Scegliere il punto di vista di una donna. Sul presunto smascheramento di Elena Ferrante

di Tiziana de Rogatis
woman-reading
C’è qualcosa che nessun esattore delle imposte, nessun conto in tasca, nessuna illazione sulla privacy o sulle verità biografiche, nessuna ombra di maritale e patriarcale sostegno potranno mai togliere a Elena Ferrante, e a noi lettori (mi riferisco all’inchiesta di Claudio Gatti apparsa domenica sull’inserto culturale del Sole 24 ore e simultaneamente su varie testate internazionali). Non importa che Ferrante sia una donna o un uomo, travestita/o o transgender, etero o omosessuale, che sia un singolo essere vivente o un collettivo. Quello che conta è che lei, nei lunghi anni oscuri (e probabilmente felici) in cui ha scritto L’amore molesto, I giorni dell’abbandono e La figlia oscura, anni in cui i suoi lettori erano pochi, anni in cui il suo futuro successo era imprevedibile, ha scelto di rappresentarsi come autrice e quindi anche come donna in tutte le sue dichiarazioni pubbliche e in tutti i suoi autocommenti (basta leggere La frantumaglia).

In un paese come l’Italia, in cui la casta maschile del giornalismo, dell’editoria e dell’accademia impedisce la visibilità (e direi anche proprio il rispetto) delle nostre scrittrici – e ne abbiamo avute e ne abbiamo di straordinarie e di notevoli (sono infatti studiate in tutti i Dipartimenti universitari di letteratura italiana contemporanea, ma all’estero, a parte alcune lodevoli eccezioni italiane) –, Elena Ferrante ha scelto di essere una di loro. Per molto tempo, ha scelto quindi di contare di meno: ha avuto meno opportunità di pubblicazione, è stata etichettata come una scrittrice rosa, è stata ignorata dagli inserti culturali. Al di là di Ferrante, la cui iniziale marginalità fu comunque anche mitigata da alcuni riconoscimenti significativi (come il premio Elsa Morante), la sua posizione passata e presente ricalca quella precarietà di immagine, quella oscillazione continua tra un primato più o meno riconosciuto e la sua negazione condivise in Italia da tante scrittrici (e non solo…). È il caso per esempio delle reazioni scomposte ed esplicitamente sessiste di molti giurati all’ipotesi della candidatura di Ferrante al Premio Strega, due anni fa, ma è anche – volendo fare un esempio significativo – la parabola di Alba de Céspedes, autorevole direttrice della rivista Mercurio, scrittrice di grande successo in vita, i cui bellissimi romanzi, lentamente ma inesorabilmente assimilati al genere rosa dopo la sua morte, sono scomparsi dalle nostre librerie.

Nonostante tutto ciò, non solo nelle sue narrazioni, ma anche nei suoi tanti articoli e scambi epistolari (come sopra, basta leggere La frantumaglia), Ferrante ha scelto di mettere in forma il mondo da un punto di vista femminile. Sul piano comunicativo (pronominale, sintattico, linguistico, tematico) e sul piano sociale, ha implicitamente affermato che lo sguardo di una donna è decisivo. Questo non glielo potrà, non ce lo potrà mai togliere nessuno. Come potete vedere, includo in questo discorso anche il soggetto collettivo della ricezione, del pubblico, di noi lettori. Perché i lettori italiani di Elena Ferrante in queste ore sembrano avere accolto proprio questa sua eredità. Le dichiarazioni di Loredana Lipperini, Michela Murgia, e del collettivo Wu Ming sono state in questo senso decisive.

