Ciliegie

di Mario Schiavone

ciliegie1

Da circa sei mesi esco di casa tutti i giorni feriali e fingo di avere una vita che non ho più. Dopo la doccia mi vesto, poi indosso la mia giacca ben stirata e prendo l’agenda. Scendo nel cortile del condominio metto in moto l’automobile e raggiungo la fermata dell’autobus del primo quartiere che segue la zona in cui vivo, per non farmi notare dai vicini.
Salgo sull’autobus e percorro la strada che una volta mi portava al magazzino di libri in cui lavoravo come capo magazziniere. Poco prima di arrivare al magazzino suono il campanello dell’autobus e scendo alla fermata che sta all’ingresso del parco.

Appena sono fra gli alberi mi metto a camminare cercando di non pensare ai miei problemi. La verità è che quando sono disperato e non voglio pensare alle cose brutte i pensieri negativi si presentano puntuali come un esattore delle tasse. Da quando non ho più un lavoro ho cominciato a conservare anche i centesimi che trovo nelle tasche degli abiti che non indosso più: sono diventato l’esattore del debito che ho nei confronti della mia vita.
“La gente non compra più libri per concorsi, preferisce fotocopiarli o usare internet per scaricare i quiz”- mi ha detto un giorno il titolare della mia azienda. Due settimane dopo la consegna della lettera in cui annunciava il mio licenziamento. L’hanno data proprio a me che lavoravo sentendomi come uno che doveva sistemare le pietre nel letto di un fiume secco. Lavoravo spostando per ore, giorni, mesi i libri che riempivano gli scaffali del magazzino in cui stavo per dieci ore al giorno. E quando arrivava l’estate mi pareva di stare inginocchiato in un fiume secco a sistemare i sassi che stanno sul fondo. Mi piaceva lavorare in quel modo. Era bello sentirsi artigiani di una grande costruzione. Poi è finito tutto.
Quando la sera a cena l’ho detto a mia moglie si è chiusa in camera e non mi ha più aperto fino all’alba. Mi sono ritrovato a dormire sul divano della cucina. Tutto questo accadeva quando ancora avevamo una casa in cui ogni spazio aveva un proprio nome. Adesso io e mia moglie viviamo in una piccola mansarda il cui affitto è sostenuto dai soldi della pensione di mia suocera. Trenta metri quadrati di sottotetto in cui muoversi fra l’angolo del piano cottura della piccola cucina, il letto matrimoniale da una piazza e mezza e un bagno con una piccola doccia ricavata fra il water e il lavandino. Il televisore lo abbiamo comprato ad un mercatino dell’usato e per fare le lavatrici ci serviamo di una grande valigia cinese con cui portiamo tutti gli abiti alla lavanderia a gettoni gestita da una famiglia araba che vive nel nostro stesso quartiere.
Da una grande casa a un piccolo bunker che ricorda i nascondigli dei latitanti, mentre noi che siamo persone senza problemi con la giustizia ci nascondiamo dai vecchi amici che ci cercano ancora. Vogliono sapere come stiamo, quanti soldi abbiamo in banca, dove andremo in vacanza la prossima estate. Discorsi che io e mia moglie non possiamo più permetterci, perché sono un ricordo più sbiadito di vecchie foto sviluppate su carta di cattiva qualità. Come immagini che perdono la loro vivacità con il passare degli anni. A noi due, per perdere i colori della nostra vita sono bastati pochi mesi. E questo fotomontaggio di mondo in cui ci troviamo è triste e statico come un diorama costruito dalle mani di un artigiano ormai stanco.
Ad esempio, stamattina, il prezzo delle ciliegie di prima scelta era di 4 euro al chilo. Per completare un pranzo bisognava avere in tasca almeno 4 euro con cui comprare un chilo di felicità formato frutta.

