Dentro una bara

di Orazio Labbate

Il mio nome è Rufus Wright e sono il becchino di Oakdale da quasi vent’anni. Vivo sepolto in una bara da ormai sette mesi e aspetto di morire. È autunno e il tornado appena arrivato dalle coste dell’ovest mi ammazzerà nonostante la cassa sia in legno di quercia, l’imbottitura a sacco in raso nero, il cuscino di seta porpora profumato di crisantemi, il cofano sia lavorato con tessuti di pregio. Discendo da una famiglia di necrofori che possiede da cent’anni la Franklin Wright & Sons’ Funeral Home. Ho imparato l’arte del becchino sin da piccolo. Franklin, mio padre, mi ha insegnato a vestire i corpi freddi perché non avessi timore del contatto, a guardarli dritto negli occhi per sapere dove andranno nell’aldilà, a seppellirli nelle fosse per sconfiggere presto la paura del cimitero. Ricordo che alla fine di una di quelle lunghe giornate di apprendistato, quando ero già a letto, Franklin usava dirmi: “Rufus, ricorda che gli occhi di un cadavere ti fanno vedere l’anima del dipartito nell’aldilà”. Io gli rispondevo: “Padre, li guarderò tutti e nei tuoi scorgerò il Paradiso”. Mio padre era alto come gli angeli di pietra dei cimiteri, aveva il naso come il becco della maschera dei medici della peste. Il viso, scavato, possedeva ossa puntute. Mio padre era un serafino scheletrito. Franklin purtroppo è morto il giorno stesso in cui ho deciso di farmi seppellire. L’ho trovato di notte nell’agenzia funebre di famiglia. Le luci erano spente e stava disteso per terra con la bocca spalancata ai piedi di una bara aperta. La fiamma rossa dei lumini vibrava nel buio della stanza e l’ombra del coperchio della cassa era proiettata sul muro. Mi sono piegato e ho provato a guardare didentro gli occhi di Franklin, come mi ero promesso da ragazzo. Nelle orbite di mio padre c’era l’Inferno. In quell’istante pensai: “Eppure Franklin non era un uomo cattivo, amava addirittura i cani che dormivano davanti alle lapidi. Nutriva le bestie con gli scarti del macellaio McCulloch durante la veglia cimiteriale”, continuai inquieto, “forse tutti noi, Wright, siamo condannati a discendere agl’inferi poiché lavoriamo coi morti?”. Non volevo morire senza sapere cosa vaticinassero i miei occhi, con la paura di lasciare la mia famiglia esposta a un’eventuale immagine orribile di me nell’aldilà. Così chiesi ai miei due fratelli assistenti, Nathaniel e Mortimer, l’unica mia famiglia, di rinchiudermi in una bara insieme ad uno specchio di cortesia d’argento affinché possa rifletterci l’iride un secondo prima della mia morte e soffrire da solo della mia visione infernale qualora si fosse mostrata.