Intanto, sui social si è diffusa la protesta contro quello che viene definito un «safari», una «caccia grossa», l’«inseguimento spietato» di una artista trattata come una «criminale». Tutto questo – si legge in tanti post e tweet – non ha chiarito alcunché riguardo ai romanzi ma ha sicuramente tolto serenità alla scrittrice. La domanda che più ricorre è: sarebbe successa la stessa cosa ad uno scrittore di successo che avesse fatto la stessa scelta di riservatezza, di privacy? Probabilmente non in questa forma così violenta, in qualche modo punitiva. Insomma, i lettori italiani condividono un pensiero affine a quello di un certo contesto internazionale, che, dal Guardian a The New Inquiry passando per The Independent, New Republic e The New Yorker , hanno dato la parola a diverse giornaliste, concordi nel definire sessisti i modi della nuova indagine.
C’è poi ancora un aspetto su cui i lettori italiani consuonano con il pubblico globale della scrittrice. Ed è la fame di realtà: un bisogno talmente impellente da spingere spesso i lettori ad abolire il diaframma tra verità e finzione presente nella scrittura e ad attribuire all’autore o all’autrice le vicende e le esperienze dei suoi tantissimi personaggi. Qualcosa di analogo accade anche a Ferrante. Ma con un ingrediente in più. La sua intera scrittura, pur essendo finzionale, si redime totalmente dal sospetto che grava sulla fiction: il sospetto cioè che ciò che lei scrive sia inventato e quindi – per una sorta di equivalenza – artificiale, non necessario, non direttamente parlante di vita vera, di esperienza vissuta. Ferrante arriva a questa totale redenzione perché il suo anonimato – da lei stessa tenacemente perseguito – consente ai lettori un’infinita attribuzione delle vicende narrate alla sua stessa vita. Noi sappiamo che Ferrante ha perseguito questo anonimato per ragioni diametralmente opposte: in nome cioè di una valorizzazione del testo scritto, autonomo e superiore rispetto all’io empirico che lo ha prodotto ed in nome, inoltre, – è bene ricordarlo proprio dopo l’inchiesta di Gatti – del rifiuto di spettacolarizzare la vita privata di questo stesso io empirico. Ancora una volta, le sue dichiarazioni, nella Frantumaglia come pure nelle interviste non incluse nel volume, sono innumerevoli. Ma questo, anche se è paradossale, non conta. La causa ha generato proprio questo effetto inverso, imponendo un nesso strettissimo tra identità segreta e finzione narrativa. Tutta l’impalcatura narrativa ferrantiana ha potenzialmente un contenuto identitario, perché questo contenuto è sottratto alle verifiche del genere: è svincolato cioè dalle leggi etiche di verità e di autenticità che impegnano in genere lo scrittore autobiografico. La narrativa finzionale di Ferrante sprigiona quindi nei lettori una potente fantasia di memoir, una continua connessione tra la vita e le opere. La sua scrittura si pone così paradossalmente (in controtendenza cioè rispetto alle intenzioni programmatiche dell’autrice) come un infinito memoir, perché ogni frammento dei suoi testi può essere testimonianza di una vita vissuta ma ancora tutta da vivere, da inventare, e può dunque stimolare continuamente nel lettore l’attivazione dell’identità. Se questo discorso è valido per tutti i suoi romanzi, lo è ancor di più per il ciclo dell’Amica geniale. In questi quattro volumi viene meno l’uso sistematico del flashback che era la raffinata tecnica narrativa su cui si reggevano, per esempio, i primi tre romanzi e si impone invece una percezione del tempo come cronaca, come minuta registrazione degli eventi. L’orizzonte di senso è garantito dai progressivi passaggi temporali che consentono il romanzo di formazione delle due amiche. Lo stile realistico di questa saga dell’amicizia femminile ha il consapevole effetto di abolire il diaframma tra artificio e realtà. Ferrante si è situata nella linea di confine tra fiction e memoir ed ha esplicitato il continuo travaso della prima nella seconda. In questo modo si è collocata in un’area che la rivista Foreign Policy ha definito nella sua graduatoria (quella che nel 2014 ha collocato EF tra le cento persone più influenti della Terra) come «writing honest, anonymous chronicle».