Succo alla pera per me (45 centesimi al litro, provenienza discount).
Latte allungato con acqua di rubinetto per mia moglie( provenienza del latte: mucche dei pascoli di paesi dell’est Europa).
Questa la nostra colazione prima di scoprire che in casa non era rimasto altro da mangiare se non un panetto di burro scaduto, tre pezzi di pane ormai duri e due fette biscottate ammorbidite dall’umidità che si allarga a goccia dietro il mobile della cucina. Abbiamo contato quanti soldi erano rimasti nel salvadanaio di casa, il giorno dopo aver pagato una bolletta del metano da riscaldamento ormai scaduta da due mesi, per scoprire che in casa avevamo solo due euro.
Dopo l’ennesimo litigio con mia moglie, che mi ha accusato ancora una volta di non essere capace di trovarmi un nuovo lavoro con cui provvedere alla nostra sussistenza, sono uscito di casa con in tasca i due euro per cercare di comprare qualcosa da mangiare per il pranzo. Sono andato da Gino, il titolare di un negozio di generi alimentari aperto anche la domenica. Fuori al negozio, nell’angolo della frutta, ho notato due cassette di ciliegie.
Su una c’era un grande cartello battuto a computer con sopra scritto:
Ciliegie di prima scelta, 4 euro al chilogrammo. Brillavano come piccole pietre preziose di colore rossastro.
Sul secondo un piccolo cartellino marcato a penna blu faceva leggere:
Ciliegie seconda scelta 1,50 euro al chilogrammo. Costavano di meno ma erano di un colore così spento che sembravano fatte di cartapesta.
Ho chiamato Gino e gli ho detto di darmi 2 euro di ciliegie economiche. Sono rientrato a casa e le ho mostrate a mia moglie. Le ha subito immerse nell’acqua e mentre faceva la cernita per separare le macchiate dalle buone l’ho sentita prima singhiozzare, poi soffiarsi il naso.
-Ce la faremo, questo periodo buio passerà.- le ho detto io.
-Non lo so. – ha risposto lei.
Poi ha smesso di lavare le ciliegie è andata in bagno con fare veloce e inchinandosi sulla tazza ha vomitato.
Mentre lei vomitava ho assaggiato una ciliegia: era amara come un pezzo di fegato mal cotto. Ho bevuto un bicchiere d’acqua di rubinetto, poi sono uscito di casa senza dire niente a mia moglie. In strada un testimone di geova mi ha fermato e mi ha allungato un giornale chiamato Torre di Guardia. Sulla copertina un titolo in stampatello grande che diceva: LA VITA CHE SALVI POTREBBE ESSERE LA TUA. Ho piegato il giornale e l’ho messo in tasca senza dire niente allo sconosciuto che mi aveva fermato. Mi sono rimesso a camminare e mentre mi allontanavo pensavo. Ho passeggiato a lungo per le strade della mia città fino al tramonto, quando il sole che cala dietro i palazzi lontani si porta via tutti i pensieri della giornata. Camminato per ore prima di rientrare, per poi provare a contare le nuvole che mi apparivano come creature viventi nel cielo.

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7 Commenti

  1. uno sguardo lucidissimo e limpidamente poetico sulle nuove poverta’ e sulla grande menzogna
    delle “ripartenze” qui, in riva al “migliore dei mondi”. Mario Schiavone ha il ritmo, lo stile appropriato e il respiro adatto ad “affrescare”, attraverso la forma racconto, questa grande menzogna. Quando se ne accorgera’ la grande editoria?

  2. È indubbiamente d’impatto questo racconto, ma state pur certi che se uno non ha i soldi per comprarsi da mangiare, l’automobile l’ha già venduta da un pezzo.

  3. un quadro sospeso tra il ricordo paradossale di due quotidianità, quella faticosa ma poetica del ricordo cartaceo (vi riecheggia il Hrabal di “una solitudine troppo rumorosa”) e quella presente, arsa negli spazi non arginati del pensiero, mentre i frutti delle ore battenti, strappati al loro sapore originario, rimangono tali solo nel nome. Complimenti.

  4. faccio la doccia. mi asciugo,mi vesto..
    ??????suono il capanello dell’autobus….ma non bastava…scendo alla fermata.
    pensieri negativi….come un esattore delle tasse…Cos’é una metafora?…
    Due settimane dopo ecco che arriva…Era meglio no? Mi fermo qui.

    • Carlucci , se lei avesse una depressione o sindrome
      da reificazione, forse capirebbe la fissazione ossessiva sui gesti, sulla frammentazione del se’, che cerca rassicurazione proprio nella sequenza “banale” dei gesti ordinari, da automa, nell’illusione di sfuggire alla propria in/esistenza. Qui è il personaggio “Io” che viene rappresentato,in quello scacco, nello spazio e nella misura minima del racconto, attraverso uno stile mimetico/realistico, minimale….e tuttavia quelle ciliege “esprimono” tutta la tragica brutale banalita’ della condizione di milioni di persone, nello “qui’ e nell’ “ora” dei nostri giorni e nelle nostre strade, grazie alle politiche liberiste che subiamo da un trentennio ormai. Quanto al “modo” e al “come” del racconto qui, è una scelta di stile, se n’è accorto? Per me non poteva essere diverso da come e’ stato scritto, parola per parola. I “tagli” che propone avrebbero cancellato la sua espressivita’/significanza. Non sarebbe stata piu’ letteratura.

  5. Non avevo preso in considerazione la sua prospettiva…..giustificata e giustificabile,,,,Chiedo scusa a lei e all’autore.

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Helena Janeczek è nata na Monaco di Baviera in una famiglia ebreo-polacca, vive in Italia da trentacinque anni. Dopo aver esordito con un libro di poesie edito da Suhrkamp, ha scelto l’italiano come lingua letteraria per opere di narrativa che spesso indagano il rapporto con la memoria storica del secolo passato. È autrice di Lezioni di tenebra (Mondadori, 1997, Guanda, 2011), Cibo (Mondadori, 2002), Le rondini di Montecassino (Guanda, 2010), che hanno vinto numerosi premi come il Premio Bagutta Opera Prima e il Premio Napoli. Co-organizza il festival letterario “SI-Scrittrici Insieme” a Somma Lombardo (VA). Il suo ultimo romanzo, La ragazza con la Leica (2017, Guanda) è stato finalista al Premio Campiello e ha vinto il Premio Bagutta e il Premio Strega 2018. Sin dalla nascita del blog, fa parte di Nazione Indiana.
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