Ci siamo subito occupati del cadavere di nostro padre in modo da essere liberi in vista della mia sepoltura. Abbiamo unto Franklin con del balsamo aromatico per preservarlo dalla putredine, l’abbiamo avvolto con un lenzuolo nero che utilizzava le prime notti di riposo come giovane guardiano del cimitero di Oakdale. Poi Nathaniel l’ha adagiato in una bara di frassino e Mortimer per ultimo ha posizionato la cassa nel cofano della Pilato Mercedes che ha guidato fino al cimitero. Ho aperto con difficoltà il cancello del cimitero con la chiave rugginosa che nonno Jedediah diede a mio padre e che Franklin affidò a me. Il cielo stellato veniva piano offuscato dai cumulonembi mentre il vento che vorticava veloce davanti ai mausolei annunciava un ciclone. Le stelle stavano per essere deglutite dalla tempesta. Io Nathaniel e Mortimer abbiamo caricato sulle spalle la bara e percorsi tutti i vicoli siamo arrivati nel mausoleo della nostra famiglia. La stanza all’interno era adornata di candele cerimoniali, l’involucro dei lumini, posizionati sul coperchio di marmo della tomba di nonno Jedediah, colorava il luogo di rosso melograno. I fiori rilasciavano un odore di polline invecchiato. Ho sollevato dalla bara, aiutato da Nathaniel, il corpo di Franklin e dolcemente l’abbiamo fatto riposare nella sua tomba. Mentre noi uscivamo dal mausoleo Mortimer si occupava di incassare bene la pietra tombale marmorea e di chiudere il cancelletto della stanza. Ultimate le incombenze sepolcrali ci siamo diretti nella camera obitoriale nella quale Franklin custodiva le nostre tre bare in vista di un ipotetico funerale. Una volta arrivati, Nathaniel mi chiese: “Rufus, vuoi che utilizziamo una di queste o ne vuoi una di frassino?”. “Nathaniel voglio quella di quercia al centro, con le imbottiture purpuree”. “Che tipo di chiodi preferisci: chiodi da carpentiere o chiodi da falegname?”, mi domandò Mortimer mentre apriva il cassetto degli attrezzi. “Chiodi di rame per falegname”. Intanto che loro lavoravano, io mi premuravo a rubare lo specchietto di cortesia d’argento di mamma che Franklin conservava nella The Hall’s Safe Co, la vecchia cassaforte di Cincinnati che nonno gli aveva regalato per il suo sessantesimo compleanno. Mamma si chiamava Rosemary ed è morta di cancro quattro anni fa. Franklin non si è più ripreso, passava il tempo in agenzia nello stanzino delle bare a guardare nello specchietto d’argento credendo di vederla alle sue spalle nell’atto di baciargli la testa. Mio padre ha smesso di non avere paura della morte quando Rosemary è morta. Aperta la cassaforte ho raccolto lo specchietto inserendolo nella tasca interna della mia giacca nera e ho preso anche una matita nera che ho conservato senza pensarci. Il mio riflesso era metà scuro metà illuminato. La candela rossa sul tavolo da lavoro accendeva la mia faccia. Nella camera obitoriale Nathaniel e Mortimer avevano finito di preparare e imbottire la bara. “Rufus, sei sicuro?”, disse Mortimer. “Sì. Sono pronto fratello.”. “Allora Rufus, adagiati nella cassa. Prendi questo rosario, questa manciata di semi di girasole per smorzare la fame e quest’accendino. Ci vediamo in Paradiso, Rufus, non preoccuparti. Ti vogliamo bene”. Mi sono sdraiato all’interno della bara con in mano lo specchietto d’argento di mamma. I cuscini e il velluto dei rivestimenti mi accarezzavano il collo, sentivo la morbidezza del poggiapiedi di seta. Nathaniel cominciava a rinchiudermi dentro, vedevo il coperchio che nascondeva alla mia vista il soffitto della camera mentre i chiodi penetravano agli angoli inferiori e superiori della bara. Poi il buio. Solo qualche rivolo di luce appannata penetrava da dei piccoli fori applicati da Mortimer sulla cassa perché di tanto in tanto respirassi. Sentivo oscillare la cassa come un neonato nella sua culla. Fuori cominciava a piovere e il vento cresceva di forza. L’acqua entrava leggermente dai buchi. La bara vibrava quando i tuoni suonavano in cielo.

Poi ho sentito il tonfo del suolo e la bara nella sua fossa. Subito dopo grappoli di terriccio seguitavano a sbattere contro il coperchio come grandine e infine un massiccio botto sul coperchio dichiarava la fine della mia sepoltura segno che dell’argilla riposava sulla bara. Ero finalmente sotto terra.

Come vi ho annunciato sono passati sette mesi da quel giorno e il mio ventre si fa scheletrico. Il mio cuore è una piccola bara. Vuole fuoriuscire ma è inchiodato e destinato presto a spegnersi sottoterra. Qui, per non impazzire, ho inventato il sole. Il sole che mi immagino quando muovo la fiamma dell’accendino verso il coperchio. Mi sento in una celletta abbandonata di un’abbazia vuota. Nei bisbigli del vento sento le ninna nanne che Rosemary mi sussurrava da bambino. Infastidito dai rumorini del legno della bara sollevo un occhio e sogno che la luna vuole entrare. Ah, la luna, qui sotto non esiste. La mia camicia bianca, ai polsi è annerita. E ho un unico grande ricordo, quello del soffitto della stanza obitoriale, dei miei fratelli che mi sotterrano, degli occhi infernali di mio padre. Nella bara l’aria cade sottile. Le mie labbra procedono a rattrappirsi e torco il polso perché le ossa si possano distendere. Il legno subisce la terra che grossa sfonda lentamente le assi bagnate. La mia schiena sprofonda.