E sembra invece che proprio su questa delicata linea di confine si sia perso Claudio Gatti. Leggo infatti oggi nuove dichiarazioni, nelle quali il giornalista si definisce appassionato lettore di Elena Ferrante, un lettore chiamato tuttavia da un inderogabile amore per la verità a chiarire che la Frantumaglia è un racconto infarcito di bugie: la madre di Ferrante non sarebbe stata una sarta – come la scrittrice dichiara in questo suo libro – mentre la stessa Ferrante non potrebbe esibire quel titolo di napoletanità autentica che rivendica in diverse pagine dello stesso volume (dal momento che Anita Raja, colei che secondo Gatti si nasconderebbe dietro lo pseudonimo di Ferrante, ha vissuto a Napoli per soli tre anni della propria vita). Mi sento di dire a Claudio Gatti: stia sereno, può dismettere questa sua missione di verità. Perché la Frantumaglia non è una autobiografia. La Frantumaglia è una raccolta di saggi e interviste in cui Ferrante propone una sua idea di scrittura, si riconosce nella sperimentazione di altre scrittrici e scrittori, riflette sul dibattito passato e presente del femminismo, postilla la sceneggiatura di suoi due romanzi (L’amore molesto e I giorni dell’abbandono) con i rispettivi registi (Mario Martone e Roberto Faenza), polemizza con altre poetiche e altre visioni politiche e sociali. In alcune di queste pagine, tra l’altro, dichiara talvolta – è vero – di avere una madre sarta. Bene. Può anche darsi che questo non sia vero, può anche darsi che Ferrante per proteggere la propria privacy abbia elaborato una sorta di vita verosimile (non del tutto falsa ma neanche del tutto vera, quindi), coerente cioè con le identità femminili e napoletane messe in scena nei suoi romanzi. Ma se così fosse, le cosiddette parziali bugie non potrebbero essere ricondotte alla rottura del patto di verità che ogni scrittore autobiografico stringe con il lettore, quando decide di raccontare la propria vita. Perché – ripeto – la Frantumaglia non è la narrazione di una vita, ma un percorso di riflessione sulla propria scrittura, su quella altrui (un largo spazio, per esempio, è dedicato ad Elsa Morante) e sul proprio bisogno di anonimato. Insomma, oggi è un bel giorno per Claudio Gatti, perché può liberarsi da questa ansia di verità, può togliersi l’impermeabile da ispettore Derrick o da tenente Colombo e godersi quello che la Frantumaglia è.
Non sappiamo se e cosa scriverà ora Ferrante. Ma di certo continuerà a resistere all’assimilazione della letteratura alle logiche dello star system. E i suoi tanti lettori, italiani e non, sembrano aver scoperto, proprio grazie a questa indagine, che la fame di realtà è un bisogno legittimo che muove le nostre esistenze ma non potrà mai essere soddisfatto dalla violazione della vita altrui.

Versione italiana, parzialmente rielaborata e ampliata, di un testo apparso in inglese sul website The Conversation< .

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13 Commenti

  1. Grazie per la lettura intelligente del “caso” Elena Ferrante.
    Il mistero dell’identità fa pensare a Delia nell’amore molesto.
    Napoletana.
    In realità la vera identità è nel cuore di Napoli.
    Mi piace che Elena Ferrante sia una voce.
    Una voce immaginaria senza la foto abituale della copertina, senza intervista alla tv o alla radio.
    Un talento.

    • Cara Helena, grazie. Sono due articoli molto interessanti, il secondo ha anche una sua intensità stilistica. Mi interessa molto questo lavoro che entrambe fanno sulla costruzione del discorso sessista.

        • Ritrascrivo un brano che è già nel mio intervento. Basta cliccare nel mio pezzo sui giornali in questione e appare tutto il dibattito. Si può dimostrare il sessismo? Sì, se uno magari comincia a leggere il materiale messo a disposizione.
          “insomma, i lettori italiani condividono un pensiero affine a quello di un certo contesto internazionale, che, dal Guardian a The New Inquiry passando per The Independent, New Republic e The New Yorker , hanno dato la parola a diverse giornaliste, concordi nel definire sessisti i modi della nuova indagine”.

          • Io non leggo l’inglese così bene, ho cominciato a leggere l’articolo di Winterson sul Guardian, e anche nei commenti ci sono molti che contestano la pista sessista. Nel tuo pezzo non spieghi in nessuna parte perché questa indagine è sessista, ti limiti a dire che alcuni hanno detto che è sessista. Basta questo? Nel pezzo su New republic, Shane parla di animosità sessista di Gatti (su quali basi?); poi scrive che la questione di genere è evidente: i libri di Ferrante parlano di soprusi maschili, Gatti è l’espressione di tali soprusi (chiaro, no?), il suo movente è un tentativo di mettere le donne al loro posto (ancora, su quali basi?); Kathrine Angel dice secondo Gatti le donne non hanno diritto alla privacy (davvero è così?). In quello che ho letto non c’è alcuna spiegazione, né argomentazione.

