Lina era troppo felice per restare davvero schifata da quell’obbrobrio, riuscì solo a fingere malamente, al cospetto della perpetua in lacrime e del parroco umiliato, lo sconvolgimento per la presunta violenza subita, senza potersi togliere di mente le parole misteriose con cui l’amante si era congedato, stavolta per sempre, sparendo oltre la soglia del portone principale: “Seni seviyorum,” le aveva detto.  Significa “ti amo”, è turco. Il che non significa che io abbia – anche – origini turche, ma che quel soldato arrivava chissà da dove, che una parte del mio sangue affonda le sue radici in un oriente insondabile. In ogni caso, ora sa da chi ho preso questi occhi e questa carnagione; mentre io, quando conobbi la storia svelata dalla cugina di mio padre, vidi illuminarsi un dettaglio che mio nonno Astolfo mi aveva citato spesso, ma sempre sconnesso, assoluto, senza darmene una spiegazione. “Al paese mi chiamavano il cinese,” mi diceva, con una serenità di cui solo oggi riesco a riconoscere l’artificio, ogni volta che finivamo a parlare degli occhi che mi aveva trasmesso saltando, chissà come, quel conformista di mio padre.

 

(questo racconto è stato pubblicato sul mensile UCT (Uomo-Città-Territorio), numero 486, luglio 2016, Trento)

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4 Commenti

  1. Beh… bravo sei sempre stato, e leggerti è stato un piacere…

    Con auguri di buone cose…

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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