Sto annegando nella terra bagnata”, penso. “Ti ho offeso Dio per meritarmi l’Inferno? Tale pena perché sono un becchino?”, urlo. Frattempo tremano particelle di legno. Il legno di quercia soffre i cedimenti delle stagioni passate. “Dove sei, Dio? Sei sottoterra?”, grido di nuovo. Pezzettini di terra si insinuarono nelle mie pupille e comincio a dibattermi nell’adagio triste tipico di un pesce in superficie. Mi manca l’aria. Il pesce dei Wright buttato in una bara. Dal di fuori arriva il boato del tornando autunnale che si abbatte contro le lapidi che perdono pietra e marmo. Mi chiedo con la voce ormai stanca: “Chissà dov’è finita Rosemary? È anche lei all’Inferno?”. Mi concentro sulle mie scarpe di cuoio, sento i muscoli ammalarsi in uno strappo. Perdo forza. Le scarpe di cuoio stritolano i miei piedi. I capelli ricadono davanti a me scomparendo nel fondo della bara. Tasto le profondità del terriccio penetrato adesso vicino ai miei fianchi. La fame m’ammazza. Sono finiti i semi di girasole da ormai tre mesi. Divoro insetti e cose alle quali ho strappato le ali. Prima di prendere lo specchietto passo questi ultimi secondi con gli occhi chiusi, mi invento le stelle che disegno con una matita sul legno della bara e creo divinità che stavolta mi daranno il Paradiso negli occhi, penso alla mia famiglia che spero avrà negli occhi il Paradiso. A mio padre che a breve rivedrò piangere nel buio dell’Inferno ma che non accarezzerà i cani del cimitero di Oakdale. Avvicino lo specchietto d’argento, i polsi tremano, le palpebre si stanno chiudendo, decido alla fine di non riflettermi. “Chi se ne importa dove andrò, in questa vita ho amato bare e uomini alla stessa maniera”, penso. Il tornado inizia a strappare le radici degli alberi sopra di me. Lascio lo specchietto d’argento tra le mie mani arrese come quelle di Cristo tra le braccia di Maria. Stringo lo specchietto e finalmente dico grazie all’ultimo respiro che mi è rimasto: “Dio, Franklin, Rosemary, Nathaniel, Mortimer. Vi voglio bene”.

  • “Dentro una bara” fa parte della raccolta di recente pubblicazione “Stelle ossee” (LiberAria, 2017).
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1 commento

  1. Grazie @mariasole per la pubblicazione di questo brano di Orazio Labbate, autore che non conoscevo e che ora approfondirò. Provengo da una vita di scrittura, esercitata in parallelo alla professione che mi garantiva il sostentamento (Art Director in pubblicità), grazie alla quale conobbi Wim Wenders che mi convinse ad industriare la mia creatività in ambito di scrittura cinematografica. Ottenni l’obiettivo a metà dei 90 come ghost writer. Vicissitudini mi portarono poi ad occuparmi di lottare contro la violenza sulle donne con la penna. Ma ora vorrei fare un’altra svolta: lasciarmi alle spalle il dolore e ricominciare con la narrazione. Ecco a cosa mi induce questo Labbate, grazie :)

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Mariasole Ariot ha pubblicato Essendo il dentro un fuori infinito, Elegia, opera vincitrice del Premio Montano 2021 sezione opera inedita (Anterem Edizioni, 2021), Anatomie della luce (Aragno Editore, collana I Domani - 2017), Simmetrie degli Spazi Vuoti (Arcipelago, collana ChapBook – 2013), poesie e prose in antologie italiane e straniere. Nell'ambito delle arti visuali, ha girato il cortometraggio "I'm a Swan" (2017) e "Dove urla il deserto" (2019) e partecipato a esposizioni collettive.  Aree di interesse: letteratura, sociologia, arti visuali, psicologia, filosofia. Per la saggistica prediligo l'originalità di pensiero e l'ideazione. In prosa e in poesia, forme di scrittura sperimentali e di ricerca. Cerco di rispondere a tutti, ma non sempre la risposta può essere garantita.
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