          • Se lei non legge l’inglese, può allora leggere proficuamente l’italiano nel quale sono scritti gli articoli di Lipperini e Michela Murgia, come pure gli interventi del collettivo Wu Ming (sempre da me citati). In ogni caso, se lei si aspetta di capire la questione solo ogni qual volta trova la parola “sessismo”, oppure ogni qual volta i commenti non contestano il punto di vista di chi parla di sessimsmo, rimarrà – temo – piuttosto deluso. Essendo il sessismo una violenza esplicita ma anche epistemica, strutturale, produce una retorica disseminata, diffusa. Ed è quindi necessario metterlo in discussione con una retorica a volte frontale a volte altrettanto disseminata. Io, per esempio, ne ho parlato in questo passaggio (“Al di là di Ferrante, la cui iniziale marginalità fu comunque anche mitigata da alcuni riconoscimenti significativi (come il premio Elsa Morante), la sua posizione passata e presente ricalca quella precarietà di immagine, quella oscillazione continua tra un primato più o meno riconosciuto e la sua negazione condivise in Italia da tante scrittrici (e non solo…). È il caso per esempio delle reazioni scomposte ed esplicitamente sessiste di molti giurati all’ipotesi della candidatura di Ferrante al Premio Strega, due anni fa, ma è anche – volendo fare un esempio significativo – la parabola di Alba de Céspedes, autorevole direttrice della rivista Mercurio, scrittrice di grande successo in vita, i cui bellissimi romanzi, lentamente ma inesorabilmente assimilati al genere rosa dopo la sua morte, sono scomparsi dalle nostre librerie.”), ma lei appunto non rintracciando la parola “sessismo” ha fatto presente la totale carenza del mio contributo sull’argomento. In ogni caso, io non intendo parlare del nesso tra sessismo e Ferrante perché ne hanno parlato praticamente tutti, in tutti i loro interventi che precedevano e seguivano il mio.

          • Mi pare un modo di argomentare piuttosto bizzarro. Intanto io leggo l’inglese (non benissimo), e ho letto i pezzi. Li ho citati (ho citato male o mi è sfuggito qualcosa di quelli che ho citato?). Nessuno di quelli che ho letto argomenta la scelta di definire sessista l’indagine di Gatti. Lo si afferma e basta. Lei nel suo articolo riporta questi articoli, e tanto basta a dire che l’indagine è sessista. Le sembra un modo accettabile di discorrere? Ci basiamo sulla fiducia? Gli articoli in italiano li ho letti, e sono dello stesso avviso, nessuno spiega perché questa indagine è sessista. Lo si afferma e basta, anzi, si fa capire che all’estero, dove evidentemente sono più avanzati di noi su queste questioni sono tutti concordi: l’indagine è sessista. Ancora più bizzarro è dire che siccome il sessismo è strutturale, allora se ne deve parlare in un certo modo. Da questo punto di vista anche il mio commento può essere preso come espressione sessista, se tanto è strutturale, a che serve discutere e distinguere (operazione fatta dai Wu Ming su twitter: se neghi sei sessista; se a negare è una giornalista?: Wu Ming – mansplaining al contrario, paradossale). Io so, o credo di sapere cosa sia il sessismo, quindi non voglio capire la questione del sessismo, vorrei capire dove sta il sessismo nell’inchiesta di Gatti. Ho sentito del caso Ferrante, ho letto le critiche all’inchiesta; poi ho cominciato a leggere le accuse di sessismo. Se il sessismo c’è è possibile spiegarlo in quattro parole, o in un articolo, in ogni caso lo si spiega o si prova a farlo. Se si citano altri articoli che non spiegano, il risultato è lo stesso. Se non si è in grado di farlo, stiamo alle congetture. L’accusa di sessismo è grave, e comporta delle prove a carico, non una retorica disseminata. La vicenda di Alba de Céspedes in che modo è significativa? A me pare che diventa significativa solo se si vuole mettere tutto insieme (è questa la retorica disseminata?). Ma è un modo corretto di fare? Va tutto insieme? Oppure è un modo di darsi ragione a prescindere mettendo assieme i pezzi che confermano la propria tesi?

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Helena Janeczek è nata na Monaco di Baviera in una famiglia ebreo-polacca, vive in Italia da trentacinque anni. Dopo aver esordito con un libro di poesie edito da Suhrkamp, ha scelto l’italiano come lingua letteraria per opere di narrativa che spesso indagano il rapporto con la memoria storica del secolo passato. È autrice di Lezioni di tenebra (Mondadori, 1997, Guanda, 2011), Cibo (Mondadori, 2002), Le rondini di Montecassino (Guanda, 2010), che hanno vinto numerosi premi come il Premio Bagutta Opera Prima e il Premio Napoli. Co-organizza il festival letterario “SI-Scrittrici Insieme” a Somma Lombardo (VA). Il suo ultimo romanzo, La ragazza con la Leica (2017, Guanda) è stato finalista al Premio Campiello e ha vinto il Premio Bagutta e il Premio Strega 2018. Sin dalla nascita del blog, fa parte di Nazione Indiana.
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